Anime & Manga > Ranma
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Autore: S t r a n g e G i r l    21/03/2014    6 recensioni
Niente magie, niente maledizioni in queste storia.
I nostri amati personaggi tutti calati in vesti mai viste. Una Au dai contorni scuri e gotici.
Lui, vittima sacrificale. Lei, la sua carnefice.
Esiste anche in un universo di assassini il lieto fine?
Questa storia era stata postata tempo addietro sotto il nome di ''Fighting for a chance''.
Genere: Avventura, Introspettivo, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Akane Tendo, Ranma Saotome, Ryoga Hibiki
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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You see all my light and you love my dark.

Twenty-fourth. The princess and the knight.


Ora vi racconto una storia che farete fatica a credere perchè parla di una principessa e di un cavaliere, che in sella al suo cavallo bianco entrò nel bosco [...]
Il cavaliere scese dal suo cavallo bianco e piano piano le si avvicinò.
La guardò per un secondo, poi le sorrise.
[Modà]



< Ranma. >
Conoscevo quella voce.
Mi pareva familiare quasi quanto la mia.
L'avevo sentita alterata, distorta dai singhiozzi, gonfia di calore, brunita di disprezzo e ne avevo amato ogni sfaccettatura.
La voce apparteneva ad Akane, solo che io non riuscivo a vederla.
Ero di nuovo immerso nel catrame, un buio così opprimente che pareva pesare sugli occhi e che m'invadeva naso e bocca.
Tendevo le mani alla cieca, sperando di acciuffarla, ma fra le mie dita scorreva aria tiepida e null'altro.
< Ranma. > continuava a chiamarmi lei, con un tono dolce e gentile, che pareva quasi volermi svegliare da un sonno.
Sono qui, sono qui. Ti troverò. Ti salverò.
Promesse mute che non trovavano la via delle labbra e rimanevano rinchiuse nel silenzio del mio addome, braccia vuote senza nulla da stringere e cuore in panne, che più batteva più affondava nella paura di perderla.
Poi d'un tratto, come se qualcuno avesse sollevato un sipario, comparve di fronte a me la bambina diabolica che avevo già sognato ma di cui aveva dimanticato nome e fattezze, adducendole ai miei incubi deliranti.
Aveva un vestito azzurro che tendeva al bianco, una lunga coda laterale di capelli corvini stretti da un fiocco storto e stringeva fra le mani quella sua inquietante bambola senza occhi.
Sorrideva, sorrideva luminosa e non c'era più malvagità nelle sue iridi scuri -cioccolata fondente, legna arsa in un camino, terra bagnata- solo ingenuità.
Era tornata pura e, difatti, le sue scarpette non erano più schizzate di sangue, ma linde e lucide.
< Grazie, Ranma. > mormorò, inclinando il capo.
Poi corse verso di me e mi abbracciò le ginocchia così forte da farmi perdere l'equilibrio. Caddi indietro, senza rumore o alcun tipo di dolore, e quando riaprii gli occhi -che avevo chiuso d'istinto- mi accorsi di non avere più davanti una bambina, ma una ragazza.
L'Akane che conoscevo. L'Akane che avevo scoperto di amare.



Dischiusi le palpebre lentamente, restio a lasciare andare quell'Akane così indifesa dei miei sogni: non una guerriera, ma una ragazza qualunque senza corazze o armi al fianco.
Mi strofinai gli occhi con una mano e misi a fuoco il soffitto che avevo sopra la testa. Mi pareva familiare, ma non riuscivo a collocarlo nei miei ricordi, a capire dove o quando l'avessi già visto.
< Ciao, figliolo. > disse una voce roca e burbera alla mia sinistra.
Voltai appena il capo, storcendo il naso per il dolore alla spalla fasciata, ed incontrai gli occhi severi di mio padre dietro il muro trasparente dei suoi occhiali da vista.
Sedeva sulle ginocchia rigido, le mani tremavano leggermente sul tessuto dei pantaloni e il fazzoletto che portava sempre in testa era sciolto da un lato. Addosso pareva avere dieci anni in più dell'ultima volta che l'avevo visto.
Quanto tempo era passato?
Poche settimane o anni? Non avrei saputo dirlo con certezza.
< Ehi, vecchio. > lo apostrofai con tono gracchiante.
E quei saluti stentati furono tutto ciò che riuscimmo a dirci io e mio padre.
Niente abbracci lacrimevoli, niente sorrisi commossi o pacche di conforto; solo una serie infinita di sguardi che viaggiavano fra il rimprovero e l'approvazione.
< Vedi di rimetterti in fretta: mi sentirei in colpa a spaccarti le ossa se sei già ferito e non puoi difenderti a dovere. > borbottò lui dopo un po', sbuffando.
Sorrisi e chiusi gli occhi di nuovo, la stanchezza che pesava sulle mie palpebre.
Ero a casa.
Quel soffitto familiare era quello della mia camera da letto.
Ero a casa, eppure non la riconoscevo come tale a pelle.
Casa, per me, era ormai dov'era...
< Akane! > scattai a sedere di colpo, ignorando le proteste dolorose del mio corpo, e tentati d'alzarmi.
Mio padre mi pose una mano sul petto e mi forzò a tornare sdraiato con inaspettata forza.
Scosse il capo con rimprovero e minacciò di colpirmi se avessi tentato di nuovo di muovermi.
< Il dottore ha detto che devi stare a riposo per qualche giorno, per permettere alla tua ferita di rimarginarsi a dovere. Non come hai fatto per quella che hai sull'addome. >
< Tu non capisci. Non m'interessano le mie condizioni; io devo andare da lei! > sputai inviperito, facendo stridere i denti per mascherare il dolore.
Sentivo come un uncino aggrappato al muscolo della spalla che si spostava, graffiando e strappando le carni senza pietà, ad ogni movimento ma non m'importava: me lo sarei anche fatto amputare il braccio in cambio della garanzia che Akane stava bene.
Impressa nelle iridi avevo l'immagine di quel pugnale fra le sue scapole che dipingeva la sua casacca di rosso come il pennello d'un pittore incapace di dosare il colore.
< Se anche ti lasciassi andare e tu riuscissi a raggiungerla senza svenire strada facendo, cos'è che potresti fare per lei? > domandò pragmatico mio padre, aggiustandosi gli occhiali sul naso tozzo.
Non replicai, in quanto non c'era una risposta adeguata.
Cosa avrei potuto fare io se non tenerle la mano e sussurrarle all'orecchio che era forte, che aveva posto fine alla fabbrica di morte di un assassino reso folle dall'età praticamente da sola e che, quindi, a confronto, rimettersi in sesto dopo quella ferita era una sciocchezza?
Non appena avrebbe aperto gli occhi -cioccolata fondente, legna arsa in un camino, terra bagnata- mi avrebbe trovato lì, conscia che non l'avevo abbandonata mai, che ero stato la sua salvezza come lei era stata tante volte la mia.
Avrebbe avuto da ridire Akane -la mia Akane- perché per vegliare lei, mi ero trascurato io stesso ma ci avremmo riso su insieme, poco dopo, bocca su bocca a restituirci quell'ossigeno che la paura di perderci ci aveva sottratto.
< Ti basti sapere che è stazionaria. Quando l'hai portata a casa del dottor Shima le sue condizioni erano critiche: aveva perso molto sangue. Ora, invece, ha buone possibilità di rimettersi. >
Annuii in silenzio, non sapendo che altro aggiungere.
D'improvviso, senza motivo, mi venne da ripensare a Ryoga, alla frase sospirata prima di morire e all'ultimo sguardo lanciato ad Akane; ad Haranobu, all'espressione pacifica e quasi serena con cui aveva accolto la lama che l'aveva trafitto; a Maiko, alla sua ferocia e alla sua cieca fedeltà alla gilda; al sicario enorme che mi aveva ferito ad una spalla, alle sentinelle poste a guardia dell'entrata del covo, ai novizi che avevo allertato con la mia uscita infelice che era riecheggiata nei cunicoli e a tutti quelli che erano stati falciati ed abbattuti in maniera spietata e veloce; non ero riuscito nemmeno a vedere i tratti del loro viso.
Tutto quel sangue versato faceva di me un assassino?
Avevo l'impressione che, sebbene fosse morto, Haranobu continuasse a tenere i fili di inconsapevoli marionette... ed io ero fra loro.
Ero praticamente certo che qualcun altro avrebbe preso il suo posto e che la gilda non si sarebbe dunque estinta, ma a quel punto la questione non riguardava più né me né Akane. Lei era libera, finalmente, e questa era l'unica cosa che contava.
< Dormi, ora. Hai bisogno di riprendere le forze se vuoi andare dalla tua fidanzata. > sogghignò mio padre, strizzandomi una guancia energicamente fino a farmi male.
< Lei non è la mia fid... > non riuscii a concludere la protesta, che lui si alzò e s'incamminò verso la porta, smuovendo l'aria con la mano come a scacciare qualcosa. La mia ridicola reazione, ad esempio.
< Come no, come no. Lo so io cosa hai borbottato nel delirio della febbre alta... >


Quando mi svegliai nuovamente, la trovai lì e subito dimenticai come si respirava; la sua sola presenza rarefaceva l'ossigeno nell'aria e bloccava i miei polmoni.
Sedeva composta, rigida, la schiena dritta e le mani adagiate in grembo.
Indossava una gonna color pesca, che le copriva le gambe raccolte lateralmente fino alle caviglie, e aveva i capelli lunghi, lunghissimi, che il sole aveva schiarito un po'. Era così bella che sembrava uscita da un sogno.
I suoi occhi mi salutarono prima ancora della sua voce; sebbene fossero del colore del metallo -duro, inflessibile- avevano una sfumatura dolce e morbida.
Non avevo mai notato che nelle iridi di Ucchan ci fossero frammenti di stelle; ora riuscivo a scorgerli perché avevo imparato a vedere, vedere davvero non solo a guardare di sfuggita.
Merito di Akane.
< Ciao, Ranma. > disse lei con un sorriso, il solito sorriso che conoscevo da una vita. Quello che avevo visto senza incisivi, sporco di gelato, tagliato dalle lacrime, illuminato dal sole dapprima sulle labbra di una bambina, poi di una ragazza e, infine, di una donna.
Scattai a sedere, come se quelle parole fossero state una spinta, e cercai di mettere insieme una frase decente, senza successo.
< Ciao, Ucchan. > fu il massimo che seppi rispondere. Mi sentii un completo idiota.
< Come stai? Ti fa male? > chiese dopo qualche attimo di riflessione, indicando col mento la fasciatura sulla mia spalla con un accenno di preoccupazione.
< No. > mentii di riflesso, abituato a mostrarmi sempre forte ed invincibile ai suoi occhi.
Mio padre dice che sono una principessa. Ed io, allora, nomino te cavaliere, Ranma.
Mi fissò con rimprovero e poi poggiò la mano sulle bende -che qualcuno doveva avermi cambiato mentre dormivo- provocandomi uno spasmo di dolore che tentai inutilmente di mascherare. Anche una carezza gentile come la sua mi bruciava.
< E va bene: sì, fa male. > cedetti, ritornando sdraiato.
< Come ti sei procurato quella ferita? E quella sull'addome? Dove sei stato, Ranma? > domandò e quasi mi parve di udire l'aggiunta "perchè te ne sei andato, lasciandomi sola quando avevi promesso che non l'avresti mai fatto?"
< Hanno cercato di uccidermi, Ukyo. Non potevo restare e correre il rischio di mettere in pericolo te, il mio vecchio o chiunque altro. > spiegai con semplicità.
Lei spostò gli occhi dal mio viso e li puntò sul muro d'improvviso, come se quella verità fosse peggiore della fantasia che si era creata nella testa per motivare la mia scomparsa.
< Non ho avuto scelta. Sai che non ti avrei mai e poi mai abbandonato. Nel momento in cui avevi più bisogno di me, poi! >
< L'hai fatto, però. >
< Cercavo di proteggerti. >
< Allora dovevi restare. Non si protegge qualcuno standogli lontano. >
< Era l'unica cosa che potessi fare. Quelli che avevano tentato di uccidermi potevano tornare e aggredire te per colpire me! >
< E adesso, allora, non t'interessa più di mettermi in pericolo? Perchè sei tornato? >
Non avrei voluto, ma ho dovuto.
Per Akane. Per salvare Akane. Lei, solo lei.
Rimasi in silenzio, incapace di ferirla a tal punto.
Perchè certe verità sapevano andare più a fondo della lama di un coltello, più della paraplegia.
< Quanto a lungo resterai? > sospirò Ukyo, infine, tornando a guardarmi.
I suoi occhi erano spietati e non concedevano pietà.
< Non molto. >
< Mio padre ti vuole ancora morto. > rivelò incolore, come se la cosa non la toccasse.
La scrutai sconcertato e, istintivamente, cercai un contatto con lei, ma Ucchan non mi permise di raggiungere le sue mani. Si scostò appena e si allungò verso la carrozzella, accostata al muro alle sue spalle.
Con movimenti studiati e ormai abituali, si issò sul sedile con la sola forza delle braccia, continuando a fissarmi con astio.
< Tu lo sai? >
Rise amara e mi chiesi che fine aveva fatto la risata innocente e pura che ricordavo, la Ucchan che ricordavo.
< Cosa? Che mio padre ti rietiene responsabile di quel che mi è successo ed ha incaricato un sicario di ucciderti? Sì. Ho sentito per caso la sua conversazione con un membro di una gilda di assassini. >
< E tu? Tu anche mi ritieni responsabile? >
< No. > rispose subito, sicura di quell'affermazione.
E a quelle parole, la porzione di cuore, schiacciata dal senso di colpa, mi riprese a battere in petto in maniera regolare.
Se Ukyo mi aveva assolto da quella responsabilità -una responsabilità che non avevo-, allora forse potevo fare lo stesso con me stesso.
< Però, guardarti ora, mi fa desiderare di saperti morto davvero. > aggiunse in un soffio ed io gelai.
Cercai i suoi occhi -argilla malleabile, pietra porosa- e li trovai umidi, bagnati di lacrime invisibili che si nascondevano fra le sue ciglia lunghe.
< Se sono ridotta così non è colpa di nessuno: è stato un incidente, una disattenzione. Ma credevo, o meglio mi ero illusa, che tu saresti rimasto al mio fianco, che saresti stato il mio sostegno, le gambe che non sentivo più. > strinse i denti come se stesse avvertendo un dolore fisico e proseguì dura < Quando ho scoperto che te n'eri andato, Ranma, è stato come sentirmi diagnosticare nuovamente la paraplegia. Mi sono sentita... menomata. >
< Mi dispiace. Ucchan io davvero... >
< Sta' zitto, è meglio. > bloccò le mie scuse con una mano e chiuse gli occhi senza far cadere alcuna lacrima.
Respirò piano un paio di volte prima di parlare di nuovo, con una voce che faticai a riconoscere come sua.
< Mio padre mi ha promessa in sposa al primogenito della famiglia Himawashi. Te lo ricordi? E' il ripugnante e viscido bastardo che una volta ha cercato di violentarmi. > sputò con sdegno, le dita contratte sui braccioli della sua sedia a rotelle fino a far sbiancare le nocche.
Mi si annodò lo stomaco al solo ricordo: avevo impedito io che quella violenza si consumasse, strappando Senju Himawashi dal corpo tremante e seminudo di Ucchan e pestandolo quasi a morte.
E ora quel porco aveva la possibilità di violare l'innocenza di Ukyo col consenso di suo padre, che sordo alle suppliche della figlia aveva organizzato un matrimonio salvaguardando solo i propri guadagni.
< Non permetterò mai che lui ti abbia. Ho promesso che ti avrei protetta ed ho intenzione di mantenere quella promessa. > dichiarai battagliero, sporgendomi verso di lei.
Ucchan aprì gli occhi e abbozzò un sorriso, che era solo un'ombra opaca di quello splendente che ricordavo ma che già bastava a farmi sperare in un possibile perdono.
Non avrei saputo vivere con il suo odio a sporcarmi il cuore.
< Grazie. > mormorò e cercò la mia mano.
Strinsi le dita attorno alle sue come se tentassi di creare nodi che mai nessuno avrebbe potuto sciogliere.
< Dimmi cosa vuoi che faccia ed io la farò. Qualsiasi cosa. >
< L'unico modo che esiste, secondo le leggi del nostro villaggio, per rompere un accordo prematrimoniale è battere in un duello leale il promesso sposo, lo sai. >
Le sorrisi di rimando, accarezzandole i capelli.
< Sì, lo so. Lascia che ci pensi io. >


Non ho dimenticato questa storia nè tantomeno abbandonato nessuna di voi, carissime lettrici.
Il tempo, purtroppo, è quello che è e se ci sommiamo anche una ispirazione ballerina... beh, i risultati li avete potuti vedere voi stesse: tre mesi di attesa.
Spero, quantomeno, sia ben ripagata.
Sapete... credevo di aver dato fondo a tutta la mia creatività per questa storia.
Credevo che fosse giunta al capolinea, il tempo di sistemare una o due questioni in sospeso che stuzzicavano la vostra curiosità e basta... ma forse così non è.
Scrivendo questo capitolo mi sono venute un altro paio di ideuzze niente male, quindi il prossimo aggiornamento dovrebbe essere più veloce (sempre in termini bradipeschi ovviamente) e allungherà la corsa verso la fatidica conclusione di un po'; quanto devo ancora valutarlo.
Abbraccio forte tutte voi che siete con me dall'inizio e che so che rimarrete fino alle fine.
Senza di voi, questa storia non sarebbe arrivata fin qui.
G R A Z I E.

Strange
   
 
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