Capitolo 24.
Il drago nel
corridoio.
Ho
sonno. Ho veramente tanto sonno e, aspetta, no, non ho affatto sonno.
Ho fame!
Tanta fame. Ma da quanto non mangio? Uh? Perché è
tutto buio qui intorno? Ahi!
Cazzo, che male la schiena! Ma cosa mi è capitato? Fa un
caldo assurdo, mi
sembra di stare in una brace! Ehi, perché non riesco a
muovere il braccio? Che
è questo peso che mi sento addosso? E poi questo assurdo
‘bip’ da dove viene,
mi sta mandando fuori di testa e io…
Finalmente aprii
gli
occhi.
Oh.
Non ci misi molto
a
capire dove mi trovavo, dopotutto non ci voleva di certo un genio per
intuirlo e
gli ospedali erano sempre stati facili da riconoscere. La stanza
spoglia,
anonima e fastidiosamente bianca aiutava abbastanza, inoltre un paio di
tubicini di plastica che mi uscivano da sotto la manica del pigiama,
collegati
dal mio braccio sinistro ad una flebo accanto al letto, mentre uno
strano
computer segnava la frequenza del mio battito cardiaco. Ecco da dove
veniva il bip che mi martellava nel
cervello.
La cosa che mi
premeva
di più, in tutti i sensi, invece, era
l’impossibilità di muovere il braccio
destro. Qualcosa lo bloccava, ma rimasi piacevolmente sorpreso e
sollevato
quando scoprii che, grazie a Dio, non me l’avevano amputato,
ma semplicemente
era immobilizzato da qualcuno che si era addormentato sopra.
Sollevato come
non mai,
mossi le dita fasciate e sfiorai con i polpastrelli la guancia del
ragazzo
senza riuscire ad impedirmi di sorridere. Rufy era capace di dormire
ovunque e
di mangiare qualsiasi cosa senza problemi ed era bello sapere che avrei
potuto
vederlo comportarsi come un bambino altre migliaia di volte. Non potevo
di
certo permettere che qualcuno facesse del male al mio fratellino,
insomma, ero
pur sempre suo fratello maggiore ed era mio dovere proteggerlo sempre,
a
qualsiasi costo.
Lentamente
riuscii a
scostare il braccio da sotto la sua testa e approfittai per
accarezzargli
quella zazzera scura con affetto, felice di sapere che tutto, alla
fine, era
andato nel migliore dei modi nonostante la gravità della
situazione iniziale.
Quando ero
arrivato
all’appartamento l’incendio era già
stato appiccato ed era bastato vedere una
leggera scia di fumo uscire dalla finestra al terzo piano per farmi
decidere
come agire sul momento. Ero scattato verso l’ingresso e avevo
fatto le scale
volando letteralmente, arrivando davanti alla porta e trovandola
aperta.
All’interno si riusciva a malapena a vedere dove mettere i
piedi e l’aria era
irrespirabile così mi ero tolto la felpa e me
l’ero accostata alla bocca per
non svenire e perdere i sensi ed ero entrato, deciso a trovare Rufy.
Non ci era
voluto molto perché lo conoscevo bene ed ero certo che,
nell’aspettarmi, si era
fiondato in cucina per fare uno spuntino. Infatti l’avevo
trovato proprio
accanto al frigorifero. Quella era stata la parte più facile
e il difficile era
venuto solo dopo. Avevo tutta l’intenzione di trascinarlo
fuori il più in
fretta possibile, ma l’incendio si era ormai esteso,
bloccando il passaggio
diretto verso l’uscita, così ero stato costretto
ad aggirare il salotto con
tutti i mobili che, lentamente, venivano mangiati e arsi dalle fiamme.
Poi la
situazione si era fatta abbastanza bollente, e non in senso buono, per
niente.
Rufy sembrava respirare a fatica e non avevo voluto togliergli i
vestiti perché
temevo che si sarebbe scottato o ustionato, così gli avevo
avvolto attorno alla
testa la mia maglia e mi ero limitato a trattenere il respiro e a
inalare
solamente la minima quantità d’aria necessaria per
andare avanti, almeno fino
alle scale. Meta che raggiunsi con grandi sforzi e una buona dose di
fortuna,
nonché intervento Divino. Anche se, bisognava ammetterlo, la
trave che era
crollata dal soffitto non l’avevano bloccata gli angeli, ma
io con la mia
schiena. Ecco perché mi faceva così male, quindi,
senza dubbio c’era un bello
squarcio. Se non l’avessi fatto, probabilmente a
quell’ora il mio fratellino
non si sarebbe trovato nel mondo dei sogni, comodamente rilassato sul
mio letto
e con la bava che gli colava dalla bocca dischiusa. Era proprio un caso
disperato, decisamente.
Quello che era
successo
dopo non me lo ricordavo bene, sapevo solo che avevo fatto di tutto per
uscire
da quell’inferno di fuoco e fiamme. Dovevo salvare Rufy, solo
quello era stato
importante e il bruciore alle braccia, alle gambe e alla schiena era
passato in
secondo piano davanti a quel pensiero fisso. Alla fine ero riuscito a
raggiungere la porta e avevo messo un po’ di distanza tra me
e il calore,
nonostante il fumo soffocante fosse persistito fino al portone
d’ingresso dove
un favoloso venticello mi aveva investito, rischiarandomi la mente e
rinfrescandomi da cima a fondo. Era stata una sensazione meravigliosa,
anche se
il dolore, la stanchezza e lo stress mi erano piombati addosso in un
istante,
facendomi barcollare e lasciandomi intontito. Solo dopo essermi
assicurato del
benessere di Rufy mi ero permesso di cedere, lasciandomi finalmente
avvolgere
dalle braccia armoniose del sonno e concedendomi un meritato e lungo
riposo,
dimenticandomi di tutto il resto.
In quel momento
ero
davvero contento di vederlo così tranquillo in quel momento,
intento ad
aspettare il mio risveglio e solo quando qualcosa cadde a terra con un
tonfo
sordo mi accorsi che in quella stanza non c’eravamo solo noi
due.
A causa della
penombra
procurata dalle tende tirate in modo da coprire la luce proveniente
dalla
finestra sulla parete di sinistra, non mi ero reso conto che, dalla
parte
opposta della camera, c’era un tavolino circondato da alcune
sedie posizionate
attorno. Su una di queste riposava un’altra persona, il busto
riverso sul
ripiano, un braccio usato come cuscino e l’altra mano
abbandonata lungo un
fianco mentre un libro faceva bella mostra di sé aperto sul
pavimento. Il
diretto interessato sembrò destarsi, disturbato forse dal
rumore e, sospirando
stancamente, si abbassò per recuperare il volume e riporlo
sopra al tavolo con
cura, passandosi poi una mano sul volto assonnato e grattandosi
distrattamente
una chioma di capelli che, per quante volte l’avessi ormai
vista, continuava a
lasciarmi un po’ perplesso.
Rimasi in
silenzio ad
osservarlo, ricordando improvvisamente la nostra ultima conversazione e
sentendomi stranamente a disagio. Gli avevo praticamente riattaccato il
telefono in faccia, avevo invertito la marcia e avevo ignorato le sue
raccomandazioni. Anche dei suoi consigli me ne ero altamente fregato.
Per non
parlare delle minacce. Seriamente, avevo fatto tutto di testa mia senza
curarmi
del suo parere. Wow, proprio un bel modo di iniziare una relazione.
“Ace?”.
I nostri sguardi
si
incontrarono solo allora e sui suoi occhi si dipinse lo stupore mentre
il mio
viso andava in fiamme. Non per il calore, ma per l’imbarazzo.
Ero nei guai, me
lo sentivo, anche se il suo tono di voce non sembrava arrabbiato, ma
curioso.
“M-marco”.
Stupida
balbuzie.
“Ace…”.
Adesso era,
come dire, sollevato. Aveva rilassato le spalle e sembrava addirittura
che un
sorriso stesse facendo capolino sulle sue labbra.
“Marco”
ripetei,
sentendo nascere dentro di me l’entusiasmo. Ero scampato da
morte certa; mio
fratello stava bene e dormiva beato accanto a me e il mio barista
preferi… No, il mio ragazzo
mi stava guardando con
aria innamor… Mi corressi, con aria omicida e mi stava
venendo incontro per
abbracciarmi e…
Ehi,
frena, perché ha quella faccia?
pensai, sbiancando e cercando di nascondermi sotto le lenzuola quando
lo sentii
urlare.
“ACE!”.
“Eh?
Che cosa? Ace?
Ace! Fratellone!”.
Piombarono
entrambi e
nello stesso istante sul mio letto, facendolo cigolare e inclinare
pericolosamente,
e, allibito e sconcertato, fui sommerso dai loro corpi che facevano a
gara per
appropriarsi della mia faccia e dei miei arti, strattonandomi da una
parte
all’altra e facendomi mordere violentemente le labbra per non
urlare. La pelle
tirava in più punti, probabilmente dove era stata scottata o
bruciata e dove i
medici avevano applicato le suture, inoltre faceva terribilmente male,
ma non
volevo turbarli con le mie precarie condizioni, dopotutto li avevo
fatti
preoccupare anche troppo.
“Ace,
brutto idiota!”
stava dicendo Marco, inginocchiato sul materasso e con le mani
impegnate ad
arruffarmi i capelli. Aveva un cipiglio serio e incazzato sul viso e mi
stava
rimproverando davvero, ma i suoi gesti tradivano la felicità
che gli stava
scoppiando dentro, mentre Rufy rideva, e rideva, e rideva. Senza sosta,
rischiando addirittura di strozzarsi, soffocando persino me con uno dei
suoi
abbracci capaci di stritolare un orso. Quel contatto fu troppo per la
mia
povera schiena martoriata.
“Ragazzi
piano, mi
state uccidendo!” mormorai a denti stretti, sospirando
sollevato quando Rufy,
scusandosi, si staccò da me, limitandosi a stringermi
delicatamente le spalle,
scrutandomi attentamente e rivolgendomi una serie infinita di domande
sulla mia
salute.
“Sul
serio, sto bene”
ripetei per la millesima volta, facendoli scendere dal letto dopo che
si furono
ben assicurati che dicessi la verità e che non stessi
mentendo solo per
tranquillizzarli. Da quel che ebbi modo di capire in seguito ero
rimasto
incosciente per tre giorni dopo l’operazione. I medici
avevano previsto che mi
sarebbe servito solo qualche tempo per riposare e recuperare tutte le
forze e
così era stato. Le ferite sarebbero guarite col tempo, senza
dubbio, e sarei
tornato come nuovo, cicatrici di guerra a parte.
“Sono
così felice che
tu ti sia svegliato! Io e Marco non abbiamo fatto altro che stare qui
ad
aspettare, eravamo così preoccupati!” stava
dicendo Rufy, saltellando per la
stanza e sprizzando gioia da tutti i pori, “Sapevo che ti
saresti rimesso,
testa d’ananas continuava a ripetermelo almeno cinque volte
al giorno e io gli
ho creduto e non ho mai dubitato! Sono così felice, Ace! Il
nonno era disperato
e gli altri stanno aspettando notizie. Dio, mi sono dimenticato di
loro! Vado
ad avvisarli, torno subito, tu aspettami!”. E si
volatilizzò da sotto al mio
naso, lasciando dietro di sé una porta aperta che
sbatté contro il muro e le sue
grida isteriche che non facevano altro che ripetere ‘Ace
si è svegliato!’. Il rumore assordante e
metallico che seguì
mi inquietò parecchio, ma non volli nemmeno fermarmi a
chiedermi cosa diavolo
fosse stato perché avevo la vaga sensazione di non volerlo
sapere davvero. Non
del tutto, almeno.
Qualcuno accanto
a me
si schiarì la voce e mi sentii gelare, maledicendo
mentalmente mio fratello.
Insomma, mi svegliavo dopo tre giorni di coma e lui doveva preoccuparsi
di correre
ad avvisare i nostri amici? Tenermi compagnia per evitarmi una morte
certa per
mano del pennuto no, vero? Avrei inevitabilmente dovuto cavarmela da
solo.
Mi voltai
leggermente
verso Marco per rivolgergli un’occhiata timida, cercando di
capire quanto fosse arrabbiato. A
giudicare
dall’espressione impassibile e dalle braccia incrociate al
petto, doveva
esserlo molto.
Mi strinsi nelle
spalle, abbozzando un sorriso spensierato nel tentativo di riuscire a
passarla
liscia. “Ehilà”
improvvisai,
ostentando allegria. Non potevo scegliere modo peggiore per iniziare
una
conversazione. Davvero, avrei voluto scomparire.
Il suo braccio
scattò
verso di me, come se avesse voluto colpirmi, ma si fermò a
mezz’aria e,
stringendo la mano a pugno, se la portò alle labbra,
mordendosi le nocche nel
tentativo di trattenersi.
“Hai
almeno la vaga
idea di quello che abbiamo passato, Ace?” domandò
glaciale e scandendo
lentamente le parole una ad una, scoccandomi un’occhiata
torva, tanto che
abbassai il capo dispiaciuto. “Riesci ad immaginare come ci
siamo sentiti?”. La
voce più alta di qualche tono. “Ti abbiamo creduto
morto, razza di incosciente!
E non ti descrivo nemmeno la faccia di tuo fratello in questi giorni,
era
distrutto. Non faceva altro che colpevolizzarsi e pregare che aprissi
gli occhi”.
L’idea di Rufy in quello stato mi fece sentire tremendamente
in colpa. Entrambi
ci volevamo un bene infinito e sapere di averlo reso triste mi
dispiaceva moltissimo.
“Abbiamo
passato tre
giorni orribili per la tua testardaggine. Io…” si
bloccò, mordendosi un labbro
e stringendo i pugni lungo i fianchi, “Tutti noi non sapevamo
più cosa fare”.
“I-io
non volevo che vi
preoccupaste” sussurrai, “Ma cos’altro
avrei potuto fare? Rufy era in pericolo
e non potevo lasciarlo da solo!” tentai di ribattere
sommessamente, benché
sapessi che non avevo scuse valide dalla mia parte.
Batté
una mano sul
materasso, facendomi sussultare. “Lo so, dannazione! Lo so e
avrei fatto lo
stesso per la mia famiglia, ma avresti potuto permettermi di aiutarti.
Thatch e
io non ti avremo di certo abbandonato. Cosa ti passava per la
testa?”. Aveva
pienamente ragione e mi rendevo conto che era solo teso per il pericolo
che
tutti noi avevamo rischiato, perciò lasciai che si sfogasse,
ne aveva il
diritto e nei suoi confronti non mi ero comportato certo correttamente.
L’avevo
ignorato, anche se per una buona causa. Ad ogni modo ascoltai tutto
quello che
ebbe da dirmi, accorgendomi solo per caso che anche lui, come me e
Rufy,
indossava un pigiama e, dalle maniche arrotolate come al solito sui
gomiti,
spuntavano alcuni cerotti.
“Cosa
ti è successo?”
domandai, interrompendo le sue parole e lasciandolo perplesso.
“Sei pieno di
bende e indossi un camice dell’ospedale” sussurrai,
iniziando ad agitarmi,
tanto che dovetti controllarmi per non risultare isterico,
“Perché?”.
La preoccupazione
sul
suo volto sembrò scemare, lasciando spazio finalmente ad
un’aria rilassata e
sollevata. Mi sondò con lo sguardo per qualche secondo, la
postura rilassata e
le labbra tormentate dai denti mentre decideva cosa rispondere.
“Solidarietà”
scherzò
con un’alzata di spalle, ma alzando gli occhi al cielo
davanti alla mia faccia
corrucciata e per niente divertita. “Ho lottato per
ciò a cui tengo” aggiunse
poi, avvicinandosi per affondare dolcemente una mano fra i miei
capelli,
scompigliandoli l’attimo successivo e poggiando la fronte
contro la mia, “Come
hai fatto tu”. E mi sorrise allegramente. Alla fine ero
riuscito a far crollare
quel viso perennemente apatico, meritavo un monumento.
Mi
sfiorò il naso con
il suo mentre io non riuscivo a fare altro che ascoltare il battito
cardiaco
accelerato del mio cuore e fissare i suoi occhi in attesa di qualcosa.
Qualsiasi
cosa pur di sentirlo vicino.
Un bacio. Poi un
altro
e un altro ancora. Le mani ovunque e dirette ad afferrare il camice
dell’ospedale che entrambi indossavamo. C’era
sempre quella fastidiosa stoffa
superflua tra noi, bisognava rimediare.
“Toh
guarda” fece una
voce fin troppo famigliare alle nostre spalle, “Questo si che
vale un braccio
rotto. Tu che ne pensi, babbo?”.
Se avessi saputo
che
una volta risvegliatomi avrei dovuto conoscere il padre di Marco,
nonché
sindaco della città, nonché mio probabile e
futuro suocero, avrei sicuramente
preferito essere imbottito di anestetico e non svegliarmi affatto.
* * *
Il traguardo era
vicino, vicinissimo, mancava davvero poco, quando da una porta laterale
uscì
all’improvviso un moccioso con un sorriso da un orecchio
all’altro intento ad
urlare qualcosa di incomprensibile. Inutile dire che lo investii in
pieno,
ritrovandomi con il viso spiaccicato sul pavimento e la sedia a rotelle
riversa
sopra di me. L’ingiustizia peggiore fu che il piccoletto non
si fece neanche un
graffio e si rialzò l’istante dopo, prendendo a
correre lungo il corridoio con
le braccia verso l’alto chiuse a pugno, come in segno di
vittoria.
“Ehi,
Rufy!” lo
chiamai, “Dove te ne vai?”.
Puntò
i piedi sul
pavimento, frenando la sua corsa bruscamente e rischiando di scivolare,
ma si
mantenne in equilibrio per poi voltarsi indietro e sorridermi felice.
“Ace si è
svegliato! Sto andando ad avvisare gli altri”.
“Sia
lodato il Cielo!
Salta su, ti accompagno io” dissi convinto, rimettendo a
posto la carrozzina
per sedermi su di essa e indicandogli le mie ginocchia. Con quella
avremo fatto
sicuramente prima a raggiungere il resto della compagnia che da tre
giorni si
era accampata nella sala d’attesa.
“Davvero?
Grazie
Penguin!”. Entusiasta, Rufy mi saltò addosso,
mettendosi comodo e puntando un
dito in avanti, proclamando con aria solenne che la vettura poteva
partire
quando più mi faceva comodo così, dopo averlo
nominato navigatore di bordo,
partii a raffica, facendo girare le ruote e ricordandomi solo in quel
momento
che non ero il solo ad aver rubato una sedia a rotelle dal magazzino.
“Aspettatemi,
maledizione! Che razza di mocciosi!”.
“Forza,
Casco di Banane,
muoviti!”. Forse Rufy
avrebbe dovuto essere più gentile nei confronti di Killer,
ma non dissi nulla e
non mi preoccupai nemmeno di trattenere le risate mentre, alle nostre
spalle,
il biondo si faceva sempre più vicino, minacciando di
ucciderci se solo ci
avesse raggiunti.
Per ingannare
l’attesa,
quel pomeriggio, invece di fare sempre il solito gioco che si era
inventato
Thatch, ovvero giocare a nascondino all’obitorio, avevo
deciso di organizzare
una gara clandestina utilizzando quegli adorabili seggiolini con le
ruote. La
mia proposta aveva riscosso un certo successo e stavamo ancora facendo
qualche
giro di prova dato che in castano ci aveva chiesto di rimandare la
corsa perché
suo padre era arrivato all’ospedale per visitare i suoi cari
figlioli, come
aveva preso a fare da tre giorni a quella parte. Dovevo ammettere che
il
sindaco della città non era affatto male, un po’
stupido si, ma con le palle.
Ace avrebbe avuto una bella sorpresa di lì a poco, visto che
Marco non faceva
altro che vegetare nella sua stanza per vegliarlo. Di certo il vecchio
gli
sarebbe apparso in camera, non c’era dubbio.
Ad ogni modo,
tralasciando Zoro che si era sicuramente perso e Sanji che si era
fermato a
sostare per chiacchierare con le infermiere, eravamo rimasti Killer ed
io e la
gara si stava facendo sempre più cruenta, almeno fino a che
non avevamo fatto
un incidente di percorso a causa di Rufy, ma poco importava: avremo
continuato
più tardi.
Raggiungemmo la
sala
d’attesa in un coro di risate e urla da parte di Killer, il
quale non riuscì a
fermarsi in tempo, finendo per mancare la fermata e ritrovandosi
dall’altra
parte del corridoio, mentre Rufy saltava agilmente giù dalla
sedia a rotelle,
correndo ad abbracciare suo nonno Garp che non sembrava voler smettere
di
piangere.
“Nonno,
Ace si è
svegliato! No, non sto scherzando! Sta bene, ci credi? Che…?
No, aspet… Mi fai
male! Non stringermi così!”.
“Sul
serio? E quando è
successo? Penguin?”.
“Poco
fa, Nami. Con lui
adesso dovrebbe esserci Marco e forse suo fratello. Magari
più tardi andiamo
anche noi” proposi, sentendo inevitabilmente un peso svanirmi
dal petto. Per
fortuna che quel ragazzo si era rimesso e aveva deciso di tornare tra
noi, non
avrei potuto immaginare la reazione di Rufy se le cose si fossero
complicate.
Non avrebbe retto, ne ero certo, bastava tenere presente lo stato di
tristezza
totale che aveva vissuto quei giorni. Era impossibile chiedergli di
vivere
senza il suo adorato fratellone.
“Non se
ne parla! Sono
suo nonno, l’unico famigliare che gli è rimasto!
Io vado da lui immediatamente!
Dov’è? Dov’è mio
nipote?”.
Il vecchio
poliziotto
sparì dalla sala con la pulce alle calcagna che ridacchiava,
cercando comunque
di calmarlo e di trattenerlo invano, lasciandomi solo con gli altri.
“Sono
così contento per
Ace” stava dicendo Chopper, sospirando sollevato e poggiando
sul tavolino un
sacchetto di caramelle bianche alla menta, sostenuto da Usopp che,
accanto a
lui, si soffiava rumorosamente il naso, cercando di far passare le sue
lacrime
di gioia per allergia al disinfettante, il che era un controsenso bello
e
buono, ma non glielo feci notare.
“Dov’è
Zoro?” mi chiese
Nami dopo un po’ con l’aria perplessa.
Trattenni un
sorrisetto
malizioso, quei due ancora non sapevano che li avevo beccati mano nella
mano il
giorno prima mentre si dirigevano verso l’uscita credendo di
non essere visti,
così mi strinsi nelle spalle e dietro di me Killer
rispondeva che, molto
probabilmente, non riusciva più a trovare la via del
ritorno, causando
l’irritazione della ragazza che partì spedita alla
sua ricerca. Sicuramente non
l’avremo rivista prima di qualche ora, dato che quello che
presto sarebbe
diventato il suo ragazzo nel perdersi era un vero e proprio asso.
Mentre ascoltavo
gli
altri chiacchierare sulle ultime novità e sui risvolti della
situazione mi
avvicinai al tavolo che stava di fronte a loro, pieno di mazzi di fiori
da
consegnare a quelli che ancora non erano stati dimessi, come Smoker,
Ace e
Thatch, afferrando il pacchetto anonimo di caramelle e iniziando a
mangiarne
una dopo l’altra. Avevano un sapore strano, ma non erano
male. Forse qualche
gusto appena prodotto sul mercato.
“Il
padre di Kidd come
sta?”.
“Meglio
di tutti. Ieri
l’ho trovato fuori a fumare”.
“E
Thatch?” chiese
Usopp.
“Oh,
lui sta
magnificamente. Davvero, non credo che esista nessuno più
pazzo di lui, nemmeno
Penguin!” rispose Killer, lanciandomi un’occhiata
scherzosa che ignorai,
impegnato com’ero a fissare un punto indefinito alle sue
spalle, lungo il
corridoio.
Erano passati tre
giorni dalla nostra impresa eroica perfettamente riuscita, ferite da
fuoco e
esplosioni a parte. Killer aveva già avuto il permesso di
tornare a casa, come
me del resto, ma, dato che ormai io una casa non ce l’avevo
più, mi aveva
gentilmente proposto di stabilirmi da lui, almeno fino a che le cose
non si
fossero sistemate. Rufy era ancora in osservazione ma, anche se
così non fosse
stato, nessuno sarebbe mai riuscito a smuoverlo dalla stanza del
fratello, così
come Marco, il quale aveva un buon motivo per essere ricoverato.
L’avevano
tenuto sotto i ferri per due ore buone, ma fortunatamente il proiettile
non
aveva colpito nessun organo vitale ed era stato facile per i medici
rimetterlo
come nuovo. Thatch, quel simpatico ragazzone, ormai mio compagno di
avventure,
sarebbe tornato dalla sua famiglia il giorno seguente con un braccio
ingessato
e qualche cerotto sul viso, ma niente di così grave. Il
buonumore, per esempio,
non l’aveva affatto perso. Per quanto riguardava il mio
futuro datore di
lavoro, perché ero ancora convinto che il mio coraggio
bastasse per entrare
nelle forze della polizia, aveva ancora qualche giorno da passare
all’ospedale,
poi l’avrebbero buttato fuori, forse anche a calci, dato che
non sembrava voler
capire che all’interno della struttura era vietato fumare. La
situazione era
diventata sopportabile quando sua moglie, Ivan, non gli aveva gettato
dalla
finestra tutti i pacchetti di sigarette che si era fatto portare dai
colleghi.
Kidd
l’avevo visto
pochissimo. Passava la maggior parte del tempo nella sua stanza e,
quando non
era lì, si trovava per forza sul terrazzo
dell’ultimo piano. Passava lì qualche
ora del giorno da solo a pensare e, nonostante fossi certo che
l’antipatia che
provava nei miei confronti fosse scemata, non avevo cuore di
disturbarlo. Non
lo faceva nemmeno Killer, a dire il vero, il quale aveva il ruolo di
fratello
acquisito ormai. Tutti capivamo il suo stato d’animo e lo
lasciavamo
rispettosamente tranquillo, come era giusto che fosse. Anche
perché,
personalmente, non avrei saputo cosa dirgli. Non c’erano
parole per esprimere
il dolore che tutti stavamo provando. La preoccupazione per Trafalgar
era una
costante fissa. Ognuno cercava di sopportare quella situazione di
stallo e
incertezza come poteva, non pensandoci, uscendo, scherzando, anche se i
sorrisi
non erano mai splendidi e del tutto vivaci. Mancava sempre quella luce
che li
aveva caratterizzati in passato. Law mancava a tutti, a Kidd compreso,
e
sopportare la sua assenza era via, via sempre più difficile.
In quel momento,
però,
trovai la soluzione alla depressione. O meglio, me ne resi conto una
volta che
mi ebbero risvegliato dal trauma, perché la mia mente prese
a viaggiare per
conto proprio in un’altra dimensione.
Colore.
Guarda quanto colore. E questi che sono? Navi? Velieri dei pirati! Oh,
perché
Nami indossa un costume e Chopper è un procione? No,
aspetta, é una renna. Una
fottuta renna. Qualcuno mi fermi, potrei morire per le risate! Uh?
Questa si
che mi è nuova.
“Ehi,
Kira-chan, perché
indossi una maschera a righe?” chiesi a Killer, il quale mi
guardò stranito,
sfiorandosi il viso privo di coperture. Ma io non potevo saperlo nelle
condizioni in cui mi trovavo.
“Ehm,
Penguin, io non
sto indossando niente” mi fece notare cauto, scambiandosi
occhiate preoccupate
con gli altri.
Certo,
certo. Come vuoi,
pensai, sicuro di avergli risposto e prendendo a girare in tondo. Per
un attimo
mi sembrò di vedere Doflamingo volare fuori dalla finestra,
ma quello si mi
risultava impossibile perché il bastardo era morto. Secco.
Eliminato.
Un ghigno sadico
e
abbastanza stupido mi spuntò sulle labbra e, ignorando il
confabulare e il
grido trattenuto di Chopper, il quale si fiondò sul tavolo,
smistando i fiori
alla ricerca di qualcosa, mi affacciai sul corridoio con
un’espressione ebete,
mettendo in bocca un’altra di quelle deliziose caramelle.
Qualcuno mi
picchiettò
sulla spalla. “Penguin, cosa stai mangiando?” mi
sentii chiedere. Ero quasi
certo che fosse Usopp, ma non capivo perché era
così teso.
“I
dolcetti di Chopper.
Sono buoni. Com’è che si chiamano?”.
“Cosa
gli hai dato?
Morfina? LSD? Guarda i suoi occhi!” sbraitò Usopp.
“P-penguin”
fece la
renna. Che buffo, ora aveva persino un cappello rosa in testa.
“D-dove hai
messo quelle caramelle?”.
D’un
tratto nulla ebbe
più senso e il terrore mi attanagliò le viscere.
Eravamo tutti in pericolo,
dovevamo scappare o saremo morti!
“Fanculo
le caramelle!
Hai visto il drago nel corridoio?”.
* * *
La stanza era
silenziosa e in penombra, ma piuttosto riscaldata e l’unico
rumore che mi
faceva compagnia era quello dei macchinari accesi ai quali il ragazzo
era
costretto a rimanere collegato in modo che le sue condizioni venissero
costantemente monitorate.
Un mese e mezzo.
Un
orribile e maledetto mese e mezzo di attesa era passato. Erano stati
tutti
dimessi, chi prima e chi dopo. Pure io avevo ottenuto il permesso di
potermene
tornare a casa, ma non ne avevo voluto sapere. Ero rimasto
lì, incapace di
abbandonare quelle mura, incapace di tornare a vivere normalmente,
quello che
avrei dovuto fare. Non potevo andarmene sapendo che il suo caso era in
stallo e
che ancora non c’era stato alcun risvolto positivo o
determinante per la sua
condizione.
“Ti
odio” mormorai ad
un certo punto e per la millesima volta, dando voce ai miei pensieri e
sperando
inconsciamente che tutto ciò potesse essere utile a
qualcosa. “Ti ho odiato dal
primo momento in cui mi sei piombato tra i piedi quella dannata sera. A
me le
persone non piacciono per principio, lo sai, ma tu… Tu,
bastardo, appena ti ho
visto ho capito che eri il peggio in circolazione. Una piaga, un sfiga.
Sempre
così sicuro, così calmo, così
fottutamente padrone di te stesso. ‘Fanculo, eri
insopportabile!”.
Nella camera
calò di
nuovo il silenzio, opprimente e pesante, disturbato sempre dal bip continuo delle macchine posizionate
accanto al lettino e collegate direttamente al suo corpo. Tutto
regolare,
nessun cambiamento, nessuna svolta positiva o negativa, nulla. Era una
schifosissima situazione di transito che durava da troppo per i miei
gusti.
“Ti
odio” ripetei
atono, “Odio tutto di te, a cominciare da quel cazzo di
cappello che ti porti
sempre appresso! L’ho ritrovato, a proposito, era logoro
ma… Forse, diciamo che
potrebbe non essere da buttare, ecco… Mi sono assicurato che
i tuoi amichetti
lo sistemassero. Ma sappi che lo brucerò, prima o poi. E
parlando di amici:
odio pure loro, dal primo all’ultimo, soprattutto quel
nanerottolo che gira
attorno a Killer!” precisai, ripensando al momento in cui,
prima di salire in
ambulanza, mi ero chinato a raccogliere quel copricapo che sempre aveva
con sé,
macchiato e sporco di sangue. L’avevo affidato a Bepo senza
dire una parola e
spaventandolo a morte perché gli avevo fatto credere che il
suo amico fosse
ormai già morto. Alla fine, non senza prima avermi rivolto
un’occhiataccia per
lo spavento, si era preoccupato di pulirlo, facendolo tornare come
nuovo. Si
trovava proprio sulla testiera di quel letto d’ospedale.
“Odio
il tuo carattere
di merda, la tua faccia, quel tuo ghigno sadico che tante volte vorrei
cancellarti a suon di pugni”.
Appeso alla
parete
l’orologio segnava il tempo, aggiungendo minuti, ore, giorni
al coma di
Trafalgar che, ignaro di quello che gli stava succedendo attorno, non
si
svegliava. Non apriva gli occhi, non dava segno di ripresa, non faceva
niente,
non si muoveva. Perché non lottava? Perché non
reagiva? Perché non tornava da
me?
“E
vogliamo parlare di
quanto mi sono rotto i coglioni per prepararti da mangiare? Cristo, se
hai
preso qualche kilo è solo merito mio! Ringraziami
almeno” feci sarcastico,
rivolgendogli una smorfia critica, “E quando scopavamo? Certo
che oltre ad
essere uno stronzo facevi pure il prezioso, a parte quando ti
ubriacavi. Te l’ho
mai detto che sei più simpatico da sbronzo? Sei, come dire,
meno insopportabile,
più accondiscendente e spari una miriade di stronzate, anche
se alcuni discorsi
sono parecchio interessanti”.
Non riuscii a
trattenere un ghigno divertito, ricordando la notte del mio compleanno
quando,
totalmente andato, Trafalgar aveva iniziato ad aprire la bocca e a
lasciar
uscire un sacco di frasi sconnesse, ma abbastanza chiare da poterne
interpretare alcune. Tra tutte, una in particolare aveva catturato
totalmente
la mia attenzione.
“E
così io sarei tuo, eh?
Aspetta, come l’avevi detto? Oh
si: Eustass-ya è mio, solo mio. Che smielato”.
Nonostante la
frecciatina lui continuava a dormire, silenzioso, rilassato, lontano,
ed io mi
sentivo affondare nello sconforto sempre di più. Quanto
avevo parlato quei
giorni? Quante cose gli avevo raccontato? L’avevo sgridato,
avevo urlato, gli
avevo chiesto scusa in mille modi diversi, scorbutici e non, e
insultato con i
peggiori insulti che conoscevo, ma non era servito a nulla, niente
sembrava
riportarlo alla realtà.
Sospirai,
l’ennesimo
sospiro abbattuto, e mi passai stancamente le dita fra i capelli,
nascondendomi
poi il viso tra le mani e puntellando i gomiti sul materasso per
sostenermi il
capo. Stavo arrivando al limite, me lo sentivo.
“Perché,
razza di
idiota, perché ti sei spinto a tanto?
Per…”. Mi morsi un labbro, “Per me. Non
lo meritavo. Al posto tuo avrei dovuto esserci io, non tu
e…”.
Un
momento. Cos’é questo fischio fastidioso?
“E lo
sai che io non ho
bisogno dell’aiuto di nessuno. Maledizione, qualcuno ti aveva
chiesto niente?
Devi sempre fare di testa tua, vero? Dio, se penso che mi sono
perfino… Che tu,
cazzo, noi…”.
Da
dove viene questo casino? Mi sta facendo esplodere il cervello!
Alzai lo sguardo,
tentando di capire cosa diavolo stesse succedendo e cosa fosse quel
suono che
udivo a intermittenza farsi sempre più pressante. Pregai che
non si trattasse
di una qualche complicazione.
Rimasi in
silenzio per
pochi istanti, corrucciando la fronte e poi rendendomi conto di quello
che
stava accadendo, osservando i monitor dei computer e accorgendomi della
frequenza cardiaca aumentata. Aveva iniziato a salire proprio quando
stavo
permettendo a… A quello che mi tenevo dentro di uscire allo
scoperto.
Maledetto,
bastardo, infido figlio di puttana.
Mi stava
prendendo per il
culo. Di nuovo, per la precisione. Le sue pulsazioni erano state
regolari per
tutto quel tempo, quindi mi ero logicamente chiesto a cosa fosse dovuto
il loro
improvviso aumento. Ero meno intelligente di altri, ma non cieco e
così
stupido.
Mi alzai dalla
sedia
per avvicinarmi al ragazzo apparentemente
inerme davanti a me, guardandolo dall’alto e chinandomi su di
lui in modo da
poterlo osservare meglio. Ormai conoscevo le sue fattezze a memoria da
quanto
l’avevo vegliato.
“Trafalgar”
lo chiamai
con voce ferma, anche se non riuscii a nascondere del tutto un fremito
di
emozione e speranza, “Piantala con la tua commedia, lo so che
puoi sentirmi,
rognosissimo…”.
“N-non
essere così
tetro, Eustass-ya” sussurrò a bassa voce,
respirando profondamente. Per la
prima volta fui felice di sentire il mio nome storpiato in quel modo e
di
vedere il ghigno che gli si dipinse di conseguenza sulle labbra. Poi,
quando
sollevò le palpebre, restammo a fissarci per diversi minuti.
Quelle iridi
chiare mi erano mancate in un modo devastante e la marea di sensazioni
famigliari che avevano il potere di farmi provare ogni volta che si
posavano su
di me, anche se con disprezzo, superiorità e irritazione, mi
corse lungo il
corpo come un brivido. Maledetto, era proprio riuscito a mettere radici
nel
profondo del mio essere, alla fine.
“Sei in
grossi guai”
gli feci notare, mettendo subito in chiaro che non avrebbe avuto vita
facile
nello spiegarmi per filo e per segno cosa aveva creduto di fare da solo
con il
suo cazzo di piano male organizzato. Soprattutto, doveva farsi
perdonare per il
suo comportamento nei miei confronti. Oh si, avrebbe dovuto implorarmi
in
ginocchio, pazienza che si fosse appena svegliato da un coma piuttosto
intenso,
mica doveva pensare che mi fossi impietosito o rammollito. Le sue
condizioni
non avrebbero cambiato nulla ed io ero pur sempre Eustass Kidd, ovvero
un
insensibile menefreghista.
Roteò
gli occhi al
cielo, alzando con fatica una mano per posare le dita sul mio mento e
lasciarle
scorrere leggermente, come se si stesse accertando che fossi reale.
“Lo
so” mormorò
sovrappensiero, aggrottando la fronte e osservandomi più
intensamente, “Sei
dimagrito, come mai?”.
Bastò
un’occhiata seria
e diretta per fargli capire perché risultassi più
smilzo del solito, non
servivano spiegazioni. Solo uno che mi conosceva bene quanto lui
avrebbe potuto
accorgersene, infatti, preso com’ero stato dal vegliare sulla
sua condizione
giorno e notte, avevo tralasciato alcuni bisogni primari a detta mia
non del
tutto necessari come il riposo e i pasti. Pazienza, mi sarei rifatto
presto,
avevo la pellaccia dura.
“Capisco”
annuì,
sinceramente dispiaciuto. Poi alzò la testa, guardandomi
dritto negli occhi e
parlandomi per la prima volta senza menzogna, arroganza, derisione o
altro. Fu
tremendamente sincero e, maledizione, piacevole in modo disarmante.
Avrei
potuto abituarmici.
“Mi
dispiace di averti
fatto preoccupare, Kidd” sussurrò e sul suo viso
apparve, finalmente, un
sorriso libero, rilassato. Speciale. “Ora sono
tornato”.
Lo baciai
all’istante,
incapace di resistere oltre e temendo di poter iniziare a comportarmi
come un
moccioso entusiasta da un momento all’altro. Non
l’avrei fatto, non me lo sarei
mai perdonato, ma almeno a me stesso potevo ammettere che quella era la
giornata migliore della mia vita. Non la più felice, sia
chiaro, mica mi
importava così tanto di lui, e che cazzo. Avevo una
reputazione da difendere.
“Piano,
mi fa ancora
male” si lamentò sommessamente, spostando la mia
mano che gli aveva
accidentalmente agguantato il pigiama in malo modo.
“Aspetta
di arrivare a
casa” lo minacciai, riappropriandomi di quelle labbra che
tanto avevo sfiorato
nella speranza di riuscire a risvegliarlo come per magia,
“Non riuscirai a
muoverti per mesi”.
Angolo Autrice:
Buonasera ^^ mi schiarisco la voce e mi sistemo il cravattino per essere presentabile e annunciare a tutti, cari, carissimi e meravigliosi e fantastici lettori che… No, questo non è l’ultimo capitolo. Contenti? Bene, perché molto probabilmente il finale arriverà sabato prossimo.
Ora ho lanciato la bomba, mi pareva giusto avvisarvi anche se non ho il capitolo pronto e quindi la parola fine non l’ho ancora messa, per evitare di farvi rimanere troppo male quando la cosa accadrà. Perché, insomma, un po’ vi siete affezionati ai nostri protagonisti, vero? Potete anche schifare me, ovvio, ma i nostri ragazzi come si può non amarli?
Ho appena realizzato che ho quasi concluso una long, concedetemi un momento di silenzio perché mi sto sentendo male. Non sembra, ma ci ho speso mezzo anno e, beh, vado avanti, non sono brava con i discorsi.
Allora. Come si poteva non far svegliare Ace? Ho potuto notare in questi mesi che il ragazzo ha un sacco di fan. Sul serio, si contende il primo posto con Law secondo me dato che il loro nome è ovunque. Anche se, personalmente, io punto più per Kidd… E Marco.
Va bene, va bene, state buone, a me piacciono quei maledetti capelli assurdamente insulsi e quella faccia che ti guarda come per dire:’Adesso vedi che ti faccio’. E i capelli rossi di Eustass? Parliamone, sono una droga.
Ace si sveglia e scopre che no, non è senza un braccio, semplicemente il suo caro fratellino ha scelto di addormentarsi sopra ad esso nell’attesa di buone notizie. E anche qualcun altro, a quanto pare, stava attendendo il suo risveglio. Immaginatevi il loro scambio di battute tipo Alex e Martin di Madagascar, non correvano su una spiaggia, ma l’effetto era più o meno quello, LOL.
Una bella ramanzina ci stava, ma Marco era solo preoccupato, tanto aggiungerei. E’ un ragazzo innamorato, dopotutto. E cucciolo Ace che si accorge che anche lui è stato ferito e poi si coccolano e… Arriva qualcuno sul più bello.
Chi arriva? CHI ARRIVA? Ciao Thatch, hai portato il babbo da Ace? Ma si, ma caro ** non vi lascerò senza incontro, promesso, arriverà nel prossimo capitolo credo, anche perché sono curiosa anche io di vedere cosa ne viene fuori :D
Ben arrivato Penguin, tu e la tua sedia a rotelle siete sempre in mezzo! Tra te e Killer no so chi sia peggio, anche se l’idea della gara è venuta a quel briccone di Thatch, adorabile e splendido ragazzo ^^ (davvero, non so perché, ma ho visto una puntata di Cacciatori di Fantasmi e ho voluto far giocare i ragazzi a nascondino nell’obitorio, va bene?).
E bravo Chopper con le medicine, ah no, aspettate, erano caramelle speciali ** morfina più che altro e Penguin mica poteva saperlo, a lui bastava mangiare qualcosa, pazienza che poi finisse per collassare e vedere i draghi. Ora ditemi che il titolo è stupido, fora, fatelo, lo so, ma non ho potuto resistere. Mi immagino Killer tutto preoccupato che gli chiede dove sono le caramelle e Penguin che, allarmato, gli salta quasi in braccio credendo di vedere cose assurde. Io, ecco, basta.
Fatemi gongolare adesso perché è il turno di Kidd :3
No, lui non è preoccupato; non ha ripulito il cappello di Law; non è felice quando si sveglia (LAW SI E’ SVEGLIATO!); non gliene frega proprio niente eh.
Insomma, qui vengono un po’ fuori i pensieri di Eustass nei confronti del ragazzo che ha conosciuto mesi addietro. Dice di odiarlo, ma con lui ha passato anche bei momenti (compleanno, Kidd se lo fa SOLO Law, sto rotolando **), oh, maledizione, sono l’amore, punto.
Spero di aver reso bene questo passaggio, ma lo rispiego lo stesso per evitare fraintendimenti. Dunque: mentre Kidd parla avverte un rumore, il bip dei macchinari. Avete presente che ci sono i computer/monitor che controllano il battito cardiaco? Il suono si fa sempre più veloce se il battito aumenta. Ecco, lui è stato disturbato da ciò proprio quando stava per confessare qual cosina a Law, il quale, mi spiace per lui, si è lasciato prendere dall’emozione e diciamo che il cuore ha iniziato a battergli un po’ più forte. Reazione normale, no?
Beh, ovviamente il bastardo si era svegliato in quel lasso di tempo, ma aveva preferito starsene zitto, lo spiegherò prossimamente, ma Eustass se ne è accorto e poi niente, il resto è chiaro.
Gente, oggi niente spoiler perché non ho nulla di pronto. Sono una donna orribile, lo so, sono in ritardo con le altre due fic e chiedo perdono ma sto adocchiando corsi per l’università e devo fare dei giri assurdi. Prometto che in settimana arriverà tutto e risponderò con tanto di fiocchi, regali e dolci a tutte le anime pie che hanno recensito in precedenza e che recensiranno se avranno voglia di farlo. Non passate inosservati, credetemi, e apprezzo ogni singola parola che leggo e ne faccio tesoro, soprattutto perché siete gentilissimi, anche se mi avete minacciata, deheh ^^
Che dire, buona serata a tutti, buon fine settimana e al prossimo sabato con, ahimé, l’ultimo capitolo dove vi farò un monumento di ringraziamenti che non saranno comunque mai abbastanza.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto e vi mando un abbraccione grandissimo. Restate sintonizzati.
See ya,
Ace.