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Autore: Laylath    21/03/2014    3 recensioni
Eppure a guardare più da vicino i ragazzi di quella realtà, ci si sarebbe accorti che le loro esistenze non erano così scontate: i piccoli grandi problemi dell’infanzia e dell’adolescenza a volte andavano ad intrecciarsi con situazioni difficili, dove spesso il legame con un amico fidato era la cosa migliore per poter andare avanti.
E spesso le persone più impensabili stringevano un forte legame tra di loro per uno strano susseguirsi di eventi, all’apparenza così normali… anche se poi viverli era tutt’altra cosa.
Genere: Generale, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Team Mustang
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Un anno per crescere'
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Capitolo 44. Quello che è giusto... secondo me.


 
Jean avanzava verso il paese con lo zaino sulle spalle: lo sentiva pesante ma questo invece di infastidirlo lo rendeva felice. Sua madre aveva preparato un sacco di roba per Heymans e la sua famiglia e lui era orgogliosissimo di poter dare una mano al suo amico in quel momento così delicato: sapeva che avrebbe sorriso nel vedere quel pensiero gentile da parte dei suoi e anche la signora Laura l’avrebbe fatto. Ne valeva veramente la pena.
Come arrivò in paese decise di svolgere prima una piccola commissione per sua madre e si recò nella farmacia per recuperare alcune erbe che aveva ordinato la settimana prima.
Salutò la signora al bancone e mentre aspettava che recuperasse le erbe dal retro, si mise a gironzolare per gli scaffali, guardando con curiosità le etichette dai nomi strani. Nel frattempo il suo udito attento colse alcuni stralci di conversazione tra alcune donne che avevano formato un piccolo gruppo in un angolo.
“… certo che ce ne vuole di coraggio. Ma ve lo immaginate? Una donna separata.”
“Fossi in lei me ne sarei già andata dal paese dalla vergogna, ma del resto, sappiamo tutti di chi stiamo parlando, no?”
“Ed è stato suo figlio a provocare l’incidente del bambino dell’ingegner Fury: io li caccerei dal paese, tutti e tre. Ho già detto ai miei ragazzi di stare lontani da loro a scuola.”
“Non la sapete l’ultima? Ieri quella ha avuto anche l’ardire di andare alla drogheria a fare compere, con quella guancia livida, che vergogna!”
“Ah sì, la moglie del droghiere non era presente, altrimenti l’avrebbe mandata via… oh, ma è lei…”
A quelle parole Jean, che aveva sentito la rabbia montare dentro di sé, si girò di colpo e vide la madre di Heymans entrare e dirigersi verso il bancone. La guancia era ancora livida e gonfia e teneva lo sguardo basso, cercando di evitare le occhiate degli altri clienti.
Proprio in quel momento la farmacista rientrò con il pacco di erbe pronto e si accorse della nuova cliente. Fu incredibile come lo sguardo prima sorridente diventasse incredibilmente ostile: prese di malagrazia il foglio che Laura aveva messo sul bancone e iniziò a frugare negli scaffali.
“Dipendesse da me, certa gente non metterebbe piede nei negozi della gente perbene.” sibilò una donna con la chiara intenzione di farsi sentire da tutti.
A quelle parole Laura chiuse gli occhi con rassegnazione, ma non si mosse.
“Di certo io non farei entrare voi nell’emporio di mio padre! – sbottò Jean, facendosi avanti e guardando malissimo la donna che aveva parlato – Branco di vecchie megere!”
“Jean Havoc, quando la smetterai di essere così maleducato?”
“E voi quando la smetterete di prendere the al veleno con pasticcini di acidità? – ritorse lui, per niente scoraggiato – Siete in farmacia, approfittate per prendervi qualcosa per le vostre lingue lunghe!”
“Ma come osi!”
“Ecco i soldi, grazie mille signora – sbottò, posando di malagrazia le monete sul bancone. Poi si girò verso Laura e le fece un gran sorriso – Signora Laura, se permette la attendo: stavo giusto per venire a trovare Heymans.”
“Oh Jean – sorrise lei – grazie mille, tesoro, conto di finire in pochi secondi.”
“Ma certo, tanto la congrega di streghe non vede l’ora di iniziare il sabba non appena andremo via! – ridacchiò il ragazzo, mentre la donna prendeva il sacchetto che l’imbarazzata farmacista le dava e pagava – E mi raccomando! Attente a come ripartite con le scope, oggi c’è vento!”
Perché, oggettivamente, se ti chiami Jean Havoc e sei uno dei ragazzi più strafottenti del paese, sei in grado di mettere fuori combattimento anche le pettegole più maligne: lui e Laura uscirono tra gli sguardi increduli di quelle donne, come se non fosse successo niente.
“Jean – ridacchiò Laura quando furono a distanza di sicurezza – sei proprio fuori di testa.”
“Naaaah – arrossì lui con un sorriso – sono solo uno a cui piace dire le cose come stanno. Se quelle provano a darle fastidio, venga a dirmelo che porto anche mia sorellina: ha sei anni ma tira fuori offese davvero originali.”
“Ah, tesoro, ci fossero più persone come te e la tua famiglia, non smetterò mai di ringraziare tuo padre per quello che ha fatto.”
“Stia tranquilla, anzi le manda i suoi saluti. E la mamma mi ha riempito lo zaino di roba per voi.”
“Non doveva, sul serio.”
“Scherza? In questo periodo lei deve riposare, signora, e pensare ai suoi figli. Ci penso io a difenderla da quelle pazze scatenate e…”
Si bloccò perché Roy era appena uscito da una strada laterale, capitando proprio davanti a loro. Il moro alzò lo sguardo su Laura e arrossì leggermente, come se si vergognasse, ma Jean non gli diede il tempo di fare altro che prese la donna per un braccio ed esclamò.
“Su, andiamo, questo zaino è davvero pesante e poi ho sentito un rumore strano e non vorrei che si fosse rotto qualche barattolo di vetro.”
 
Heymans si fece notevoli risate quando il suo amico gli raccontò di quell’episodio in farmacia.
Però, nonostante quella parentesi, la situazione non era facile e se ne rendeva pienamente conto: adesso sua madre era una donna separata e questo aveva portato ad una nuova e pesante forma di ostracismo da parte della maggioranza del paese. La gente era davvero ipocrita: finché era maltrattata e tradita ma sposata, allora tutto andava bene, mentre ora veniva additata come una poco di buono dai cosiddetti benpensanti.
Certo, non era violenza fisica, ma era decisamente spiacevole venire trattata come una reietta per l’ennesima volta, proprio quando era appena uscita da una situazione così dolorosa. In quei quattro giorni che erano passati da quella tremenda mattinata, l’aveva vista tornare diverse volte con le lacrime agli occhi, tanto che, quando poteva, andava lui a fare le commissioni. Non che fosse esente da simili commenti, ma oggettivamente era più abile di sua madre a farsi scivolare tutto sulle spalle.
Ma c’era Henry a cui pensare e non era facile: era ancora in uno stato di apatia, tuttavia mostrava segni di nervosismo se veniva lasciato da solo. La prima notte avevano provato a farlo dormire nel letto matrimoniale assieme alla madre, ma evidentemente quella camera richiamava in lui brutti ricordi perché si svegliava di continuo piangendo. Così Heymans l’aveva fatto dormire con sé ed era filato tutto liscio, e da allora Henry aveva iniziato a stare tranquillo soprattutto in sua presenza.
In quel momento dormiva profondamente nel letto del fratello maggiore, mentre Heymans e Jean stavano alla scrivania a controllare i quaderni di scuola.
“Allora, questi sono i compiti che hanno dato stamane: sono per dopodomani.”
“Perfetto, se domani vieni ti do il quaderno, ma non copiarli, mi raccomando.”
“Ma quando mai! Allora, non torni ancora a scuola, vero?”
“No, non posso – sospirò lui, guardando con aria significativa il fratello – dorme a intervalli irregolari e comunque con i medicinali che prende rimane stordito. Il medico ha detto che è normale che in questa fase sia così, ma per ora continua a cercarmi se si spaventa nel sonno: non posso lasciarlo.”
“Cacchio, sembra molto più piccolo senza quell’aria strafottente che gli conoscevo. Quasi quasi mi dispiace vederlo in queste condizioni; come va la sua coscia?”
“Un bel livido: non c’è che dire, Roy c’è andato pesante, ma è il meno peggio considerato il crollo nervoso che ha avuto.”
“E le tue ferite?”
“Sotto controllo – dichiarò, alzandosi la maglietta e mostrando il fianco livido con i segni dei colpi – oh, non ti preoccupare, fa meno male di quel che sembra: mamma mi mette un balsamo ogni giorno e migliora in fretta. Non vedo l’ora che passi anche il suo livido alla guancia… forse senza quello le persone smetteranno di additarla in maniera così palese, ma ne dubito.”
“Sono solo degli stronzi, lo sai bene: tua madre è fantastica, non ha niente di cui vergognarsi.”
“Lo so bene e lo sa anche lei. Solo che… – fece un profondo sospiro – cazzo, Jean, ma perché la gente non vuole capire? Perché non ci lasciano in pace, dopo tutto quello che è successo? Chiedo solo un po’ di tregua, è tanto?”
“Vedrai che migliorerà, coraggio.” Jean gli mise una mano sulla spalla: gli faceva davvero male vedere il suo miglior amico in simili condizioni. Ma capiva che non era per niente facile superare il trauma che aveva vissuto e di cui la sua famiglia portava i segni.
Proprio per questo motivo non aveva alcuna intenzione di perdonare Roy Mustang.
Aveva provato a capirlo in questi giorni, ma non aveva trovato alcuna giustificazione. Quello che era successo a Kain era orribile e lui era il primo a volere che il bambino guarisse, ma per quanto si potesse avercela con Henry…
… per quanto mi riguarda suo padre può anche riempire di botte sua moglie…
No, simili parole non avevano alcuna giustificazione, così come l’ostinazione nel dire che non era successo niente che valesse la pena per coinvolgere Andrew Fury. Perché era ostinazione: Riza, Vato… nessuno di loro aveva esitato a credergli, a correre a chiamare aiuto. Solo Roy non aveva voluto, spinto dalla sua stupida sete di vendetta, proprio lui che vedeva spesso Gregor al locale di sua zia e quindi sapeva bene che tipo di persona era.
Non gli andava di essere amico di una simile persona: un amico aiuta, non aggredisce.
Un concetto chiaro, limpido, pulito, proprio come gli occhi di Heymans e di sua madre.
 
“Oh, finalmente!” sospirò con soddisfazione Kain, quando le lenti gli permisero di vedere bene mettendo a fuoco anche gli oggetti distanti.
“Credo che ora i tuoi mal di testa passeranno, figliolo – sorrise Andrew, arruffandogli i capelli – sicuro che l’asticella non ti dia fastidio?”
“Assolutamente, papà: le ferite hanno fatto tutte la crosta e poi il viso non è più gonfio.”
“Un bel cambiamento, vero? Dai, fammi sdraiare accanto a te per qualche minuto: tua madre e Riza oggi vogliono fare un bel pranzetto per questo bell’evento e per il fatto che la febbre sia sparita del tutto.”
Il che voleva dire che l’infezione era completamente passata e dunque non c’era più il rischio di amputazione, ma ovviamente Kain non doveva saperlo.
“Tanto non potrò mangiare quasi niente di tutto questo fantomatico pranzo – protestò il bambino riadagiandosi nei cuscini: ora che non aveva più la febbre gli era tornato anche l’appetito, ma doveva ancora mangiare leggero – mi tocca brodo, pesce lesso e mela cotta… voglio una barretta di cioccolato!”
“Mangione – lo prese in giro Andrew, stuzzicandogli la pancia con la mano, tanto da suscitare una risatina – ti prometto che come guarisci davvero bene avrai un’intera torta al cioccolato.”
“Allora se è così tanta, inviterò anche gli altri a mangiarla.”
“Certo, dovremo festeggiare tutti assieme, no?”
“Festeggiare… – si incupì lui – mi dispiace, ho rovinato il compleanno della mamma.”
“Tranquillo, rimedieremo anche a quello.”
“Non glieli hai dati gli orecchini, vero?”
“No, ma come ti ho detto non mancherà occasione: adesso l’importante è che tu ti riprenda del tutto.”
Kain annuì e si girò sul fianco sinistro con movimenti un po’ goffi: poteva muovere la gamba ma doveva fare molta attenzione però almeno aveva più libertà. Andrew lo aiutò in quelle difficili manovre facendolo posare sulla sua spalla.
“Papà, ho rischiato di morire, vero?”
“No, ma che dici? Ti sei ferito malamente è vero, ma questo non vuol dire che fossi in pericolo di vita.”
“E’ che in questi giorni ti ho visto spesso abbracciare mamma in un modo tutto particolare: lo stesso di quando ero piccolo e stavo davvero male.”
“Non ti sfugge niente, eh? Ma non eri in pericolo di vita, te lo giuro.”
“E allora che cosa c’è? E’ la gamba vero? Il dottore la controlla sempre e dopo parlate tanto con lui: quando è in camera fa tanti commenti su come stanno guarendo bene la faccia ed il braccio, ma sulla gamba dice sempre poco…”
Andrew fissò con attenzione il figlio: non era più un bimbetto di quattro anni che si doveva fidare ciecamente dei genitori perché non capiva quello che gli stava succedendo attorno. Adesso aveva undici anni, una mente molto sveglia e un’esperienza passata che l’aveva reso attento a molti dettagli a cui un’altra persona non avrebbe fatto caso. Forse era giusto renderlo più partecipe.
“E’ una brutta ferita – ammise – non so se ti ricordi come te la sei fatta…”
“Sì, mi ricordo: qualcosa mi ha infilzato, vero?”
“Sì, ed è per questo che ci siamo preoccupati molto: era metallo arrugginito e può fare infezione. La febbre era dovuta a quello, ma ora è passata, così come il peggio.”
Ma… perché c’è un ma, vero papà?”
“Onestamente, Kain, hai provato a muovere la gamba?”
Lui arrossì colpevolmente: sì, l’aveva fatto nei rari momenti in cui era solo. E aveva fatto un gran male, ma soprattutto si era accorto di una notevole rigidità nel muoverla che non gli era piaciuta per niente: un normale taglio fa male, però…
“Potrò camminare ancora, vero papà?” chiese con un sussurro.
“Il dottore ha detto che dovrai fare delle visite specialistiche ad East City, non appena starai meglio. Ma sono sicuro che andrà tutto bene, piccolo mio.” gli accarezzò la guancia dove ancora c’erano alcune raschiature. Non era il caso che sapesse di aver rischiato l’amputazione, ma era inutile nascondergli che non si sapeva ancora che danni c’erano alla gamba.
Il dottore aveva promesso che si sarebbe messo in contatto con degli specialisti di East City che si sarebbero occupati del caso: avrebbero verificato eventuali danni ai muscoli e ai legamenti e avrebbero deciso come procedere. Era difficile fare delle ipotesi, però…
“Riesci a muoverla, vero?”
“Sì, ma non bene… ma se la muovo è un buon segno, vero?”
“Credo proprio di sì, ma non farlo più da solo, promesso?”
“Certo… senti papà, tu vuoi bene ad Heymans, vero?”
“Sì che gli voglio bene – annuì Andrew, chiedendosi dove volesse arrivare il bambino – perché me lo chiedi?”
“E gli vorresti bene anche se scoprissi che qualcuno vicino a lui ha fatto una cosa grave?”
Andrew capì e sorrise, accarezzandogli il dorso del naso.
“E’ stato Henry, lo so.”
“E’ successo qualcosa di brutto, vero? Credo che Roy l’abbia scoperto ed abbia litigato con Heymans: Riza non ha detto molto quando le ho chiesto qualcosa, ma ho capito che c’è qualcosa che non va. Papà… Henry quel giorno era strano, non credo che l’abbia fatto con cattiveria. E anche se è così, la colpa è mia che sono entrato dentro la miniera da solo pur sapendo che era pericoloso…”
“Senti, non preoccuparti di queste cose – gli consigliò il padre – fra me ed Heymans va tutto bene, te lo assicuro e sono certo che anche con Roy si risolverà. Adesso tu devi solo pensare a guarire, siamo intesi? E’ il miglior aiuto che puoi dare a tutti noi perché è questa la cosa a cui teniamo di più.”
“Spero che sia come dici tu.”
 
Tuttavia la controversia non era facile da risolvere.
Jean aveva preso una decisione drastica nei confronti di Roy, facendo regredire la situazione ad inizio anno scolastico, quando si guardavano in cagnesco. Heymans non aveva ancora detto niente in merito, ma aveva altro a cui pensare e, oggettivamente, il giovane Mustang era l’ultima delle sue preoccupazioni.
E Roy… beh, lui doveva fare i conti con il suo orgoglio e con il fatto che per una volta tanto aveva completamente sbagliato tutto. Ed era molto difficile ammetterlo: avrebbe significato giustificare Henry e lasciare così i propositi di vendetta, privando Kain di quella che lui riteneva giustizia.
Mentre per Andrew e gli altri era più semplice attribuire la colpa ultima a Gregor e alla violenza psicologica che aveva fatto sul figlio minore, lui non era abituato ad un simile ragionamento: aveva sempre pensato di testa propria, senza lasciarsi condizionare da niente e nessuno… perché Henry non doveva esserne in grado? Provava a mettersi nei suoi panni, ma la sua mente lo portava a ragionare con il classico se fossi stato in lui non mi sarei certo fatto fregare. Insomma, credeva di immedesimarsi, ma in realtà continuava a vedere le cose da perfetto esterno.
Questo dipendeva anche da una strana lacuna che aveva nel rapporto con Jean ed Heymans: a loro era arrivato per vie traverse. Non c’era stata una stretta di mano come per Vato o Kain, semplicemente ad un certo punto, per merito degli altri, si erano ritrovati assieme, senza però arrivare ad essere confidenti… E a questo punto era lui l’esterno: Heymans e Vato, Riza e Jean: loro avevano stretto i rapporti in maniera molto più forte e tangibile.
“Ci stai ancora pensando?” Vato si avvicinò a lui durante l’intervallo.
“Assolutamente no – mentì – persone come quelle meglio perderle che trovarle.”
“Andiamo, Roy, perché non la smetti di fare l’offeso: hai sbagliato, ecco tutto. Considerata la situazione è anche comprensibile la tua rabbia: non avevi lucidità mentale per capire cosa stava succedendo. Perché non affronti Jean e non vi chiarite?”
“Non ne ho la minima intenzione: è stata una sua scelta quella di chiudere i rapporti con me. Se vuole io sono qui, non ha che da chiedere.”
Vato scosse il capo con aria sconsolata: i tentativi suoi e di Riza di far riappacificare i due contendenti non stavano avendo successo. Erano arrivati alla conclusione che Jean, in questo caso, era irremovibile in un modo più marcato rispetto a Roy e dunque era su quest’ultimo che bisognava insistere.
“Perché devi sempre vedere tutto o bianco o nero? Non vuoi accettare una via di mezzo?”
“Che vorresti dire?” gli occhi scuri si volsero su di lui trafiggendolo.
“Che potresti arrenderti all’idea che, tutto sommato, Henry non voleva fare del male a Kain e…”
“Non prendere anche tu le parti di quel ragazzino, fammi questo piacere.”
“Non sto prendendo le sue parti, vorrei solo che tu provassi a capire la situazione… Roy, io c’ero. Ho visto quell’uomo con l’attizzatoio in mano: aveva uno sguardo così cattivo. Chissà che tutto ha combinato alla moglie e ai figli.”
“Heymans ha reagito, lo capisci? – sbottò Roy – Non si è fatto piegare da quel bestione per tutti questi quattordici anni: ha lottato contro di lui sia fisicamente che psicologicamente. Anche quell’altro imbecille poteva benissimo farlo ed invece ha preferito seguire quel farabutto qualsiasi cosa gli dicesse.”
“Non siamo tutti uguali, suvvia.”
“Proprio per questo alcuni mi piacciono e altri no: alcuni li giustifico ed altri no. Ed Henry rientra in questa categoria, chiaro? E se quell’imbecille di Jean continua a dare retta ad Heymans e a giustificare quel piccolo teppista, allora sono affari loro. Amici di questo tipo non mi servono.”
Il suo sguardo corse dall’altra parte del cortile dove Jean stava parlando con Riza, l’espressione dura e gli occhi azzurri ostinati. Non si sa per quale strano motivo, ma si accorse di quell’osservatore e si volse verso di lui.
Fu come se una scarica elettrica corresse lungo tutto il cortile.
C’era tanta rabbia da sfogare, troppa.
Roy era seriamente tentato di correre verso di lui e buttarlo a terra, scrollarlo e dirgli che era un grandissimo imbecille. Forse queste sue intenzioni erano chiare perché Jean aveva fatto qualche passo nella sua direzione e sembrava sfidarlo a farsi avanti.
“Buoni…” mormorò Vato, mettendo un braccio sulla spalla di Roy, mentre Riza dall’altra parte faceva lo stesso con Jean. Fortunatamente a salvare la situazione arrivo Janet che si aggrappò alla gamba del fratello maggiore distogliendolo da qualsiasi proposito bellicoso, almeno per il momento.
Roy lo guardo prenderla in braccio con aria seccata e incamminarsi nella direzione opposta, senza più degnarlo di uno sguardo.
Ringrazia tua sorella perché era la volta buona che ti riempivo di pugni.
Non ci avrebbe mai creduto, ma era il medesimo pensiero che stava avendo Jean.
 
E così questa era la situazione che si trascinava a scuola, con Riza e Vato che provavano a fare da pacieri tra i due contendenti, senza ottenere risultati.
Alla ragazzina faceva molto male questo clima di ostilità in un momento in cui invece avrebbero dovuto stare uniti più che mai, sia per Heymans che per Kain. Ma Jean era irremovibile nelle sue decisioni, troppo ferito per le parole che erano state rivolte alla madre del suo miglior amico.
In qualche modo a Riza tornava in mente quando sia lui che Roy l’avevano difesa contro quelle donne malvage che la volevano cacciare via dal capannone appena dopo la piena: entrambi spietati e irremovibili, seppure in maniera diversa.
Solo che adesso, invece di difendere la stessa persona, erano in posizioni opposte: Jean a difendere Heymans e suo fratello e Roy a difendere Kain… o meglio la sua sete di vendetta.
Negli ultimi giorni tirava sempre un sospiro di sollievo quando tornava a casa dei Fury nella consapevolezza che anche quella mattinata era stato evitato lo scontro. Finita la scuola si poteva dedicare alla sua famiglia alternativa, al suo piccolo fratellino malato che adorava ogni giorno di più.
Tuttavia, dopo un paio di giorni che il medico dichiarò l’infezione sparita del tutto, capì che era anche il momento di tornare a casa: una decisione sofferta, ma responsabile. Del resto si era ripromessa di stare fino a quando Kain stava molto male ed ora era decisamente migliorato… e se non lo faceva adesso non se ne sarebbe andata più da lì.
“Come te ne vai?” chiese Kain in tono mogio.
“Sono qui da più di dieci giorni – spiegò Riza accarezzandogli i capelli – e ormai il peggio è passato. E poi sto occupando la tua camera da troppo tempo: ora che stai meglio magari ci vorrai tornare, no? Non si può sempre stare nel lettone dei genitori.”
“Oh dai! Te la cedo volentieri, basta che resti qui con noi.”
Il bambino tese il braccio sano e attirò Riza a sé per stringerla come poteva, rifiutandosi di lasciarla andare. L’unica cosa positiva di quelle ferite era che la sua meravigliosa amica era venuta a stare da loro, perché proprio ora doveva andarsene? Adesso stava decisamente meglio e potevano fare un sacco di cose assieme: voleva essere portato in cucina e mangiare assieme a tutti loro, giocare con lei, abbracciarla prima di addormentarsi. Perché doveva rinunciare a Riza quando era chiaro che lei era nata per stare con loro?
“Devo tornare a casa da mio padre, piccolino – mormorò lei, rispondendo a quell’abbraccio – dipendesse da me starei con te per sempre, lo sai. Ma non si può.”
“Sì che si può: ascolta abbiamo una camera per gli ospiti. Diventa la tua… o se ti piace la mia mi trasferisco io, va bene? Dai, Riza, resta… ti prego.”
“Kain – Andrew sciolse con gentilezza quell’abbraccio – da bravo, niente storie. Riza aveva promesso che sarebbe stata qui finché la situazione non migliorava ed è arrivato il momento che ritorni a casa: perché invece di fare il broncio non la ringrazi con un sorriso?”
“Torni a trovarmi, vero? – chiese invece il bambino con urgenza – Per favore…”
“Certo che torno, stupidino, tutti i giorni.”
“Promesso?”
“Promesso.”
Se per Kain era difficile accettare quella separazione, anche per Riza non era una cosa semplice andare via da quella casa dove aveva vissuto una strana forma di quotidianità a cui si era abituata fin troppo in fretta. Era una situazione davvero surreale: insomma tutti e quattro avrebbero voluto che lei restasse, però sapevano che non era possibile e, tutto sommato, prima si tornava alla normalità meglio era.
“Sta piangendo, lo so…” sospirò Riza, mentre metteva il guinzaglio a Black Hayate e si sistemava meglio la tracolla con il materiale scolastico.
“Gli passerà, piccola mia – la consolò Andrew – domani torni a trovarci e vedrai che sarà felicissimo. Ti accompagno in paese, dai pure a me quella sacca.”
“Sul serio? Non si deve disturbare troppo.”
“Tranquilla, devo anche fare alcune commissioni. Hai salutato Ellie?”
“Sì.” la voce le tremò leggermente al ricordo di quelle lacrime che avevano versato entrambe nell’abbracciarsi. Sembrava si stessero separando per sempre.
Fortunatamente il padre di Kain era in grado di gestire quelle situazioni emotive e così per tutto il percorso verso il paese la distrasse, come se quella fosse solo una piacevole passeggiata primaverile. Inconsapevolmente Riza gli prese la mano e la tenne stretta per tutto il tempo, fino a quando arrivarono al cancelletto di ferro del cortile della villetta.
“Entro a ringraziare tuo padre per averti permesso di…”
“No – scosse il capo lei – per favore, l’ha conosciuto e non voglio che ci abbia ancora a che fare.”
“Riza…”
“Sul serio, signore, l’ultima cosa che voglio e che la tratti con indifferenza. Si fidi di me, va bene così: è stato gentilissimo a riaccompagnarmi a casa.”
Fu così strano e brutto dire quella parola per un posto che non sentiva più suo.
L’idea di dormire nella sua camera avrebbe dovuto farla felice: avrebbe potuto finalmente far sdraiare Hayate ai piedi del suo letto, riguardare la foto di lei e sua madre che stava nel comodino. Insomma… si è sempre felici di tornare a casa no?
No… non è vero.
Soprattutto quando vieni abbracciata in quel modo dalla persona che vorresti come padre, quando ti stringi a lui e ti rifiuti di lasciarlo andare e devi ascoltare le sue parole di conforto per mollare finalmente la presa.
“Per qualsiasi cosa io sono qui.” trovò la forza di dire.
“Per qualunque cosa sai dove trovarci.” le rispose Andrew, baciandola sulla guancia.
 
“Ad East City ci saranno sicuramente i dottori giusti per Kain – annuì Laura con un sorriso – sono certa che presto tornerà a camminare come tutti gli altri bambini.”
“Sì, ne sono convinto – Andrew mandò giù un sorso di caffè e si guardò attorno, notando come la cucina fosse pulita e accogliente e come ci fosse un’aria più serena in tutta la casa: nemmeno una settimana che Gregor era andato via e già si sentiva il cambiamento – e tu come stai? Finalmente il livido sta sparendo.”
“Sì – Laura si portò istintivamente la mano alla guancia – sarà un vero sollievo per Heymans, non fa che chiedermi se mi fa male, se lo sento gonfio. E’ come se fosse l’ultimo marchio di Gregor che vuole cancellare.”
“In un certo senso è vero, fisicamente parlando. Ma mi basta guardare i tuoi occhi per vederti più tranquilla, senza quella paura che avevi ogni volta.”
“Ehi, Andrew Fury, ci pensi? Sei a casa mia, nella mia cucina a prendere il caffè… e non dobbiamo nasconderlo a nessuno.”
“Sono dei grandi traguardi Laura Hevans – le strizzò l’occhio lui, come quando erano ragazzi – ci abbiamo dovuto lavorare parecchio, ma sono arrivati. Henry sarebbe fiero della sua sorellina.”
“E del suo miglior amico, non dimentichiamolo. Adesso anche parlare di lui non fa più paura o dolore, me ne stavo rendendo conto ieri assieme ad Heymans.”
“Proprio a questo proposito devo ridargli questa – sorrise Andrew, prendendo dalla tasca la busta con le foto – lui si è tenuto una targhetta che non so se ti abbia ancora mostrato, ma queste foto ha preferito che le tenessi io fino a quando c’era Gregor. Ammira questi baldi giovani, ragazzina: questo follettino sei proprio tu…”
“Follettino! – Laura scoppiò a ridere – Cielo, Andrew, è passato un secolo da quando tu ed Henry mi chiamavate così… e queste foto? Me le ero completamente dimenticate. Che spettacolo, qui siamo addirittura alle scuole medie.”
“Scommetto che ne avrai di aneddoti da raccontare ad Heymans e… ehilà, ragazzino, si parlava giusto di te. Ti ho riportato le foto, come promesso.”
Non fece in tempo a dire altro che Heymans l’aveva già abbracciato con foga e rideva felice. Gli arruffò la chioma rossa e lo strinse a sé.
“Sarei passato il prima possibile a trovare lei e la sua famiglia, giuro.”
“Tranquillo, furfante – sogghignò Andrew – so benissimo che in questo periodo sei parecchio impegnato.”
“E Kain come sta? E sua moglie? E…”
“Henry – chiamò dolcemente Laura – vieni dentro, tesoro, da bravo.”
Il bambino entrò con esitazione, in uno dei rari momenti in cui era vigile e nervoso. Gli occhi grigi saettavano preoccupati dalla madre al fratello a quella persona quasi del tutto sconosciuta.
“Stavamo venendo in cucina perché aveva fame – spiegò Heymans andando vicino al fratello e mettendogli le mani sulle spalle – Henry, questo signore è Andrew Fury, ti ricordi di lui?”
A quelle parole gli occhi grigi si sgranarono e il bambino rinculò contro il fratello.
“Non c’è niente di cui aver paura – spiegò Heymans con voce calma, stringendogli le spalle – è un amico mio e della mamma, va bene? Non è tuo padre, non deve più crearti problemi questo nome, va bene?”
“Non forzarlo troppo – si preoccupò Laura – è spaventato.”
“Forse è meglio che vada…” cominciò Andrew.
“No – scosse il capo Heymans – ce la fa, tranquilli. Henry, ti ho raccontato tanto di lui, coraggio: non ti fa niente.”
Henry alzò la testa e fissò il fratello con ansia, in evidente ricerca di rassicurazioni. Era cosciente, lo si capiva, ma era come se qualcosa lo tenesse frenato. Un piccolo suono uscì dalle sue labbra.
“Sì, da bravo – lo incitò il maggiore – prova a parlare… gli dovresti dire qualcosa, non credi?”
“S… usa…”
Fu strano sentirlo parlare e quella parola gli uscì in maniera molto forzata.
Laura si alzò in piedi di scatto, ma Andrew gli fece un cenno con lo sguardo.
“Come primo tentativo non c’è male – continuò Heymans – dai, riprova.”
“S… scusa…”
“Sono felice di sentire queste tue prime parole – annuì Andrew, allungando una mano per sfiorare una ciocca rossiccia – scuse accettate, lo so che non volevi fare del male a mio figlio. Ti ho mai detto… no, e come avrei potuto, ma assomigli davvero tanto a tua madre: le lentiggini sono proprio le stesse.”
“Efelidi.” corresse Laura.
“Lo vedi? E’ sempre stata schizzinosa sulle sue lentiggini, spero che tu non lo sia.”
E per la prima volta dopo una settimana Henry riuscì a fare un timido sorriso.
  
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