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Autore: R e d_V a m p i r e     22/03/2014    5 recensioni
Una volta, qualcuno aveva detto che non puoi leggere la mancanza.
Puoi solo avvertirla.
Lui aveva appreso quanto vero potesse essere nel modo peggiore, sperimentandolo sulla sua stessa pelle. E faceva male, dannatamente male, più del bruciore di una runa nuova e del veleno di un Demone Superiore in corpo.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Alec Lightwood, Jace Lightwood, Magnus Bane
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Dedicata a Martina, che è un po' la mia parabatai e che mi stressa perché scriva, convinta che io sia una macchina e non una persona.
E a Class Of 13, splendida Alec, magnifica autrice, e vera Malec Shipper, oltre che autonominatasi mia stalker.
Spero che apprezziate questa piccolezza.
Post COLS e, ipoteticamente, durante COHF. La citazione iniziale è presa, e un po' rimaneggiata, da Memorie di una Geisha. Il titolo dall'omonima canzone di Rihanna, per cui devo ringraziare sorella anche se non leggerà, che mi ha fatto da sottofondo per la stesura della OS.






We found love in a hopeless place





Una volta, qualcuno aveva detto che non puoi leggere la mancanza.
Puoi solo avvertirla.
Lui aveva appreso quanto vero potesse essere nel modo peggiore, sperimentandolo sulla sua stessa pelle. E faceva male, dannatamente male, più del bruciore di una runa nuova e del veleno di un Demone Superiore in corpo.
Ma, a pensarci bene, forse il paragone con quest'ultimo non era poi così errato.
L'assenza di Magnus era corrosiva come veleno, e altrettanto infetta. Penetrava fin dentro le ossa e scorreva nelle vene come sangue, scavandosi piano piano, giorno per giorno, un cantuccio nel petto.
Diventava sempre più grande, divorava sempre più pezzi di sé in una maniera così lancinante, così assoluta, che certe volte avrebbe voluto strapparsi il cuore dal petto pur di sottrarlo al vuoto a cui stava andando incontro.
Era patetico, lo sapeva, ma c'erano giorni in cui era un po' peggio degli altri.
Giorni dove non riusciva a lasciare la propria stanza, sentendo addosso una stanchezza ancestrale che gli impediva i più basilari movimenti. Rimaneva sdraiato sul suo letto sfatto, osservando il soffitto. Non mangiava, non beveva, non rispondeva neppure al bussare incessante di Jace o Izzy alla porta.
Qualcosa, da qualche parte dentro la sua testa, gli suggeriva che era un comportamento stupido e che avrebbe dovuto smetterla di far preoccupare così la sua famiglia. Che non ne valeva la pena e che doveva alzarsi e combattere, come il Cacciatore che era.
Una piccola parte di lui era più che cosciente che quel qualcosa avesse ragione, ma era semplicemente troppo stanco anche per poter cogliere i suoi stessi suggerimenti.
E poi c'erano quei giorni che sembravano un po' meno duri degli altri, dove aveva quasi l'impressione di poter tornare alla normalità. Usciva con i suoi fratelli, Clary e Simon, e sembrava tutto tornato come prima.
Ma c'era qualcosa, poi, anche un minuscolo dettaglio che riusciva a rovinare tutto.
E allora sentiva defluire l'aria dai polmoni, avvertendo un peso opprimente al torace che gli impediva di respirare. Era un dolore profondo e sordo, che gli artigliava il petto e lo ghermiva nella sua stretta, graffiandolo senza riguardi.
Sapeva già che non sarebbe bastato un iratze, neppure se fatto dal suo parabatai, per guarirlo. E di quelle cicatrici, invisibili allo sguardo altrui, non sarebbe stato tanto fiero come per quelle che ornavano il suo corpo.


«Smettila.»
Gli occhi dorati di Jace brillavano come due piccoli soli, nella penombra dell'armeria.
Impegnato ad ordinare senza troppo criterio alcune spade angeliche, Alec si perse per un attimo a pensare che, un tempo, avevrebbe dato qualsiasi cosa per essere guardato così dal suo parabatai. Mentre, adesso, quello sguardo gli dava solo fastidio.
Era una sensazione superficiale, come quando sfreghi qualcosa di ruvido sulla pelle. Non abbastanza forte da lasciare un'abrasione, ma capace comunque di arrecare fastidio e lasciare quella zona arrossata, con il fantasma della sensazione provata.
Essere guardato dall'Herondale, in quel momento, lo faceva sentire un po' così. Con il fantasma dell'accusa ad accarezzarlo.
«Se non ti piace come sistemo le armi puoi benissimo farlo da solo, la prossima volta» rispose, rendendosi conto solo a frase finita dell'acidità di cui era impregnata.
Rimase a contemplare lo stiletto di adamas opaco che stava stringendo, ostinandosi a non alzare lo sguardo per non dover ricambiare quello sicuramente ferito, e di certo di biasimo, di Jace.
Raziel, da quando era diventato così?
«Non sono le armi, Alec!»
Il più piccolo aveva una nota esasperata, nel tono della voce.
«Beh, non solo le armi. Guarda quella spada lì, a momenti cade a terra.» non riuscì a impedirsi di aggiungere, però, sporgendosi per recuperare l'arma prima che rotolasse oltre il bordo del tavolo finendo sul pavimento.
Alec non diede segno di averlo notato, ma strinse un po' più forte la presa sulla lama di vetro.
Avvertì quasi subito il pizzicore del filo tagliente contro la carne tenera del palmo, ma non aprì la mano.
In un certo senso faceva quasi bene. Sembrava attenuare un po' i sensi di colpa.
«E' che tu...- sanguini
«Uhm?»
La voce di Jace era arrivata ovattata, e non aveva colto la sfumatura allarmata nelle sue parole.
«Il problema è che sanguino?» domandò, perplesso, sbattendo un paio di volte le palpebre senza riuscire a mettere a fuoco l'altro ragazzo.
«No... insomma, stai...»
Accortosi che l'altro non sembrava voler fare nulla in proposito, il Nephilim biondo sgranò gli occhi, muovendosi velocemente e allungando una mano a stringerla con forza attorno al polso del compagno, per costringerlo a mollare la presa. «Dannazione, Alec! Che diamine stai pensando di fare, eh?!»
Solo quando la spada angelica cadde con un tintinnio di vetro per terra, lasciandolo con la mano socchiusa e la sensazione di qualcosa di caldo a scorrere sulla pelle e fra le dita, si accorse del bruciore intenso al palmo.
Gemette, alzando stralunato lo sguardo sul parabatai, fissandolo come se non avesse ben chiaro come si fosse potuto ferire in quel modo.
«Io... Jace... non» iniziò, confuso, guardando il ragazzo sfilare dalla cintura il suo stilo e chinarsi a tracciare una perfetta runa di guarigione all'interno del polso. Sentì il solito pizzicore, ma dopo avvertì il dolore scemare in un leggero fastidio fino a quando sulla pelle non rimase che una pallida linea trasfersale, di un rosa più vivido rispetto al suo incarnato, e il rosso del sangue che era fuoriuscito dalla ferita.
«E' questo, che intendevo!»
Esclamò Jace, lasciando la presa sulla sua mano e stringendo con forza lo stilo fra le dita, cercando di ritrovare la calma nel calore prodotto dall'adamas contro la pelle.
Se non si controllava rischiava di prendere fuoco, e l'ultima cosa che voleva erano altri allenamenti con i Fratelli Silenti. La Città di Ossa era davvero un mortorio.
«Jace... Jace, stai inziando a...» balbettò il Lightwood, guardandolo con quegli occhi così azzurri che davano quasi fastidio.
Effettivamente la pelle del Nephilim stava piano piano diventando trasparente, lasciando intravedere le ossa e l'oro liquido del fuoco celeste.
L'Herondale voltò il capo con uno scatto, per non avere la fonte della sua rabbia davanti agli occhi. Le emozioni forti continuavano a dargli problemi, soprattutto se causate da persone a cui teneva così tanto.
Inspirò, socchiudendo gli occhi e concentrandosi sui mattoni scoloriti che ricoprivano la parete.
Piano piano sembrò riacquistare il controllo, perché la luminescenza si affievolì fino a lasciarlo del tutto, facendolo tornare normale.
«Credevo... avessi impar-a-to a... a controllarlo.»
Il Cacciatore biondo si voltò verso l'amico, rannicchiato nel suo angolino. Aveva pulito la mano sulla felpa, e adesso una strisciata rossa spiccava sul grigio come una ferita.
Sorrise, ma il sorriso non si estese al suo sguardo. L'oro adesso era offuscato, i soli avevano smesso di brillare.
«Già.» disse «Credevo lo avessi fatto anche tu.»


Teneva lo sguardo fisso sul cellulare nuovo.
Jace gli aveva rotto quello che aveva acquistato sotto consiglio di... beh, di lui, facendolo fracassare a terra in mille pezzi e intimandogli di smetterla di chiamarlo, solo tre giorni prima.
Forse non aveva detto proprio così, era più qualcosa sul trovare il coraggio di farlo davvero o smetterla di fare lo psicopatico, ma in quel momento non gli era interessato molto. Guardava i resti dell'unica cosa che lo teneva ancora legato allo stregone, stringendo le mani in pugni.
Non aveva mai desiderato, da che lo conosceva, così tanto prendere Jace a pugni come in quel momento.
Ma non lo aveva fatto. Gli aveva urlato un po' contro, poi semplicemente piantato il muso smettendo di parlargli.
Sapeva non avrebbe resistito ancora a lungo, era del resto impossibile con Jace a bussare ininterrottamente alla propria porta chiedendo di essere perdonato, ma il gesto lo aveva ferito anche se fatto con le migliori intenzioni.
Ad ogni modo era sgattaiolato fuori per acquistarne un altro, approfittando di un momento in cui nessuno era all'Istituto per controllare cosa facesse.
Sospirò, fissando lo sfondo di un campo di papaveri, di quelli preimpostati. Non aveva foto con cui sostituirlo, in quel cellulare, e nessuna intenzione di piazzarci Church; tra l'altro dubitava che il micio si sarebbe lasciato fotografare.
Si diede dello stupido, dopo cinque minuti passati così, girandosi sull'altro fianco e affondando il viso nel cuscino. Cosa si aspettava? Che il cellulare squillasse?
Che Magnus, era persino doloroso pensare quel nome, lo chiamasse?
Anche volendo non aveva certo il suo nuovo numero. Era il Sommo Stregone di Brooklyn, non un veggente.
«Ahhh!» soffocò un urlo esasperato contro la federa, rotolando sulla schiena e premendosi il cuscino sul viso, artigliandolo con le mani.
Non ce la faceva. Non ce la faceva seriamente più.
Prese un respiro, gettando via il suo riparo improvvisato senza guardare dove sarebbe finito, ed afferrando il cellulare con mano tremante.
Il figlio di Lilith non conosceva il nuovo numero, ma Alec aveva letto così tante volte il suo in quei mesi da impararlo a memoria quasi fosse un manuale di demonologia.
Digitò sulla tastiera touch senza pensare, ritrovandosi senza sapere come ad ascoltare i lenti ''beep'' di una linea in attesa.


«Pronto?»
Aveva risposto meccanicamente, guardando solo di sfuggita il display. Dava solo un numero che non conosceva, senza nominativo.
Questo lo aveva sorpreso; di certo non erano in molti a conoscere il numero privato del Sommo Stregone di Brooklyn né, tantomeno, a sapere che ce l'avesse un numero privato.
In effetti Magnus non dava granché l'idea di uno che potesse avere un cellulare.
«...»
Lo stregone increspò le sopracciglia, passandosi una mano fra i capelli sfatti. Da quant'è che non li sistemava con del gel glitterato? Aveva ormai perso il conto dell'ultima volta in cui si era visto in uno specchio.
Ma quello che lo perplimeva di più era il respiro che udiva all'altro capo del telefono, senza risposta.
«Pronto?» ripeté, chiudendo gli occhi. Se era qualche scherzo...
Un singhiozzo ruppe il silenzio, ma fu un suono così leggero che quasi faticò a coglierlo. Ma lo udì.
E sgranò gli occhi da gatto, che fissarono attoniti il soffitto, mentre si metteva velocemente seduto ignorando il capogiro dovuto al repentino cambio di posizione.
Nonostante tutto aveva riconosciuto quella voce, anche se non la sentiva da mesi. Era stato istintivo, come se la persona all'altro capo avesse parlato invece di rimanere in un disperato silenzio.
«...Alec


Il Cacciatore trattenne il respiro, gli occhi sbarrati e fissi su una delle pareti bianche della sua camera.
Aveva desiderato così tanto sentire la sua voce, che adesso non se ne capacitava.
Era sempre la stessa, pensò con un moto di nostalgia e dolcezza. Bassa, un po' svagata, come se non prendesse mai sul serio quello che diceva.
Sapeva perfettamente che non era così, e per questo l'amava.
«...» provò ad articolare qualche parola, ma si riscoprì senza voce.
Cosa avrebbe dovuto dirgli?
«Alec, sei tu...?»
Probabilmente quella domanda fu il colpo di grazia. Sembrava quasi speranzosa, quasi temesse e al contempo desiderasse una risposta positiva.
Gli occhi azzurri di Alec si riempirono di lacrime, mentre staccava la chiamata, nascondendo il viso fra le braccia e stringendo ancora forte il cellulare.


Magnus rimase a guardare lo schermo del telefonino, osservando il simbolino della chiamata interrotta.
Fu tentato di scaraventarlo via, in un moto di rabbia, ma lo lasciò semplicemente cadere fra i cuscini, chinandosi in avanti e prendendosi il capo fra le mani.
Era Alec, impossibile non riconoscerlo.
Si ritrovò sorpreso nel sentire il proprio cuore battere furiosamente contro il petto, e un dolore sordo colpirlo come uno schiaffo.
Perchè aveva davvero desiderato che il Cacciatore gli parlasse. Dicesse qualcosa, qualsiasi cosa.
Andava bene anche lo riempisse di insulti; tutto, ma non quel pianto silenzioso.
Perché colpa sua. Imputabile soltanto al suo orgoglio e alla sua testardaggine.
Alexander aveva fatto uno sbaglio, è vero, aveva tradito la sua fiducia.
Ma si sarebbe davvero venduto a Camille per strappargli l'immortalità?
No.
La risposta arrivò chiara e semplice, e in fondo anche se aveva voluto ignorarla con tutte le sue forze, era lì in un angolino della sua mente sin da quando aveva visto lo sguardo addolorato del Nephilim in quella stazione.
Gli aveva detto che lo amava ancora, ma che questo non cambiava le cose.
Che stupido era stato. Che ottuso, sciocco... si vantava di essere migliore, con ottocento anni di esperienze alle spalle.
Ma alla fine ricadeva sempre negli stessi errori. Errori terribilmente umani.
Era quasi buffo, da pensare.
Alzò lo sguardo, sentendo il morbido pelo del micio di casa strofinarsi contro una sua caviglia nuda, guardandolo con quegli occhioni verdi che sembravano accusarlo.
Allungò una mano, sfiorando il capino della minuscola bestiolina con la punta delle dita, sentendosi abbandonare da ogni forza, ancora una volta.
«Hai ragione, Presidente. Manca anche a me.»


Lo aveva visto, tra la folla.
Non sapeva cosa ci facesse a quella festa di mondani, ma era indiscutibilmente lui.
Doveva essere una serata di inaugurazione, quella, il locale era gremito di gente e una folla niente male si accalcava anche fuori in attesa di entrare.
Alec aveva alzato lo sguardo dal marciapiede, ed era rimasto folgorato dalla figura slanciata e ben vestita che stava sorpassando la fila come se fosse stato un qualche vip.
Magnus aveva i capelli pettinati al suo solito, ma nessun glitter. Persino i suoi abiti, se pur di buon gusto, non avevano il suo tocco: una giacca elegante su una camicia nera e dei jeans firmati. Di certo non il suo stile, anche se più consono a quello degli altri presenti.
Il Cacciatore sentì il cuore accellerare i suoi battiti, e si mosse prima ancora di pensare razionalmente a ciò che stava facendo.
Doveva raggiungerlo. Ora che l'aveva così vicino, doveva assolutamente arrivare a lui. Poco importava se, per farlo, spintonava qualcuno dei ragazzi e si faceva urlare dietro le peggiori cose.
Non sentiva nessuno. Non vedeva nessuno che non fosse il ragazzo a cui era appena stato servito un drink.


Sapeva di acqua sporca e menta. Nemmeno lontamente paragonabile agli alcolici delle fate. Ne buttò giù un altro sorso, storcendo le labbra in una smorfia.
Non sembrava contento, e neppure aveva intenzione di fingerlo; era lì solo perché a Catarina era sembrata una buona idea portarlo fuori, lontano dal loro mondo, in una festa che non fosse qualcuna delle sue solite che, da un po' di tempo, erano diventate deprimenti.
Ma aveva perso di vista l'amica da una decina di minuti ormai, e di entrare dentro non se ne parlava. Non voleva rimanere lì e non ci sarebbe rimasto, era la cosa più logica da fare.
Mollò il bicchiere mezzo vuoto ad una ragazzetta in adorazione, senza degnarla di uno sguardo, prima di farsi largo fra la folla per sgattaiolare nella stradina e far perdere le sue tracce.
Desiderava solo tornare a casa propria. E dormire fino alla fine del secolo, magari.


Aveva provato ad urlarne il nome, ma nella calca era andato perso fra le risate e i borbottii e la musica a palla.
Si sentiva stordito, e disorientato.
Una fitta di gelosia lo colse, quando notò il figlio di Lilith passare il proprio bicchiere ad una brunetta tutta sedere che lo sguardava come se lo avesse voluto spogliare lì davanti a tutti.
E' mio! Avrebbe voluto gridarle, a costo di far voltare tutti i presenti a guardarlo. Ma quella, adesso, era una bugia. Solo il fantasma di un ricordo che un tempo era stato verità.
Si riscosse in fretta, però, appena in tempo per vedere lo stregone infilarsi in un vicoletto.
Ringraziò che si fosse allontanato, sgusciando fra una coppietta che lo guardò indignata, gettandosi alla rincorsa in quella stradina male illuminata.


Respirava a fatica, un occhio socchiuso e le mani sulle ginocchia, per riprendere fiato.
Davanti a lui una piazzetta deserta. Qualche albero, un lampione ad illuminare un paio di panchine artisticamente rovinate dai vandali.
E nient'altro.
Lo aveva perso.
«Dannazione...!»
Sentiva le guance ardere, per il freddo e per la corsa, e gli occhi pizzicare fastidiosamente. Le lacrime che gli bagnarono le labbra avevano il sapore amaro della delusione.
Aveva avuto un'opportunità e l'aveva sprecata perché non era stato abbastanza veloce.


«Lo sai che lo stalking è perseguibile per legge?»
Alec sobbalzò, sgranando gli occhi.
Le lacrime aumentarono d'intensità, al pari della stretta delle braccia che lo ingabbiavano.
Il profumo di sandalo e caramello lo avvolse completamente, stordendolo, così come aveva fatto la sua voce che gli era giunta come una carezza all'orecchio.
Simile ad un sogno, od un miraggio.
In ogni caso, troppo bello per essere vero.
«M-magnu-s...» riuscì a stento ad articolare il suo nome, fra i singhiozzi, sentendosi mortalmente imbarazzato per la vista che gli stava offrendo; un debole, patetico, ragazzino mortale. Non era nient'altro che questo. Una vergogna persino come Cacciatore.
I Nephilim non piangevano.


Lo stregone affondò il viso in quei capelli nerissimi, aderendo completamente alla schiena del più giovane. La sensazione del suo corpo contro il proprio, dopo così tanto tempo, gli procurò un brivido di sicuro non imputabile al freddo novembrino.
«Shhh, sono qui...» mormorò, Sentendolo tremare fra le sue braccia.
Stava piangendo, ancora una volta.
Fece male, proprio come quando lo aveva lasciato. E quando lo aveva chiamato, settimane prima, senza dirgli nulla.
Si rese conto, stringendolo come se fosse la sua ancora di salvezza, che avrebbe fatto sempre male. Per quanti anni sarebbero potuti passare, vedere, ma ancor più sentire Alexander piangere a causa sua sarebbe stato come morire, ogni volta.
E così si rese conto anche che non c'era un futuro, senza di lui. Che nonostante tutto quello che era succeso era previsto in tutti i suoi piani, quasi fosse naturale vederlo al proprio fianco.
«Mi dispiace, Alexander. Mi dispiace così tanto.»
Lo fece voltare verso di sé, cautamente, senza sciogliere l'abbraccio.
E trattenne il respiro, alla vista di quel bel viso stravolto e degli occhi arrossati e cerchiati, l'azzurro annacquato di pianto. Era persino più doloroso di quello che aveva immaginato.
Lentamente lo lasciò andare, sentendolo irrigidirsi per la mancanza di contatto, andando a circondargli però il viso con le mani. Sentiva la pelle umida per le lacrime ardere, contro la propria.
«D-dispiace a me. E'... è sta-ta colpa mia... non avrei dovuto...» farfugliò il più piccolo, guardandolo dritto negli occhi e artigliandogli disperatamente la giacca, stringendola così forte da far sbiancare le nocche e risaltare le cicatrici più fresche.
Magnus scosse il capo, appoggiando la fronte contro la sua.
Entrambi provarono una sorta di de-ja-vù.
«Ricordi cosa ti dissi, dopo la battaglia con Lilith? Dissi che non sarei stato disposto a perderti fra dieci, venti, o sessant'anni più di quanto non lo fossi in quel momento. Ti ho perso per quattro mesi, Alexander... Alec. Quattro mesi. E sono stati più lunghi di otto secoli.»
Il Cacciatore trattenne il respiro, sentendo il proprio cuore battere forte. Quel giorno, come allora, le sensazioni erano le stesse. Forse appena più intense.
«Hai sbagliato.» continuò Magnus «Ma anch'io ho sbagliato, e avrei dovuto capirti proprio perché dovrei avere più esperienza di te. Ma in queste situazioni non si impara mai, vero? So che non avevi intenzione di accettare la proposta di Camille. Era una sadica doppiogiochista, voleva solo divertirsi a vedermi... a vederci, distrutti, perché avevo smesso di essere il suo giochino.»
Alec respirò, tremulo, strattonando un poco la giacca, come in preda al panico. «Non lo avrei mai fatto... Magnus, non lo avrei fatto. Credimi. Tu sei più importante e io sono stato uno sciocco anche solo per averci pensato ma avevo paura... paura di perderti. E guarda qua.» tirò su col naso, abbozzando un sorriso amaro «Ti ho perso comunque.»
Lo stregone chiuse gli occhi, accarezzando le gote del ragazzo con i pollici, delicatamente, salendo su ad asciugargli le lacrime che erano sfuggite, di nuovo, al suo controllo.
«Mentivo.» sussurrò, dopo qualche secondo.
«Cosa...»
«Mentivo» ripeté, aprendo gli occhi e specchiandosi nei suoi. Ogni volta che lo faceva, vedeva riflesso in quegli specchi azzurri un uomo migliore di quello che sapeva di essere. «Ti amo, Alec. E questo basta a cambiare tutto.»
Mentre univa le labbra a quelle dello stregone in un bacio sofferto e desiderato, lì in piedi alla luce di un lampione mezzo fulminato e con una tormenta di neve probabilmente in arrivo, Alec dimenticò i mesi che li avevano visti separati, il dolore, l'ansia di una battaglia che avrebbe strappato molte vite probabilmente alle porte.
E sperò, desiderò, che se quello fosse stato solo un sogno, allora nessuno si azzardasse a svegliarlo.
Perché era meglio un sogno, della vita da svegli senza l'altra parte della sua anima.


«Magnus... Magnus, mettimi giù, per l'Angelo!»
Lo stregone sorrise, tenendo più saldamente le mani sulla vita del suo ragazzo e compiendo una piroetta, trattenendolo a sé. Farlo volteggiare così, in mezzo alla strada, con centinaia di persone a guardarli era la cosa più divertente del mondo.
E le guance arrossate teneramente dell'imbarazzo, il piccolo broncio a nascondere una risata e gli occhi azzurri lucidi e brillanti di gioia del Cacciatore, la più bella.
«Perché dovrei?»
Alec sorrise in risposta, stringendo le dita sul bavero della giacca e strattonandolo un po'. Poi sembrò che un pensiero lo attraversasse.
«...chi era quella brunetta?»
Il Nascosto sbatté un paio di volte le palpebre, prima di afferrare, perplesso. Poi sgranò gli occhi.
«Oh, andiamo...»
La risata del Lightwood cancellò ogni traccia di esasperazione, costringendolo a rubargli un bacio e sollevarlo di peso, caricandoselo in spalla a mò di sacco di patate.
«Magnus, scherzavo, ti prego mettimi giù, è imbarazzante!» si dimenò il Nephilim, scalciando e battendo piccoli pugni poco convinti sulla schiena dello stregone che fece finta di nulla, sorridendo amabilmente a chi lo guardava stranito.
«Neanche per sogno, pasticcino. Anzi, dovresti ringraziarmi, sono meglio di un taxi e costo di meno...»
Alla pacca sul fondoschiena Alec arrossì ancora di più, stringendogli le braccia al collo e nascondendo il viso contro la sua spalla, per evitare di morire per la mortificazione.
«Almeno vuoi dirmi dove mi stai portando?» bofonchiò, soffocando le parole contro la stoffa.
Magnus sorrise, stringendo la presa sulla sua schiena e sulle sue gambe.
«A casa


   
 
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