Sola…
Gli
occhi.
Si dice che gli occhi siano lo specchio dell’anima,
pura o torbida che sia.
Per un osservatore attento un solo sguardo
basta a decifrare lo stato d’animo della persona che si ha di
fronte.
In questo caso però, chiunque, anche il più
distratto,
il più cieco, avrebbe intuito e compreso il devastante
dolore che
celavano quegli occhi azzurri.
Aveva iniziato a soffrire sin da
quando era piccolissima, Robin. Paragonata ed etichettata come un
demone, un mostro, solo perché possedeva delle
abilità speciali,
solo perché era diversa.
Non aveva mai ricevuto l’affetto
familiare che necessitava come ogni bambina, solo perché sua
mamma
la reputava intelligente e quindi in grado di capire quali doveri lei
doveva affrontare per proteggere la loro isola e l’intero
mondo, e
Robin questo lo sapeva ma era pur sempre una bambina, una bambina che
voleva solo sentirsi amata.
La solitudine era sempre stato il
punto debole di Robin finché non ne aveva fatto un punto di
forza,
costruendosi una corazza intorno in modo che nessuno, mai, riuscisse
a varcare la soglia del suo cuore e così a portarla
irrimediabilmente a soffrire quando sarebbe di nuovo rimasta sola.
I
suoi occhi cristallini si erano sempre più spenti nel corso
degli
anni, quando man mano aveva perso quei pochi affetti che era riuscita
a costruirsi. L’amicizia di Sauro, l’affetto degli
scienziati di
Ohara e l’amore di sua madre, tutti uccisi dalla marina.
Non
avrebbe mai immaginato di poter trovare, nella sua triste e solitaria
vita, degli amici che non fossero i suoi cari libri, eppure
così era
accaduto. Rufy e tutti i suoi compagni erano arrivati
inaspettatamente, come una ventata di aria fresca nel bel mezzo del
caldo estivo. L’avevano fatta sentire per la prima volta,
dopo
tanto tempo, apprezzata, voluta, amata.
Tutto quello le
era sembrato un sogno, troppo bello per essere vero. Finalmente aveva
trovato degli amici, una famiglia che si era dimostrata leale e
disposta a tutto per lei, persino a morire.
Erano ormai anni
che Robin viaggiava con i mugiwara, la sua famiglia. Erano fortissimi
e nessuno sembrava in grado di poterli dividere, ma si sa la
felicità
dura sempre troppo poco…
TIC, TAC, TIC, TAC
Il
ticchettio snervante dell’orologio a pendolo risuonava nella
stanza
semi vuota. All’interno, sotto la piccola finestra, era
deposta una
scrivania con sopra molti libri di ogni genere, che però,
visto il
leggero strato di polvere che li ricopriva, non erano mai stati
neanche sfogliati.
Accanto alla parete, nel punto più buio della
stanza, era stato sistemato un letto ad una piazza, dove ormai da
settimane giaceva una donna vuota e sola.
Robin era distrutta
dentro e fuori. Ogni volta che chiudeva gli occhi, ricadeva, in
quella voragine oscura, in quell’incubo che però
sapeva essere
reale.
Grida, pianti. Robin ogni volta, mentre ripercorreva
quella cruda verità, cercava di fare di tutto per salvare le
persone
a lei care, a volte era così vicina al suo obiettivo, ma
subito dopo
qualcosa andava storto, un particolare a cui lei non riusciva ad
arrivare, nonostante la sua intelligenza, la sua perspicacia,
qualcosa di importate le era sfuggito e continuava a sfuggirle.
Così
si ripeteva il tutto, sempre uguale. Il sogno, infine, la riportava a
fare sempre le stesse scelte, salvandola, facendola rimanere per la
seconda volta nella sua vita, l’unica superstite.
Un leggero
bussare alla porta la risvegliò un istante prima che il
peggio si
scatenasse su di lei. Odiava quei momenti perché veniva
portata via
da quell’incubo dove però lei era ancora con i
suoi compagni.
Sapeva anche che, svegliandosi proprio in quel momento, avrebbe perso
di vista qualcosa di importante, di fondamentale, per venire a
conoscenza della verità e del perché di tutto
quello.
Di
scatto aprì gli occhi fissando per qualche secondo la parete
che si
trovava di fronte. Sperò, come tutte le volte che si
risvegliava da
quell’incubo, che fosse stato solo tutto frutto della sua
immaginazione, un sogno, e che non fosse la crudele realtà,
ma
appena si girava e non ritrovava i contorni della sua stanza sulla
Sunny, lo sconforto l’assaliva.
Era sola, di nuovo.
L’unica
sopravvissuta, di nuovo.
Ma perché?
Questa volta più che mai
avrebbe desiderato morire, morire li con loro, con lui.
Non
riusciva ad accettarlo, la vita ormai per lei non aveva più
senso.
Un uomo aprì finalmente la porta della piccola e
spoglia stanza, stanco di non ricevere nessuna risposta.
-Robin
buongiorno. Ti ho portato qualcosa da mangiare- disse un uomo alto e
muscoloso con dei capelli biondo scuro che gli arrivavano sopra le
spalle.
Robin osservò l’uomo avanzare verso di lei e
poggiare il cibo sul comodino accanto al letto. Come sempre la mora
non spiaccicò nemmeno una parola, non lo faceva ormai da
quel
maledetto giorno.
L’uomo si sedette sul letto vicino alla donna
e le prese una mano tra le sue.
-Robin devi reagire. Non puoi
continuare così, ti ammalerai-
Robin osservò con sguardo
assente Adrien, lo scienziato che aveva conosciuto insieme ai suoi
nakama qualche giorno prima della tragedia.
Adrien era stato
sempre buono e gentile con lei in quelle settimane, ma non aveva
ancora capito che lei non aveva nessuna intenzione di reagire, lei
stava solo aspettando che la morte venisse a riprendere ciò
che
aveva risparmiato o dimenticato, lei.
Adrien toccò il
viso scavato e pallido della donna. La sua pelle olivastra, i suoi
occhi lucenti e pronti a leggere nell’animo delle persone,
erano
solo un lontano ricordo. La donna di cui si era innamorato a prima
vista era diventata l’ombra opaca di se stessa.
Robin si
scostò da quel tocco, non doveva toccarla, come non avrebbe
dovuto
salvarla.
-ho capito, scusa, è ancora presto- disse con tono
affranto ma non rassegnato, Adrien.
Robin si rigirò verso la
parete nascondendosi sotto le coperte ed iniziando a piangere calde e
silenziose lacrime. Aveva la mente confusa, non ricordava con
precisione quello che era successo quel giorno,
rivedeva solo
alcune immagini: i
corpi dei suoi
compagni riversi a terra nel fango, sotto la pioggia scrosciante. Lei
ferita, non riusciva a muoversi, si sentiva paralizzata. Con lo
sguardo cercava lui, l’unico in grado di salvarla, di
salvarli
tutti, ma non c’era, o almeno non riusciva a vederlo.
Dov’era
Rufy? Perché non era lì con loro, cosa gli era
successo? Chi li
aveva attaccati?
I suoi compagni sostenevano che lei
aveva sempre le risposte a tutto, ma questa volta no. Le sfuggiva
ogni cosa, e i ricordi pian piano svanivano come neve al sole man
mano che i giorni passavano lenti e inesorabili, portandola sempre
più vicino al suo obiettivo.
-Robin, io vado nel mio
studio, chiamami se ti serve qualcosa- disse Adrien uscendo dalla
porta, restituendo così la stanza alle tenebre.
Mentre
continuava a piangere in silenzio, qualcosa, un piccolo movimento nel
suo ventre, la fece smettere.
Robin spalancò gli occhi
ricordandosi solo in quel momento, dopo settimane di dolore, di
essere incinta…
ANGOLO
AUTRICE:
Benvenuti miei cari lettori in questa nuova
avventura. Questa è la mia prima fic Rurobin e la voglio
dedicare a
tutte le/i ragazze/i amanti di questa coppia!
Lo so è molto
triste e probabilmente mi vorreste morta in questo momento, quindi
non mi dilungherò molto.
Il capitolo è corto lo so, ma
consideratelo come un prologo o una cosa simile, anche se i
successivi capitoli non saranno poi tanto più lunghi di
questo!
Adesso vi lascio prima che mi raggiungiate con i
forconi!
Spero di leggere comunque, anche se sono critiche, le
vostre opinioni!
Bacioni kiko90 (si dilegua nella notte)