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Autore: Laylath    15/03/2014    4 recensioni
Eppure a guardare più da vicino i ragazzi di quella realtà, ci si sarebbe accorti che le loro esistenze non erano così scontate: i piccoli grandi problemi dell’infanzia e dell’adolescenza a volte andavano ad intrecciarsi con situazioni difficili, dove spesso il legame con un amico fidato era la cosa migliore per poter andare avanti.
E spesso le persone più impensabili stringevano un forte legame tra di loro per uno strano susseguirsi di eventi, all’apparenza così normali… anche se poi viverli era tutt’altra cosa.
Genere: Generale, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Team Mustang
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Un anno per crescere'
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Capitolo 41. Non stare a guardare.

 

“Che cosa? – esclamò Jean – E me lo dici solo adesso?”
“Non potevo farlo con Janet presente – scosse il capo Heymans, mentre si fermavano nel cortile della scuola – si sarebbe spaventata.”
“Ma come si sente? Si sa qualcosa?” gli occhi azzurri del biondo erano dilatati dalla preoccupazione.
“No, so solo che ieri sera il medico ha permesso che venisse portato a casa. Ecco… – esitò –  ha parlato di amputazione se le cose si mettono male.”
“No, non andrà cosi, vero Heymans? Vero?”
“No, non deve andare così, però…”
“Ciao, ragazzi – salutò Vato, avvicinandosi con Elisa e Riza – avete visto Roy?”
“No, ma siamo appena arrivati – spiegò Heymans – avete notizie?”
“Niente di nuovo – scosse il capo Riza, estremamente pallida e col volto teso – non so che fare…”
“Dai, Riza – la consolò Elisa, passandole un braccio attorno alle spalle – vedrai che si sistema tutto.”
Ma nessuno ebbe il coraggio di dire altro: il silenzio aleggiava tra di loro, incapaci di accettare una cosa così terribile come quella che stava capitando al più piccolo del gruppo.
“Ciao ragazzi.” salutò Roy, affacciandosi al muretto della scuola.
“Roy, perché sei vestito così e non hai la tracolla?” chiese Riza avvicinandosi a lui.
“Oggi non vengo a scuola, ero a casa di Kain fino a una mezz’ora fa…” iniziò, ma subito venne sommerso da decine e decine di domande impazienti.
Lui scosse il capo, aveva solo voglia di tornare a casa e farsi un bagno caldo per poi infilarsi di nuovo il pigiama e mettersi sotto le coperte. A casa dei Fury aveva dormito solo due orette, per il resto era rimasto anche lui a vegliare Kain.
Per favore, signora, lasci restare anche me. Le giuro che non sarò di nessun impiccio.
“Allora, dicci qualcosa!” lo spronò Jean.
“Beh, lui ha la febbre parecchio alta e pare che questo sia dovuto all’infezione – disse con esitazione – ma il fatto che l’abbia adesso non significa che durerà ancora: gli stanno dando antibiotici e dovrebbero aiutarlo a guarire.”
“Perché usi il condizionale?” chiese ancora il biondo.
“Perché le infezioni non sono come le normali influenze – spiegò Vato, passandosi una mano tra i capelli – dipende da quanto grave è la situazione della sua ferita: gli antibiotici possono farcela o no, ci sono molti fattori in ballo.”
“E i signori Fury come ti sono sembrati?” chiese Riza.
“Ecco loro… sicuramente sono molto in pensiero, ma si stanno prendendo cura di lui in maniera fantastica, sul serio. Sua madre non lascia un momento il suo capezzale e così suo padre.”
Non raccontò loro della questione della penna, non disse che Kain adesso la teneva stretta nella mano sana e questo sembrava averlo calmato leggermente. Riteneva quella questione ancora aperta, ma da rimandare non appena il bambino fosse stato meglio.
Perché quella penna nella miniera non è finita da sola e non ce l’ha portata di certo Kain.
“Bene, mamma sarà contenta di avere queste novità – disse Heymans, distogliendolo da quei pensieri – ieri sarebbe voluta andare all’ambulatorio, ma Henry stava così male che non poteva lasciarlo.”
“Ah sì? Che è successo?”
“Mah, un crollo nervoso o qualcosa di simile, ma forse è anche influenza dato che gli è salita un po’ di febbre. Ma già stamattina sembrava più tranquillo, l’ho lasciato che dormiva.”
 
Per Kain fu difficilissimo aprire gli occhi e rispondere a quelle voci che lo chiamavano.
Sentiva la testa dolergli in maniera impressionante, in particolare la parte destra.
E’ proprio necessario, mamma? Non posso dormire ancora un pochino?
Cercò di dire quelle cose, mentre la sua mente stordita cercava di capire cosa stesse accadendo e che forse c’entrava qualcosa un compito da fare in classe con la penna o qualcos’altro di importante per il regalo di sua madre. La sua testa non riusciva a connettere i pensieri, anche se le voci continuavano a chiamarlo.
Alla fine riuscì ad aprire debolmente gli occhi, ma quello destro si richiuse quasi subito per il senso di pesantezza che lo opprimeva.
“Pulcino – lo chiamò Ellie – amore mio, come stai?”
“Mamma…” mormorò con le labbra secche che gli diedero enorme fastidio.
Ma come sempre sua madre era prontissima per queste evenienze e subito un panno umido gli fu passato sulla bocca. Il contatto con la parte destra gli fece malissimo.
“Piano, tesoro – gli consigliò la donna – hai la parte destra del viso gonfia.”
Quelle parole si accompagnarono al corpo che, piano piano, tornava cosciente e consapevole e dunque arrivò la scarica di dolore, soprattutto dalla gamba che iniziò a pulsare e a bruciare. Cercò di muoverla ma fu come se una lama la trafiggesse e questo lo fece gemere di dolore.
“Kain – la voce di suo padre fu l’ultima cosa che sentì – fatti forza, figliolo.”
Ma la sua mano sinistra si strinse e trovò il contatto rassicurante con la penna.
Non era andata perduta come aveva creduto.
 
Hayate mangiava dalla sua ciotola, facendo ben attenzione a non farsi sfuggire nemmeno il più piccolo pezzetto di carne che la sua padrona gli aveva tagliuzzato. Ogni tanto i suoi occhietti scuri e vispi lanciavano occhiate amorevoli alla ragazzina che stava accovacciata accanto a lui e lo fissava con aria pensosa.
L’ora di pranzo era già passata da un pezzo, ma Riza non aveva toccato cibo: aveva preparato uno stufato e ne aveva portato una porzione a suo padre, ma il suo piatto giaceva intatto nel tavolo.
Era molto preoccupata per quello che stava succedendo a Kain e non potergli stare vicino, aiutare i suoi genitori, la faceva sentire estremamente impotente. Continuava a pensare a quanto erano stati premurosi con lei quando si era ammalata, a tutte le attenzioni che le avevano dato con un amore così tangibile e sincero da lasciarla senza parole.
E adesso era successo questo.
Kain, il suo piccolo adorato amico, il fratellino che amava con tutta se stessa: era per merito di quel bambino che tutti loro si erano uniti, inconsapevole palla di neve che era diventata una valanga di rapporti tra persone che prima non si consideravano. Solo lei se ne rendeva conto? Nessun’altro capiva quanto quel bambino fosse stato fondamentale per tutti loro?
“Ciao, colombina – fece Roy, affacciandosi alla finestra della cucina – hai pranzato?”
“No.”
“Non dovresti saltare i pasti.” salì agilmente sul davanzale e con un balzo fu dentro la cucina. Hayate fece un lieve scatto nel vedere quel movimento improvviso, ma poi riconobbe Roy e riprese a mangiare.
“Ho lo stomaco chiuso, magari provo a mangiare dopo.”
Nel frattempo il giovane si portò accanto a lei e la imitò nella posa, iniziando a fissare pure lui il cane che terminava di mangiare.
“La parte destra della faccia è tutta raschiata e tumefatta, fa molta impressione vederla, anche se il dottore dice che non è niente di grave; – spiegò dopo qualche secondo di silenzio – adesso ha una maglietta a maniche corte, ma anche nel torso ci sono alcune escoriazioni… e poi c’è il braccio ingessato. La gamba non l’ho vista, era coperta dal lenzuolo e da quello che ho capito ha una leggera fasciatura perché la ferita va controllata almeno due volte al giorno.”
Riza annuì e allungò la mano per accarezzare il dorso del cane.
“La mamma di Kain mi ha perdonato – mormorò Roy, abbassando lo sguardo – lei è fantastica nel prendersi cura del figlio, non credo di aver mai visto tanta gentilezza ed amore in una persona. Inizio a capire perché ti piaccia tanto.”
“Kain è tutta la sua vita – sospirò Riza – ha già rischiato di perderlo quando era molto piccolo e questa tragedia la sta sicuramente distruggendo. Non posso restare a guardare, Roy, non posso… mi sto dicendo da ore che non sono cose in cui mi devo immischiare, ma non è così. Per me loro sono una vera famiglia, come posso non fare qualcosa?”
“Io devo solo scoprire cosa è successo in quella miniera: – dichiarò Roy – Kain non c’è andato da solo, questo è chiaro. Chiunque sia stato se la vedrà con me.”
“Questo non lo aiuterà a guarire – scosse il capo lei, alzandosi in piedi – adesso quello che conta è ben altro, non credi?”
“Scusami, è che… fa veramente male vederlo in quel letto, così piccolo ed indifeso.”
Riza annuì, ma non disse altro: in cuor suo aveva appena preso un’importante decisione.
 
Erano le nove di sera quando mise in atto il suo piano: la sacca con la sua roba era pronta e così la tracolla con il materiale scolastico. Non aveva intenzione di lasciare nulla al caso, non poteva permettersi errori in quella che era una mossa veramente azzardata e fuori dal suo modo di pensare.
Sistemando tutta la roba all’ingresso, tornò in cucina e prese il vassoio con la cena per suo padre.
Entrò nel suo studio con la solita discrezione e lo posò nella scrivania.
“Papà – disse, senza guardarlo negli occhi – per i prossimi giorni io non sarò a casa: vado a stare con un mio amico che non si sente molto bene. Non ti preoccupare, mi porto la roba di scuola e studio senza problemi da lui: in cucina ci sono diverse cose e dunque puoi preparati tutto quello che desideri.”
Gli occhi azzurri di Berthold si volsero su di lei: Riza indietreggiò di un passo ma resse lo sguardo.
Sì, non gli aveva chiesto il permesso, gli aveva semplicemente detto un dato di fatto.
Ma del resto cosa pretendi? Quando sono stata male non sei nemmeno venuto a vedere come stavo…
“Passo a casa qualche volta con della spesa… e torno tra una settimana, massimo una decina di giorni. I genitori del mio amico si prenderanno cura di me.”
“Fai come preferisci, vedi di non arrecare disturbo.”
“Certamente.” annuì lei, dirigendosi verso la porta.
Non si sentì troppo scossa per quel breve scambio di battute: aveva ben altro a cui pensare.
Andò all’ingresso e si sistemò la tracolla e la sacca, quindi uscì nel cortile dove stava Hayate che scodinzolava con curiosità nella sua direzione.
“Adesso andiamo a casa di Kain – gli disse la ragazza, mettendogli il guinzaglio – tu starai nel cortile e farai il bravo: niente abbaiare o fare buche o altro, va bene? Kain sta male e ha bisogno di silenzio e tranquillità.”
Senza perdere altro tempo iniziò la sua camminata verso casa dei Fury.
Le giornate si erano certamente allungate, ma a quell’ora era già buio: fu un bene che ci fosse il cane a farle compagnia perché quello che di giorno era un normale sentiero, di notte, con la scarsa visibilità consentita dal cielo stellato, faceva davvero paura.
Tant’è vero che come vide le luci della casa di Kain, dopo quella che le sembrò un’eternità, tirò un sospiro di sollievo e affrettò il passo.
Andò nel cortile sul retro e levò il guinzaglio al cane, prese dalla sacca una copertina e la mise per terra, proprio accanto al muro.
“Questa è la tua cuccia per questi giorni, va bene? – sussurrò, accarezzandolo ed inducendolo a sdraiarsi – Fai il bravo come ti ho detto: domani mattina vengo a vedere come stai.”
Risolta quell’incombenza e vedendo che la luce della cucina era accesa, tirò un profondo respiro e si preparò ad affrontare i due adulti.
Entrò e vide che c’era Andrew intento a sistemare alcuni piatti nel lavandino.
“Riza?” sgranò gli occhi, vedendola farsi avanti e chiudere la porta.
“Lo so, probabilmente mi prenderà per matta – ammise lei, lasciando cadere a terra la sacca e la tracolla – ma non posso stare a guardare mentre voi siete in difficoltà e Kain sta così male. Mi permetta di restare qui, signore, la prego: voglio rendermi utile.”
“Oh no, piccola mia – sospirò Andrew, capendo la situazione – non mi dire che sei scappata di casa…”
“No, assolutamente – scosse il capo – ho detto a mio padre che andavo a stare a casa di un amico malato e lui non ha fatto obiezioni. Ascolti, sono brava a cucinare, posso preparare i pasti per tutti, lavare i piatti, insomma fare tutto io in modo che voi possiate dedicarvi a Kain senza pensare a queste cose…”
“Tesoro, – la prese per le spalle lui – non è questo che…”
“Mi sono portata anche il materiale di scuola – continuò ostinatamente – studio da sola, senza problemi e non occupo molto spazio: mi va bene anche dormire nel divano. E il cane non farà rumore è bravo e sa stare fuori in cortile senza danneggiare niente.”
“Il cane?”
“Non… non volevo lasciarlo da solo con mio padre… ora è qui fuori, ma sicuramente si addormenterà subito. E per il suo mangiare ci penso io… insomma voi non dovete pensare che…”
Le lacrime iniziarono a colare sulle guance.
“Piccola mia – mormorò Andrew, abbracciandola – che cosa ho fatto per meritare un tesoro come te?”
“Voi mi avete trattato come una figlia, sempre… non potete chiedermi di stare a guardare mentre Kain soffre così tanto.”
“Andrew – fece Ellie entrando in cucina – vai da Kain mentre preparo l’impacco… Riza?”
La ragazzina volse lo sguardo su quella donna che ormai considerava come una madre: vederla così stanca e provata le straziò il cuore e corse immediatamente ad abbracciarla. Sentendo quelle braccia gentili che ricambiavano la stretta si sentì ancora più in dovere di fare qualcosa.
“Signora – disse con decisione, alzando il viso – mi dica cosa devo fare e l’aiuto io con l’impacco che deve preparare.”
“Eh? Ma che cosa succede? Tesoro, dovresti essere a casa: è notte, ormai.”
“Non posso tornare adesso… voi sareste preoccupati se io stessi fuori la notte.”
A quelle parole Andrew sorrise, complimentandosi mentalmente con quella bambina intelligente che gliele stava rivoltando contro. Guardando come Ellie la stringeva, traendo conforto dalla sua presenza, rifletté che molto probabilmente era la cosa migliore da fare, almeno per quella sera.
“Puoi dormire in camera di Kain, signorina – disse, andando da lei e mettendole una mano sulla spalla – ma le condizioni per stare qui sono che obbedirai a tutto quello che ti diciamo noi, chiaro?”
“Chiarissimo.”
“Bene, allora aiuta pure Ellie a preparare l’impacco: io vado da Kain.”
“Grazie, signore – sorrise sollevata la ragazzina – davvero.”
“Grazie a te, piccola mia.” le sorrise di rimando l’uomo.
 
Mentre Riza prendeva in mano la situazione e decideva di fare del suo meglio per Kain, anche gli altri ragazzi a modo loro pensavano al bambino.
Vato sedeva nella sua scrivania, leggendo un libro veramente difficile di medicina: cercava di capire come funzionasse veramente quella storia delle infezioni.
“Ehi, Vato – chiamò Vincent, entrando nella sua stanza – non fare troppo tardi con le letture, va bene? Eh? Ma quello è un libro di medicina…”
“Sto studiando le infezioni – spiegò il ragazzo, tenendo il capo chino su quelle pagine: non aveva mai pensato potesse essere una cosa così complicata – se riesco a capirla bene , forse… forse al dottore è sfuggito qualcosa d’importante e…”
“Per Kain?”
Vato annuì ed il suo indice, bloccato tra delle pagini precedenti, si mosse per aprire il libro in un altro punto.
Vincent si sporse e lesse il titolo di quel paragrafo: amputazione degli arti.
“Non deve succedere – mormorò Vato con voce tremante – non voglio… non voglio…”
“Coraggio, ragazzo mio – sussurrò l’uomo abbracciandolo ed accarezzandogli i capelli – vedrai che andrà tutto bene.”
 
“Ma Kain torna presto a scuola, vero?” chiese Janet, mettendosi controvoglia sotto le coperte.
“Certo, tesoro – annuì Angela, senza però guardarla negli occhi – adesso cerca di dormire, da brava.”
“Janet – fece Jean, entrando già in pigiama – vieni, stanotte dormi con me.”
La bambina annuì sollevata e si alzò immediatamente in piedi nel letto per farsi prendere in braccio. Angela non chiese spiegazioni, gli bastava lo sguardo provato del figlio maggiore per capire che proprio non ce la faceva a restare solo in una simile occasione. Lui e Janet si sarebbero confortati a vicenda.
Arrivato in camera il ragazzo mise la sorella a letto e dopo aver spento la luce si sdraiò accanto a lei abbracciandola.
“Kain sta molto male, vero fratellone?” chiese lei con voce timorosa.
“Sì, Janet, è così.”
A quella risposta la bambina si strinse a lui, ricambiando l’abbraccio.
“Le stelle cadenti fanno avverare i desideri, vero?”
“Sì.”
“Se… se il desiderio è importante va bene anche se non vedo una stella cadente? Poi quando ne vedrò una non chiederò niente, promesso.”
“Si può provare… forse se lo chiediamo insieme il desiderio si avvera.”
Il loro abbraccio si sciolse e le loro mani si congiunsero.
“Voglio tanto che Kain guarisca presto e torni a scuola con noi.” disse la bambina, stringendo la sua presa come a dare maggior forza a quel desiderio così importante.
“Che Kain guarisca presto…” mormorò Jean.
E rimasero a ripeterlo fino a quando il sonno non avvolse la bambina.
Ma Jean passò ancora molto tempo a pregare per quel miracolo.
 
“Povero Andrew – pianse Laura in cucina – e povera Ellie. Posso solo immaginare quello che stanno passando… santo cielo che tragedia.”
Heymans le prese la mano e la accarezzò con dolcezza.
Finalmente Henry sembrava essere in ripresa e dormiva profondamente, senza alcun incubo a tormentarlo. Era una piccola consolazione, ma la cosa migliore era evitargli del tutto i contatti con Gregor: dai racconti confusi e deliranti del fratello, Heymans aveva capito che c’entravano alcune frasi dell’uomo a proposito del non essere suo figlio o qualcosa di simile.
E poi quel delirio sul silenzio… ancora non riusciva a sbrogliare quella matassa. E ogni volta che ci provava aveva paura perché intuiva che non era per niente gradevole.
Perché il silenzio fa più male?
E adesso la tragedia di Kain…
“Mamma, lui è forte, vero? E’… è guarito da tutto quello che ha avuto quando era ancora piccolo… ed il medico non gli dava che poche ore di vita…”
“Tesoro – lo abbracciò Laura – certo che è forte… è il figlio di Andrew ed Ellie.”
“Voglio solo che si salvi – mormorò lui, serrando gli occhi – che vada tutto bene, almeno questa volta… almeno per lui.”
 
Nella sua stanza Roy stava inginocchiato davanti alla finestra con le mani giunte.
Pregava un dio che non sapeva se esisteva o meno, il mondo e la vita in generale… qualunque cosa che avesse un minimo di potere divino per salvare la gamba di Kain.
“Per favore, gnomo – disse alla fine, trovando molto più senso nel pregare direttamente l’interessato – hai la tua preziosa penna, te l’ho riportata. Tu non sei vigliacco, per niente! Ti prego… guarisci, sei troppo importante per tutti noi.”
 
E Kain, sdraiato nel letto matrimoniale, con Andrew a vegliarlo, stringeva nella mano sana la sua preziosa penna, come se fosse l’incantesimo che l’avrebbe salvato da quella febbre che lo stava consumando.
Tutti gli stavano chiedendo un miracolo.
Ancora una volta, dopo tanti anni.
 
Quando Riza si svegliò, la mattina dopo, dovette fare uno sforzo per riconoscere la camera di Kain e ricordarsi che ora non era a casa sua.
Quel pensiero la fece balzare in piedi: non poteva permettersi di stare a poltrire.
Aprì immediatamente la finestra, accorgendosi che era mattina presto, e respirò a pieni polmoni quell’aria così frizzante, cercando di darsi la carica giusta per affrontare la giornata.
Con discrezione, per evitare di svegliare i due adulti, aprì la porta e corse in cucina.
Iniziò ad armeggiare tra i fornelli, decisa a preparare la miglior colazione del mondo.
All’improvviso sentì raspare ed uggiolare alla porta e si ricordò del cane.
“Oh cavolo – bisbigliò, andando ad aprire – scusami, Hayate, adesso ti porto qualcosa.”
Prese un piattino e vi versò del latte, mettendovi poi dei pezzetti di pane: lo mise sotto il tavolo e osservò il cane mangiare, sperando che non venisse nessuno proprio in quei minuti. Le dispiaceva che nemmeno per i pasti gli fosse consentito stare dentro casa… si sentiva solo.
Nel frattempo terminò i preparativi per la colazione, un invitante profumo di frittelle con miele che si spargeva per tutta la casa: si era davvero superata.
“Hai finito? – chiese al cane, recuperando il piattino – allora esci fuori… sì, lo so, non è come a casa e mi dispiace, ma qui dobbiamo rispettare delle regole diverse.”
“Per la colazione puoi farlo entrare – disse Andrew, dietro di lei – vedo che si comporta bene. E poi è anche merito suo se Kain è stato ritrovato.”
“Oh, buongiorno signore… si sieda, la prego, porto subito in tavola.”
“Tesoro, non siamo al ristorante, stai tranquilla. Faccio da solo… ehi, che grandi progressi che abbiamo fatto in cucina, c’è un profumo meraviglioso.”
“La signora non scende? Per lei posso tenere in caldo.”
“Siediti e mangia, Riza – la invitò Andrew – Ellie sta dormendo accanto a Kain. Finalmente si è concessa un minimo di riposo.”
“Oh, capisco – annuì lei, mettendosi a mangiare accanto a lui, una scena incredibilmente casalinga, considerato che era in pigiama e aveva ancora i capelli arruffati – come è andata la notte? Mi sono addormentata senza chiedere se serviva una mano per qualcosa e…”
“La mano ce l’hai data venendo qui, Riza – sospirò Andrew – non dovrei dire queste cose, perché come genitore dovrei farti tornare a casa… ma sul serio, ieri notte Ellie si è sollevata così tanto nel saperti qui, e anche io. Sei una presenza importante in questa casa, piccola mia.”
“Signore… siete una famiglia per me.”
“Non avevi ancora capito di farne parte, Riza? – la abbracciò lui – Eppure era chiaro, mi sa.”
“Posso vederlo? Solo per qualche minuto. Roy… Roy mi ha detto che il suo viso nel lato destro è ferito malamente, ma non mi impressionerò, promesso.”
“Ha ancora la febbre, ma non come ieri sera – rifletté Andrew – va bene, vieni, ma fai silenzio. Non voglio svegliare né lui né Ellie.”
“Certo.”
“E non camminare più scalza – la avvisò, prendendola in braccio senza preavviso – mi manca solo che ti raffreddi, ragazzina.”
Andrew la condusse su per le scale e quando arrivarono davanti alla porta della stanza matrimoniale, si mise l’indice della mano libera davanti alla bocca. Poi aprì con delicatezza la porta ed entrò nell’ambiente ancora in penombra per le tende tirate.
L’odore di disinfettante, malattia e di sangue la colpì immediatamente, ma cercò di non farci caso. Spostò la sua attenzione sul letto dove, nel lato sinistro, giaceva Ellie profondamente addormentata, la treccia nera mezzo sciolta che le cadeva sul petto. Era girata di fianco, la coperta fino alla vita, la mano che sfiorava appena il braccio di Kain, sdraiato supino accanto a lei, nel centro del letto.
Andrew si avvicinò e depose con delicatezza Riza sulla parte libera.
La ragazzina gattonò a fianco di Kain osservando la parte sana del viso, leggermente tesa per la febbre che ancora lo tormentava. Allungò con lentezza la mano e gli sfiorò la fronte e questo bastò a fargli girare la testa di lato. Vedendo la parte livida e tumefatta le si strinse i cuore, ma non ritirò la mano.
Anzi, salì ad accarezzare i capelli neri.
“Mh…” mormorò debolmente Kain, aprendo gli occhi, o per lo meno, il sinistro.
“Ciao – sussurrò lei – come stai?”
“Riza? – la chiamò – Sei qui?”
La voce era debole e roca e anche la pronuncia era disturbata dal gonfiore laterale, ma sembrava che fosse lucido abbastanza per riconoscerla.
“Certo che sono qui – sorrise, trattenendo le lacrime – vi siete presi cura di me, è giusto che lo faccia pure io, no? Tu ora devi pensare a guarire da questa febbre…”
“Mh…” annuì debolmente il bambino, richiudendo gli occhi e leccandosi le labbra.
“Andiamo decisamente meglio – dichiarò Andrew, posando una mano sulla fronte accaldata – è scesa di parecchio: la seconda dose di antibiotici ha dato un po’ di tregua.”
“E la gamba?” chiese Riza.
“Stamane verrà il medico a controllare.”
“Posso restare?” chiese, mentre Andrew la riprendeva in braccio e usciva dalla stanza.
“Ricordati la tua promessa, Riza – le disse, mentre la portava in camera di Kain – obbedire agli ordini: tu sarai a scuola stamattina, come una brava studentessa deve fare… devi anche dire ai tuoi amici che la febbre di Kain è scesa, no? Stai facendo da portavoce, un ruolo davvero importante.”
“Guarirà, ne sono certa.”
“Adesso lavati e cambiati – sorrise Andrew, mettendola a terra – da qui ci impieghi di più per andare a scuola, non so se ci hai pensato: se non esci entro venti minuti rischi di fare tardi.”
“Cosa? – sbiancò lei – Oh cavolo!”
E Andrew non poté far a meno di ridacchiare come chiuse la porta alle sue spalle.
  
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