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Autore: ___Ace    15/03/2014    6 recensioni
“Non è serata, Evidenziatore, torna un’altra volta”.
Osservai quell’energumeno che avevo avuto la sfortuna di incontrare: i capelli in disordine e un orrendo paio di occhiali con le lenti spesse era appoggiato sulla fronte, tenendo quei ciuffi rosso vermiglio alzati verso l’alto; la maglia sporca di nero, pantaloni neri, scarponi neri. Praticamente avevo davanti a me l’Uomo Nero in persona.
Avrebbe potuto spaventare i mocciosi qui intorno.
*
Ecco, lui sembrava infiammato. Costantemente. Sembrava sempre avere qualcosa da dire, da fare o da vedere; non stava mai fermo e si muoveva in continuazione; a volte sembrava calmarsi ed essere colto da un’improvvisa quiete e sonnolenza, ma si riprendeva subito dopo; adorava i fuochi d’artificio e il fuoco lo affascinava. Diceva che era caldo, e quindi apprezzato dalle persone, ma allo stesso tempo temuto perché poteva bruciare e fare del male. Questi aspetti contrastanti gli piacevano immensamente, tanto da suscitare anche la mia curiosità e facendo si che, ogni volta che passava, mi ritrovassi chino sul bancone ad ascoltare le sue stramberie per nulla annoiato.
Ace era certamente così: bello, scoppiettante e caldo. Era il fuoco.
*
Kidd/Law. Ace/Marco. Penguin/Killer. Accenni Zoro/Nami.
Genere: Fluff, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Eustass Kidd, Marco, Portuguese D. Ace, Trafalgar Law, Un po' tutti | Coppie: Eustass Kidd/Trafalgar Law
Note: AU | Avvertimenti: Violenza
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Capitolo 24.

Il drago nel corridoio.

 

Ho sonno. Ho veramente tanto sonno e, aspetta, no, non ho affatto sonno. Ho fame! Tanta fame. Ma da quanto non mangio? Uh? Perché è tutto buio qui intorno? Ahi! Cazzo, che male la schiena! Ma cosa mi è capitato? Fa un caldo assurdo, mi sembra di stare in una brace! Ehi, perché non riesco a muovere il braccio? Che è questo peso che mi sento addosso? E poi questo assurdo ‘bip’ da dove viene, mi sta mandando fuori di testa e io…

Finalmente aprii gli occhi.

Oh.

Non ci misi molto a capire dove mi trovavo, dopotutto non ci voleva di certo un genio per intuirlo e gli ospedali erano sempre stati facili da riconoscere. La stanza spoglia, anonima e fastidiosamente bianca aiutava abbastanza, inoltre un paio di tubicini di plastica che mi uscivano da sotto la manica del pigiama, collegati dal mio braccio sinistro ad una flebo accanto al letto, mentre uno strano computer segnava la frequenza del mio battito cardiaco. Ecco da dove veniva il bip che mi martellava nel cervello.

La cosa che mi premeva di più, in tutti i sensi, invece, era l’impossibilità di muovere il braccio destro. Qualcosa lo bloccava, ma rimasi piacevolmente sorpreso e sollevato quando scoprii che, grazie a Dio, non me l’avevano amputato, ma semplicemente era immobilizzato da qualcuno che si era addormentato sopra.

Sollevato come non mai, mossi le dita fasciate e sfiorai con i polpastrelli la guancia del ragazzo senza riuscire ad impedirmi di sorridere. Rufy era capace di dormire ovunque e di mangiare qualsiasi cosa senza problemi ed era bello sapere che avrei potuto vederlo comportarsi come un bambino altre migliaia di volte. Non potevo di certo permettere che qualcuno facesse del male al mio fratellino, insomma, ero pur sempre suo fratello maggiore ed era mio dovere proteggerlo sempre, a qualsiasi costo.

Lentamente riuscii a scostare il braccio da sotto la sua testa e approfittai per accarezzargli quella zazzera scura con affetto, felice di sapere che tutto, alla fine, era andato nel migliore dei modi nonostante la gravità della situazione iniziale.

Quando ero arrivato all’appartamento l’incendio era già stato appiccato ed era bastato vedere una leggera scia di fumo uscire dalla finestra al terzo piano per farmi decidere come agire sul momento. Ero scattato verso l’ingresso e avevo fatto le scale volando letteralmente, arrivando davanti alla porta e trovandola aperta. All’interno si riusciva a malapena a vedere dove mettere i piedi e l’aria era irrespirabile così mi ero tolto la felpa e me l’ero accostata alla bocca per non svenire e perdere i sensi ed ero entrato, deciso a trovare Rufy. Non ci era voluto molto perché lo conoscevo bene ed ero certo che, nell’aspettarmi, si era fiondato in cucina per fare uno spuntino. Infatti l’avevo trovato proprio accanto al frigorifero. Quella era stata la parte più facile e il difficile era venuto solo dopo. Avevo tutta l’intenzione di trascinarlo fuori il più in fretta possibile, ma l’incendio si era ormai esteso, bloccando il passaggio diretto verso l’uscita, così ero stato costretto ad aggirare il salotto con tutti i mobili che, lentamente, venivano mangiati e arsi dalle fiamme. Poi la situazione si era fatta abbastanza bollente, e non in senso buono, per niente. Rufy sembrava respirare a fatica e non avevo voluto togliergli i vestiti perché temevo che si sarebbe scottato o ustionato, così gli avevo avvolto attorno alla testa la mia maglia e mi ero limitato a trattenere il respiro e a inalare solamente la minima quantità d’aria necessaria per andare avanti, almeno fino alle scale. Meta che raggiunsi con grandi sforzi e una buona dose di fortuna, nonché intervento Divino. Anche se, bisognava ammetterlo, la trave che era crollata dal soffitto non l’avevano bloccata gli angeli, ma io con la mia schiena. Ecco perché mi faceva così male, quindi, senza dubbio c’era un bello squarcio. Se non l’avessi fatto, probabilmente a quell’ora il mio fratellino non si sarebbe trovato nel mondo dei sogni, comodamente rilassato sul mio letto e con la bava che gli colava dalla bocca dischiusa. Era proprio un caso disperato, decisamente.

Quello che era successo dopo non me lo ricordavo bene, sapevo solo che avevo fatto di tutto per uscire da quell’inferno di fuoco e fiamme. Dovevo salvare Rufy, solo quello era stato importante e il bruciore alle braccia, alle gambe e alla schiena era passato in secondo piano davanti a quel pensiero fisso. Alla fine ero riuscito a raggiungere la porta e avevo messo un po’ di distanza tra me e il calore, nonostante il fumo soffocante fosse persistito fino al portone d’ingresso dove un favoloso venticello mi aveva investito, rischiarandomi la mente e rinfrescandomi da cima a fondo. Era stata una sensazione meravigliosa, anche se il dolore, la stanchezza e lo stress mi erano piombati addosso in un istante, facendomi barcollare e lasciandomi intontito. Solo dopo essermi assicurato del benessere di Rufy mi ero permesso di cedere, lasciandomi finalmente avvolgere dalle braccia armoniose del sonno e concedendomi un meritato e lungo riposo, dimenticandomi di tutto il resto.

In quel momento ero davvero contento di vederlo così tranquillo in quel momento, intento ad aspettare il mio risveglio e solo quando qualcosa cadde a terra con un tonfo sordo mi accorsi che in quella stanza non c’eravamo solo noi due.

A causa della penombra procurata dalle tende tirate in modo da coprire la luce proveniente dalla finestra sulla parete di sinistra, non mi ero reso conto che, dalla parte opposta della camera, c’era un tavolino circondato da alcune sedie posizionate attorno. Su una di queste riposava un’altra persona, il busto riverso sul ripiano, un braccio usato come cuscino e l’altra mano abbandonata lungo un fianco mentre un libro faceva bella mostra di sé aperto sul pavimento. Il diretto interessato sembrò destarsi, disturbato forse dal rumore e, sospirando stancamente, si abbassò per recuperare il volume e riporlo sopra al tavolo con cura, passandosi poi una mano sul volto assonnato e grattandosi distrattamente una chioma di capelli che, per quante volte l’avessi ormai vista, continuava a lasciarmi un po’ perplesso.

Rimasi in silenzio ad osservarlo, ricordando improvvisamente la nostra ultima conversazione e sentendomi stranamente a disagio. Gli avevo praticamente riattaccato il telefono in faccia, avevo invertito la marcia e avevo ignorato le sue raccomandazioni. Anche dei suoi consigli me ne ero altamente fregato. Per non parlare delle minacce. Seriamente, avevo fatto tutto di testa mia senza curarmi del suo parere. Wow, proprio un bel modo di iniziare una relazione.

“Ace?”.

I nostri sguardi si incontrarono solo allora e sui suoi occhi si dipinse lo stupore mentre il mio viso andava in fiamme. Non per il calore, ma per l’imbarazzo. Ero nei guai, me lo sentivo, anche se il suo tono di voce non sembrava arrabbiato, ma curioso.

“M-marco”. Stupida balbuzie.

“Ace…”. Adesso era, come dire, sollevato. Aveva rilassato le spalle e sembrava addirittura che un sorriso stesse facendo capolino sulle sue labbra.

“Marco” ripetei, sentendo nascere dentro di me l’entusiasmo. Ero scampato da morte certa; mio fratello stava bene e dormiva beato accanto a me e il mio barista preferi… No, il mio ragazzo mi stava guardando con aria innamor… Mi corressi, con aria omicida e mi stava venendo incontro per abbracciarmi e…

Ehi, frena, perché ha quella faccia? pensai, sbiancando e cercando di nascondermi sotto le lenzuola quando lo sentii urlare.

“ACE!”.

“Eh? Che cosa? Ace? Ace! Fratellone!”.

Piombarono entrambi e nello stesso istante sul mio letto, facendolo cigolare e inclinare pericolosamente, e, allibito e sconcertato, fui sommerso dai loro corpi che facevano a gara per appropriarsi della mia faccia e dei miei arti, strattonandomi da una parte all’altra e facendomi mordere violentemente le labbra per non urlare. La pelle tirava in più punti, probabilmente dove era stata scottata o bruciata e dove i medici avevano applicato le suture, inoltre faceva terribilmente male, ma non volevo turbarli con le mie precarie condizioni, dopotutto li avevo fatti preoccupare anche troppo.

“Ace, brutto idiota!” stava dicendo Marco, inginocchiato sul materasso e con le mani impegnate ad arruffarmi i capelli. Aveva un cipiglio serio e incazzato sul viso e mi stava rimproverando davvero, ma i suoi gesti tradivano la felicità che gli stava scoppiando dentro, mentre Rufy rideva, e rideva, e rideva. Senza sosta, rischiando addirittura di strozzarsi, soffocando persino me con uno dei suoi abbracci capaci di stritolare un orso. Quel contatto fu troppo per la mia povera schiena martoriata.

“Ragazzi piano, mi state uccidendo!” mormorai a denti stretti, sospirando sollevato quando Rufy, scusandosi, si staccò da me, limitandosi a stringermi delicatamente le spalle, scrutandomi attentamente e rivolgendomi una serie infinita di domande sulla mia salute.

“Sul serio, sto bene” ripetei per la millesima volta, facendoli scendere dal letto dopo che si furono ben assicurati che dicessi la verità e che non stessi mentendo solo per tranquillizzarli. Da quel che ebbi modo di capire in seguito ero rimasto incosciente per tre giorni dopo l’operazione. I medici avevano previsto che mi sarebbe servito solo qualche tempo per riposare e recuperare tutte le forze e così era stato. Le ferite sarebbero guarite col tempo, senza dubbio, e sarei tornato come nuovo, cicatrici di guerra a parte.

“Sono così felice che tu ti sia svegliato! Io e Marco non abbiamo fatto altro che stare qui ad aspettare, eravamo così preoccupati!” stava dicendo Rufy, saltellando per la stanza e sprizzando gioia da tutti i pori, “Sapevo che ti saresti rimesso, testa d’ananas continuava a ripetermelo almeno cinque volte al giorno e io gli ho creduto e non ho mai dubitato! Sono così felice, Ace! Il nonno era disperato e gli altri stanno aspettando notizie. Dio, mi sono dimenticato di loro! Vado ad avvisarli, torno subito, tu aspettami!”. E si volatilizzò da sotto al mio naso, lasciando dietro di sé una porta aperta che sbatté contro il muro e le sue grida isteriche che non facevano altro che ripetere ‘Ace si è svegliato!’. Il rumore assordante e metallico che seguì mi inquietò parecchio, ma non volli nemmeno fermarmi a chiedermi cosa diavolo fosse stato perché avevo la vaga sensazione di non volerlo sapere davvero. Non del tutto, almeno.

Qualcuno accanto a me si schiarì la voce e mi sentii gelare, maledicendo mentalmente mio fratello. Insomma, mi svegliavo dopo tre giorni di coma e lui doveva preoccuparsi di correre ad avvisare i nostri amici? Tenermi compagnia per evitarmi una morte certa per mano del pennuto no, vero? Avrei inevitabilmente dovuto cavarmela da solo.

Mi voltai leggermente verso Marco per rivolgergli un’occhiata timida, cercando di capire quanto fosse arrabbiato. A giudicare dall’espressione impassibile e dalle braccia incrociate al petto, doveva esserlo molto.

Mi strinsi nelle spalle, abbozzando un sorriso spensierato nel tentativo di riuscire a passarla liscia. “Ehilà” improvvisai, ostentando allegria. Non potevo scegliere modo peggiore per iniziare una conversazione. Davvero, avrei voluto scomparire.

Il suo braccio scattò verso di me, come se avesse voluto colpirmi, ma si fermò a mezz’aria e, stringendo la mano a pugno, se la portò alle labbra, mordendosi le nocche nel tentativo di trattenersi.

“Hai almeno la vaga idea di quello che abbiamo passato, Ace?” domandò glaciale e scandendo lentamente le parole una ad una, scoccandomi un’occhiata torva, tanto che abbassai il capo dispiaciuto. “Riesci ad immaginare come ci siamo sentiti?”. La voce più alta di qualche tono. “Ti abbiamo creduto morto, razza di incosciente! E non ti descrivo nemmeno la faccia di tuo fratello in questi giorni, era distrutto. Non faceva altro che colpevolizzarsi e pregare che aprissi gli occhi”. L’idea di Rufy in quello stato mi fece sentire tremendamente in colpa. Entrambi ci volevamo un bene infinito e sapere di averlo reso triste mi dispiaceva moltissimo.

“Abbiamo passato tre giorni orribili per la tua testardaggine. Io…” si bloccò, mordendosi un labbro e stringendo i pugni lungo i fianchi, “Tutti noi non sapevamo più cosa fare”.

“I-io non volevo che vi preoccupaste” sussurrai, “Ma cos’altro avrei potuto fare? Rufy era in pericolo e non potevo lasciarlo da solo!” tentai di ribattere sommessamente, benché sapessi che non avevo scuse valide dalla mia parte.

Batté una mano sul materasso, facendomi sussultare. “Lo so, dannazione! Lo so e avrei fatto lo stesso per la mia famiglia, ma avresti potuto permettermi di aiutarti. Thatch e io non ti avremo di certo abbandonato. Cosa ti passava per la testa?”. Aveva pienamente ragione e mi rendevo conto che era solo teso per il pericolo che tutti noi avevamo rischiato, perciò lasciai che si sfogasse, ne aveva il diritto e nei suoi confronti non mi ero comportato certo correttamente. L’avevo ignorato, anche se per una buona causa. Ad ogni modo ascoltai tutto quello che ebbe da dirmi, accorgendomi solo per caso che anche lui, come me e Rufy, indossava un pigiama e, dalle maniche arrotolate come al solito sui gomiti, spuntavano alcuni cerotti.

“Cosa ti è successo?” domandai, interrompendo le sue parole e lasciandolo perplesso. “Sei pieno di bende e indossi un camice dell’ospedale” sussurrai, iniziando ad agitarmi, tanto che dovetti controllarmi per non risultare isterico, “Perché?”.

La preoccupazione sul suo volto sembrò scemare, lasciando spazio finalmente ad un’aria rilassata e sollevata. Mi sondò con lo sguardo per qualche secondo, la postura rilassata e le labbra tormentate dai denti mentre decideva cosa rispondere.

“Solidarietà” scherzò con un’alzata di spalle, ma alzando gli occhi al cielo davanti alla mia faccia corrucciata e per niente divertita. “Ho lottato per ciò a cui tengo” aggiunse poi, avvicinandosi per affondare dolcemente una mano fra i miei capelli, scompigliandoli l’attimo successivo e poggiando la fronte contro la mia, “Come hai fatto tu”. E mi sorrise allegramente. Alla fine ero riuscito a far crollare quel viso perennemente apatico, meritavo un monumento.

Mi sfiorò il naso con il suo mentre io non riuscivo a fare altro che ascoltare il battito cardiaco accelerato del mio cuore e fissare i suoi occhi in attesa di qualcosa. Qualsiasi cosa pur di sentirlo vicino.

Un bacio. Poi un altro e un altro ancora. Le mani ovunque e dirette ad afferrare il camice dell’ospedale che entrambi indossavamo. C’era sempre quella fastidiosa stoffa superflua tra noi, bisognava rimediare.

“Toh guarda” fece una voce fin troppo famigliare alle nostre spalle, “Questo si che vale un braccio rotto. Tu che ne pensi, babbo?”.

Se avessi saputo che una volta risvegliatomi avrei dovuto conoscere il padre di Marco, nonché sindaco della città, nonché mio probabile e futuro suocero, avrei sicuramente preferito essere imbottito di anestetico e non svegliarmi affatto.

 

* * *

 

Il traguardo era vicino, vicinissimo, mancava davvero poco, quando da una porta laterale uscì all’improvviso un moccioso con un sorriso da un orecchio all’altro intento ad urlare qualcosa di incomprensibile. Inutile dire che lo investii in pieno, ritrovandomi con il viso spiaccicato sul pavimento e la sedia a rotelle riversa sopra di me. L’ingiustizia peggiore fu che il piccoletto non si fece neanche un graffio e si rialzò l’istante dopo, prendendo a correre lungo il corridoio con le braccia verso l’alto chiuse a pugno, come in segno di vittoria.

“Ehi, Rufy!” lo chiamai, “Dove te ne vai?”.

Puntò i piedi sul pavimento, frenando la sua corsa bruscamente e rischiando di scivolare, ma si mantenne in equilibrio per poi voltarsi indietro e sorridermi felice. “Ace si è svegliato! Sto andando ad avvisare gli altri”.

“Sia lodato il Cielo! Salta su, ti accompagno io” dissi convinto, rimettendo a posto la carrozzina per sedermi su di essa e indicandogli le mie ginocchia. Con quella avremo fatto sicuramente prima a raggiungere il resto della compagnia che da tre giorni si era accampata nella sala d’attesa.

“Davvero? Grazie Penguin!”. Entusiasta, Rufy mi saltò addosso, mettendosi comodo e puntando un dito in avanti, proclamando con aria solenne che la vettura poteva partire quando più mi faceva comodo così, dopo averlo nominato navigatore di bordo, partii a raffica, facendo girare le ruote e ricordandomi solo in quel momento che non ero il solo ad aver rubato una sedia a rotelle dal magazzino.

“Aspettatemi, maledizione! Che razza di mocciosi!”.

“Forza, Casco di Banane, muoviti!”. Forse Rufy avrebbe dovuto essere più gentile nei confronti di Killer, ma non dissi nulla e non mi preoccupai nemmeno di trattenere le risate mentre, alle nostre spalle, il biondo si faceva sempre più vicino, minacciando di ucciderci se solo ci avesse raggiunti.

Per ingannare l’attesa, quel pomeriggio, invece di fare sempre il solito gioco che si era inventato Thatch, ovvero giocare a nascondino all’obitorio, avevo deciso di organizzare una gara clandestina utilizzando quegli adorabili seggiolini con le ruote. La mia proposta aveva riscosso un certo successo e stavamo ancora facendo qualche giro di prova dato che in castano ci aveva chiesto di rimandare la corsa perché suo padre era arrivato all’ospedale per visitare i suoi cari figlioli, come aveva preso a fare da tre giorni a quella parte. Dovevo ammettere che il sindaco della città non era affatto male, un po’ stupido si, ma con le palle. Ace avrebbe avuto una bella sorpresa di lì a poco, visto che Marco non faceva altro che vegetare nella sua stanza per vegliarlo. Di certo il vecchio gli sarebbe apparso in camera, non c’era dubbio.

Ad ogni modo, tralasciando Zoro che si era sicuramente perso e Sanji che si era fermato a sostare per chiacchierare con le infermiere, eravamo rimasti Killer ed io e la gara si stava facendo sempre più cruenta, almeno fino a che non avevamo fatto un incidente di percorso a causa di Rufy, ma poco importava: avremo continuato più tardi.

Raggiungemmo la sala d’attesa in un coro di risate e urla da parte di Killer, il quale non riuscì a fermarsi in tempo, finendo per mancare la fermata e ritrovandosi dall’altra parte del corridoio, mentre Rufy saltava agilmente giù dalla sedia a rotelle, correndo ad abbracciare suo nonno Garp che non sembrava voler smettere di piangere.

“Nonno, Ace si è svegliato! No, non sto scherzando! Sta bene, ci credi? Che…? No, aspet… Mi fai male! Non stringermi così!”.

“Sul serio? E quando è successo? Penguin?”.

“Poco fa, Nami. Con lui adesso dovrebbe esserci Marco e forse suo fratello. Magari più tardi andiamo anche noi” proposi, sentendo inevitabilmente un peso svanirmi dal petto. Per fortuna che quel ragazzo si era rimesso e aveva deciso di tornare tra noi, non avrei potuto immaginare la reazione di Rufy se le cose si fossero complicate. Non avrebbe retto, ne ero certo, bastava tenere presente lo stato di tristezza totale che aveva vissuto quei giorni. Era impossibile chiedergli di vivere senza il suo adorato fratellone.

“Non se ne parla! Sono suo nonno, l’unico famigliare che gli è rimasto! Io vado da lui immediatamente! Dov’è? Dov’è mio nipote?”.

Il vecchio poliziotto sparì dalla sala con la pulce alle calcagna che ridacchiava, cercando comunque di calmarlo e di trattenerlo invano, lasciandomi solo con gli altri.

“Sono così contento per Ace” stava dicendo Chopper, sospirando sollevato e poggiando sul tavolino un sacchetto di caramelle bianche alla menta, sostenuto da Usopp che, accanto a lui, si soffiava rumorosamente il naso, cercando di far passare le sue lacrime di gioia per allergia al disinfettante, il che era un controsenso bello e buono, ma non glielo feci notare.

“Dov’è Zoro?” mi chiese Nami dopo un po’ con l’aria perplessa.

Trattenni un sorrisetto malizioso, quei due ancora non sapevano che li avevo beccati mano nella mano il giorno prima mentre si dirigevano verso l’uscita credendo di non essere visti, così mi strinsi nelle spalle e dietro di me Killer rispondeva che, molto probabilmente, non riusciva più a trovare la via del ritorno, causando l’irritazione della ragazza che partì spedita alla sua ricerca. Sicuramente non l’avremo rivista prima di qualche ora, dato che quello che presto sarebbe diventato il suo ragazzo nel perdersi era un vero e proprio asso.

Mentre ascoltavo gli altri chiacchierare sulle ultime novità e sui risvolti della situazione mi avvicinai al tavolo che stava di fronte a loro, pieno di mazzi di fiori da consegnare a quelli che ancora non erano stati dimessi, come Smoker, Ace e Thatch, afferrando il pacchetto anonimo di caramelle e iniziando a mangiarne una dopo l’altra. Avevano un sapore strano, ma non erano male. Forse qualche gusto appena prodotto sul mercato.

“Il padre di Kidd come sta?”.

“Meglio di tutti. Ieri l’ho trovato fuori a fumare”.

“E Thatch?” chiese Usopp.

“Oh, lui sta magnificamente. Davvero, non credo che esista nessuno più pazzo di lui, nemmeno Penguin!” rispose Killer, lanciandomi un’occhiata scherzosa che ignorai, impegnato com’ero a fissare un punto indefinito alle sue spalle, lungo il corridoio.

Erano passati tre giorni dalla nostra impresa eroica perfettamente riuscita, ferite da fuoco e esplosioni a parte. Killer aveva già avuto il permesso di tornare a casa, come me del resto, ma, dato che ormai io una casa non ce l’avevo più, mi aveva gentilmente proposto di stabilirmi da lui, almeno fino a che le cose non si fossero sistemate. Rufy era ancora in osservazione ma, anche se così non fosse stato, nessuno sarebbe mai riuscito a smuoverlo dalla stanza del fratello, così come Marco, il quale aveva un buon motivo per essere ricoverato. L’avevano tenuto sotto i ferri per due ore buone, ma fortunatamente il proiettile non aveva colpito nessun organo vitale ed era stato facile per i medici rimetterlo come nuovo. Thatch, quel simpatico ragazzone, ormai mio compagno di avventure, sarebbe tornato dalla sua famiglia il giorno seguente con un braccio ingessato e qualche cerotto sul viso, ma niente di così grave. Il buonumore, per esempio, non l’aveva affatto perso. Per quanto riguardava il mio futuro datore di lavoro, perché ero ancora convinto che il mio coraggio bastasse per entrare nelle forze della polizia, aveva ancora qualche giorno da passare all’ospedale, poi l’avrebbero buttato fuori, forse anche a calci, dato che non sembrava voler capire che all’interno della struttura era vietato fumare. La situazione era diventata sopportabile quando sua moglie, Ivan, non gli aveva gettato dalla finestra tutti i pacchetti di sigarette che si era fatto portare dai colleghi.

Kidd l’avevo visto pochissimo. Passava la maggior parte del tempo nella sua stanza e, quando non era lì, si trovava per forza sul terrazzo dell’ultimo piano. Passava lì qualche ora del giorno da solo a pensare e, nonostante fossi certo che l’antipatia che provava nei miei confronti fosse scemata, non avevo cuore di disturbarlo. Non lo faceva nemmeno Killer, a dire il vero, il quale aveva il ruolo di fratello acquisito ormai. Tutti capivamo il suo stato d’animo e lo lasciavamo rispettosamente tranquillo, come era giusto che fosse. Anche perché, personalmente, non avrei saputo cosa dirgli. Non c’erano parole per esprimere il dolore che tutti stavamo provando. La preoccupazione per Trafalgar era una costante fissa. Ognuno cercava di sopportare quella situazione di stallo e incertezza come poteva, non pensandoci, uscendo, scherzando, anche se i sorrisi non erano mai splendidi e del tutto vivaci. Mancava sempre quella luce che li aveva caratterizzati in passato. Law mancava a tutti, a Kidd compreso, e sopportare la sua assenza era via, via sempre più difficile.

In quel momento, però, trovai la soluzione alla depressione. O meglio, me ne resi conto una volta che mi ebbero risvegliato dal trauma, perché la mia mente prese a viaggiare per conto proprio in un’altra dimensione.

Colore. Guarda quanto colore. E questi che sono? Navi? Velieri dei pirati! Oh, perché Nami indossa un costume e Chopper è un procione? No, aspetta, é una renna. Una fottuta renna. Qualcuno mi fermi, potrei morire per le risate! Uh? Questa si che mi è nuova.

“Ehi, Kira-chan, perché indossi una maschera a righe?” chiesi a Killer, il quale mi guardò stranito, sfiorandosi il viso privo di coperture. Ma io non potevo saperlo nelle condizioni in cui mi trovavo.

“Ehm, Penguin, io non sto indossando niente” mi fece notare cauto, scambiandosi occhiate preoccupate con gli altri.

Certo, certo. Come vuoi, pensai, sicuro di avergli risposto e prendendo a girare in tondo. Per un attimo mi sembrò di vedere Doflamingo volare fuori dalla finestra, ma quello si mi risultava impossibile perché il bastardo era morto. Secco. Eliminato.

Un ghigno sadico e abbastanza stupido mi spuntò sulle labbra e, ignorando il confabulare e il grido trattenuto di Chopper, il quale si fiondò sul tavolo, smistando i fiori alla ricerca di qualcosa, mi affacciai sul corridoio con un’espressione ebete, mettendo in bocca un’altra di quelle deliziose caramelle.

Qualcuno mi picchiettò sulla spalla. “Penguin, cosa stai mangiando?” mi sentii chiedere. Ero quasi certo che fosse Usopp, ma non capivo perché era così teso.

“I dolcetti di Chopper. Sono buoni. Com’è che si chiamano?”.

“Cosa gli hai dato? Morfina? LSD? Guarda i suoi occhi!” sbraitò Usopp.

“P-penguin” fece la renna. Che buffo, ora aveva persino un cappello rosa in testa. “D-dove hai messo quelle caramelle?”.

D’un tratto nulla ebbe più senso e il terrore mi attanagliò le viscere. Eravamo tutti in pericolo, dovevamo scappare o saremo morti!

“Fanculo le caramelle! Hai visto il drago nel corridoio?”.

 

* * *

 

La stanza era silenziosa e in penombra, ma piuttosto riscaldata e l’unico rumore che mi faceva compagnia era quello dei macchinari accesi ai quali il ragazzo era costretto a rimanere collegato in modo che le sue condizioni venissero costantemente monitorate.

Un mese e mezzo. Un orribile e maledetto mese e mezzo di attesa era passato. Erano stati tutti dimessi, chi prima e chi dopo. Pure io avevo ottenuto il permesso di potermene tornare a casa, ma non ne avevo voluto sapere. Ero rimasto lì, incapace di abbandonare quelle mura, incapace di tornare a vivere normalmente, quello che avrei dovuto fare. Non potevo andarmene sapendo che il suo caso era in stallo e che ancora non c’era stato alcun risvolto positivo o determinante per la sua condizione.

“Ti odio” mormorai ad un certo punto e per la millesima volta, dando voce ai miei pensieri e sperando inconsciamente che tutto ciò potesse essere utile a qualcosa. “Ti ho odiato dal primo momento in cui mi sei piombato tra i piedi quella dannata sera. A me le persone non piacciono per principio, lo sai, ma tu… Tu, bastardo, appena ti ho visto ho capito che eri il peggio in circolazione. Una piaga, un sfiga. Sempre così sicuro, così calmo, così fottutamente padrone di te stesso. ‘Fanculo, eri insopportabile!”.

Nella camera calò di nuovo il silenzio, opprimente e pesante, disturbato sempre dal bip continuo delle macchine posizionate accanto al lettino e collegate direttamente al suo corpo. Tutto regolare, nessun cambiamento, nessuna svolta positiva o negativa, nulla. Era una schifosissima situazione di transito che durava da troppo per i miei gusti.

“Ti odio” ripetei atono, “Odio tutto di te, a cominciare da quel cazzo di cappello che ti porti sempre appresso! L’ho ritrovato, a proposito, era logoro ma… Forse, diciamo che potrebbe non essere da buttare, ecco… Mi sono assicurato che i tuoi amichetti lo sistemassero. Ma sappi che lo brucerò, prima o poi. E parlando di amici: odio pure loro, dal primo all’ultimo, soprattutto quel nanerottolo che gira attorno a Killer!” precisai, ripensando al momento in cui, prima di salire in ambulanza, mi ero chinato a raccogliere quel copricapo che sempre aveva con sé, macchiato e sporco di sangue. L’avevo affidato a Bepo senza dire una parola e spaventandolo a morte perché gli avevo fatto credere che il suo amico fosse ormai già morto. Alla fine, non senza prima avermi rivolto un’occhiataccia per lo spavento, si era preoccupato di pulirlo, facendolo tornare come nuovo. Si trovava proprio sulla testiera di quel letto d’ospedale.

“Odio il tuo carattere di merda, la tua faccia, quel tuo ghigno sadico che tante volte vorrei cancellarti a suon di pugni”.

Appeso alla parete l’orologio segnava il tempo, aggiungendo minuti, ore, giorni al coma di Trafalgar che, ignaro di quello che gli stava succedendo attorno, non si svegliava. Non apriva gli occhi, non dava segno di ripresa, non faceva niente, non si muoveva. Perché non lottava? Perché non reagiva? Perché non tornava da me?

“E vogliamo parlare di quanto mi sono rotto i coglioni per prepararti da mangiare? Cristo, se hai preso qualche kilo è solo merito mio! Ringraziami almeno” feci sarcastico, rivolgendogli una smorfia critica, “E quando scopavamo? Certo che oltre ad essere uno stronzo facevi pure il prezioso, a parte quando ti ubriacavi. Te l’ho mai detto che sei più simpatico da sbronzo? Sei, come dire, meno insopportabile, più accondiscendente e spari una miriade di stronzate, anche se alcuni discorsi sono parecchio interessanti”.

Non riuscii a trattenere un ghigno divertito, ricordando la notte del mio compleanno quando, totalmente andato, Trafalgar aveva iniziato ad aprire la bocca e a lasciar uscire un sacco di frasi sconnesse, ma abbastanza chiare da poterne interpretare alcune. Tra tutte, una in particolare aveva catturato totalmente la mia attenzione.

“E così io sarei tuo, eh? Aspetta, come l’avevi detto? Oh si: Eustass-ya è mio, solo mio. Che smielato”.

Nonostante la frecciatina lui continuava a dormire, silenzioso, rilassato, lontano, ed io mi sentivo affondare nello sconforto sempre di più. Quanto avevo parlato quei giorni? Quante cose gli avevo raccontato? L’avevo sgridato, avevo urlato, gli avevo chiesto scusa in mille modi diversi, scorbutici e non, e insultato con i peggiori insulti che conoscevo, ma non era servito a nulla, niente sembrava riportarlo alla realtà.

Sospirai, l’ennesimo sospiro abbattuto, e mi passai stancamente le dita fra i capelli, nascondendomi poi il viso tra le mani e puntellando i gomiti sul materasso per sostenermi il capo. Stavo arrivando al limite, me lo sentivo.

“Perché, razza di idiota, perché ti sei spinto a tanto? Per…”. Mi morsi un labbro, “Per me. Non lo meritavo. Al posto tuo avrei dovuto esserci io, non tu e…”.

Un momento. Cos’é questo fischio fastidioso?

“E lo sai che io non ho bisogno dell’aiuto di nessuno. Maledizione, qualcuno ti aveva chiesto niente? Devi sempre fare di testa tua, vero? Dio, se penso che mi sono perfino… Che tu, cazzo, noi…”.

Da dove viene questo casino? Mi sta facendo esplodere il cervello!

Alzai lo sguardo, tentando di capire cosa diavolo stesse succedendo e cosa fosse quel suono che udivo a intermittenza farsi sempre più pressante. Pregai che non si trattasse di una qualche complicazione.

Rimasi in silenzio per pochi istanti, corrucciando la fronte e poi rendendomi conto di quello che stava accadendo, osservando i monitor dei computer e accorgendomi della frequenza cardiaca aumentata. Aveva iniziato a salire proprio quando stavo permettendo a… A quello che mi tenevo dentro di uscire allo scoperto.

Maledetto, bastardo, infido figlio di puttana.

Mi stava prendendo per il culo. Di nuovo, per la precisione. Le sue pulsazioni erano state regolari per tutto quel tempo, quindi mi ero logicamente chiesto a cosa fosse dovuto il loro improvviso aumento. Ero meno intelligente di altri, ma non cieco e così stupido.

Mi alzai dalla sedia per avvicinarmi al ragazzo apparentemente inerme davanti a me, guardandolo dall’alto e chinandomi su di lui in modo da poterlo osservare meglio. Ormai conoscevo le sue fattezze a memoria da quanto l’avevo vegliato.

“Trafalgar” lo chiamai con voce ferma, anche se non riuscii a nascondere del tutto un fremito di emozione e speranza, “Piantala con la tua commedia, lo so che puoi sentirmi, rognosissimo…”.

“N-non essere così tetro, Eustass-ya” sussurrò a bassa voce, respirando profondamente. Per la prima volta fui felice di sentire il mio nome storpiato in quel modo e di vedere il ghigno che gli si dipinse di conseguenza sulle labbra. Poi, quando sollevò le palpebre, restammo a fissarci per diversi minuti. Quelle iridi chiare mi erano mancate in un modo devastante e la marea di sensazioni famigliari che avevano il potere di farmi provare ogni volta che si posavano su di me, anche se con disprezzo, superiorità e irritazione, mi corse lungo il corpo come un brivido. Maledetto, era proprio riuscito a mettere radici nel profondo del mio essere, alla fine.

“Sei in grossi guai” gli feci notare, mettendo subito in chiaro che non avrebbe avuto vita facile nello spiegarmi per filo e per segno cosa aveva creduto di fare da solo con il suo cazzo di piano male organizzato. Soprattutto, doveva farsi perdonare per il suo comportamento nei miei confronti. Oh si, avrebbe dovuto implorarmi in ginocchio, pazienza che si fosse appena svegliato da un coma piuttosto intenso, mica doveva pensare che mi fossi impietosito o rammollito. Le sue condizioni non avrebbero cambiato nulla ed io ero pur sempre Eustass Kidd, ovvero un insensibile menefreghista.

Roteò gli occhi al cielo, alzando con fatica una mano per posare le dita sul mio mento e lasciarle scorrere leggermente, come se si stesse accertando che fossi reale.

“Lo so” mormorò sovrappensiero, aggrottando la fronte e osservandomi più intensamente, “Sei dimagrito, come mai?”.

Bastò un’occhiata seria e diretta per fargli capire perché risultassi più smilzo del solito, non servivano spiegazioni. Solo uno che mi conosceva bene quanto lui avrebbe potuto accorgersene, infatti, preso com’ero stato dal vegliare sulla sua condizione giorno e notte, avevo tralasciato alcuni bisogni primari a detta mia non del tutto necessari come il riposo e i pasti. Pazienza, mi sarei rifatto presto, avevo la pellaccia dura.

“Capisco” annuì, sinceramente dispiaciuto. Poi alzò la testa, guardandomi dritto negli occhi e parlandomi per la prima volta senza menzogna, arroganza, derisione o altro. Fu tremendamente sincero e, maledizione, piacevole in modo disarmante. Avrei potuto abituarmici.

“Mi dispiace di averti fatto preoccupare, Kidd” sussurrò e sul suo viso apparve, finalmente, un sorriso libero, rilassato. Speciale. “Ora sono tornato”.

Lo baciai all’istante, incapace di resistere oltre e temendo di poter iniziare a comportarmi come un moccioso entusiasta da un momento all’altro. Non l’avrei fatto, non me lo sarei mai perdonato, ma almeno a me stesso potevo ammettere che quella era la giornata migliore della mia vita. Non la più felice, sia chiaro, mica mi importava così tanto di lui, e che cazzo. Avevo una reputazione da difendere.

“Piano, mi fa ancora male” si lamentò sommessamente, spostando la mia mano che gli aveva accidentalmente agguantato il pigiama in malo modo.

“Aspetta di arrivare a casa” lo minacciai, riappropriandomi di quelle labbra che tanto avevo sfiorato nella speranza di riuscire a risvegliarlo come per magia, “Non riuscirai a muoverti per mesi”.

 

 

 

 

 

 
Angolo Autrice:
Buonasera ^^ mi schiarisco la voce e mi sistemo il cravattino per essere presentabile e annunciare a tutti, cari, carissimi e meravigliosi e fantastici lettori che… No, questo non è l’ultimo capitolo. Contenti? Bene, perché molto probabilmente il finale arriverà sabato prossimo.
Ora ho lanciato la bomba, mi pareva giusto avvisarvi anche se non ho il capitolo pronto e quindi la parola fine non l’ho ancora messa, per evitare di farvi rimanere troppo male quando la cosa accadrà. Perché, insomma, un po’ vi siete affezionati ai nostri protagonisti, vero? Potete anche schifare me, ovvio, ma i nostri ragazzi come si può non amarli?
Ho appena realizzato che ho quasi concluso una long, concedetemi un momento di silenzio perché mi sto sentendo male. Non sembra, ma ci ho speso mezzo anno e, beh, vado avanti, non sono brava con i discorsi.
Allora. Come si poteva non far svegliare Ace? Ho potuto notare in questi mesi che il ragazzo ha un sacco di fan. Sul serio, si contende il primo posto con Law secondo me dato che il loro nome è ovunque. Anche se, personalmente, io punto più per Kidd… E Marco.
Va bene, va bene, state buone, a me piacciono quei maledetti capelli assurdamente insulsi e quella faccia che ti guarda come per dire:’Adesso vedi che ti faccio’. E i capelli rossi di Eustass? Parliamone, sono una droga.
Ace si sveglia e scopre che no, non è senza un braccio, semplicemente il suo caro fratellino ha scelto di addormentarsi sopra ad esso nell’attesa di buone notizie. E anche qualcun altro, a quanto pare, stava attendendo il suo risveglio. Immaginatevi il loro scambio di battute tipo Alex e Martin di Madagascar, non correvano su una spiaggia, ma l’effetto era più o meno quello, LOL.
Una bella ramanzina ci stava, ma Marco era solo preoccupato, tanto aggiungerei. E’ un ragazzo innamorato, dopotutto. E cucciolo Ace che si accorge che anche lui è stato ferito e poi si coccolano e… Arriva qualcuno sul più bello.
Chi arriva? CHI ARRIVA? Ciao Thatch, hai portato il babbo da Ace? Ma si, ma caro ** non vi lascerò senza incontro, promesso, arriverà nel prossimo capitolo credo, anche perché sono curiosa anche io di vedere cosa ne viene fuori :D
Ben arrivato Penguin, tu e la tua sedia a rotelle siete sempre in mezzo! Tra te e Killer no so chi sia peggio, anche se l’idea della gara è venuta a quel briccone di Thatch, adorabile e splendido ragazzo ^^ (davvero, non so perché, ma ho visto una puntata di Cacciatori di Fantasmi e ho voluto far giocare i ragazzi a nascondino nell’obitorio, va bene?).
E bravo Chopper con le medicine, ah no, aspettate, erano caramelle speciali ** morfina più che altro e Penguin mica poteva saperlo, a lui bastava mangiare qualcosa, pazienza che poi finisse per collassare e vedere i draghi. Ora ditemi che il titolo è stupido, fora, fatelo, lo so, ma non ho potuto resistere. Mi immagino Killer tutto preoccupato che gli chiede dove sono le caramelle e Penguin che, allarmato, gli salta quasi in braccio credendo di vedere cose assurde. Io, ecco, basta.
Fatemi gongolare adesso perché è il turno di Kidd :3
No, lui non è preoccupato; non ha ripulito il cappello di Law; non è felice quando si sveglia (LAW SI E’ SVEGLIATO!); non gliene frega proprio niente eh.
Insomma, qui vengono un po’ fuori i pensieri di Eustass nei confronti del ragazzo che ha conosciuto mesi addietro. Dice di odiarlo, ma con lui ha passato anche bei momenti (compleanno, Kidd se lo fa SOLO Law, sto rotolando **), oh, maledizione, sono l’amore, punto.
Spero di aver reso bene questo passaggio, ma lo rispiego lo stesso per evitare fraintendimenti. Dunque: mentre Kidd parla avverte un rumore, il bip dei macchinari. Avete presente che ci sono i computer/monitor che controllano il battito cardiaco? Il suono si fa sempre più veloce se il battito aumenta. Ecco, lui è stato disturbato da ciò proprio quando stava per confessare qual cosina a Law, il quale, mi spiace per lui, si è lasciato prendere dall’emozione e diciamo che il cuore ha iniziato a battergli un po’ più forte. Reazione normale, no?
Beh, ovviamente il bastardo si era svegliato in quel lasso di tempo, ma aveva preferito starsene zitto, lo spiegherò prossimamente, ma Eustass se ne è accorto e poi niente, il resto è chiaro.
Gente, oggi niente spoiler perché non ho nulla di pronto. Sono una donna orribile, lo so, sono in ritardo con le altre due fic e chiedo perdono ma sto adocchiando corsi per l’università e devo fare dei giri assurdi. Prometto che in settimana arriverà tutto e risponderò con tanto di fiocchi, regali e dolci a tutte le anime pie che hanno recensito in precedenza e che recensiranno se avranno voglia di farlo. Non passate inosservati, credetemi, e apprezzo ogni singola parola che leggo e ne faccio tesoro, soprattutto perché siete gentilissimi, anche se mi avete minacciata, deheh ^^
Che dire, buona serata a tutti, buon fine settimana e al prossimo sabato con, ahimé, l’ultimo capitolo dove vi farò un monumento di ringraziamenti che non saranno comunque mai abbastanza.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto e vi mando un abbraccione grandissimo. Restate sintonizzati.
See ya,
Ace.
  
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