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Autore: Laylath    27/03/2014    2 recensioni
Eppure a guardare più da vicino i ragazzi di quella realtà, ci si sarebbe accorti che le loro esistenze non erano così scontate: i piccoli grandi problemi dell’infanzia e dell’adolescenza a volte andavano ad intrecciarsi con situazioni difficili, dove spesso il legame con un amico fidato era la cosa migliore per poter andare avanti.
E spesso le persone più impensabili stringevano un forte legame tra di loro per uno strano susseguirsi di eventi, all’apparenza così normali… anche se poi viverli era tutt’altra cosa.
Genere: Generale, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Team Mustang
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Un anno per crescere'
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Capitolo 47. Per tornare a camminare.

 

Kain assaporava a pieni polmoni l’aria carica di profumi primaverili, mentre il caldo sole del primo pomeriggio gli accarezzava la pelle: avrebbe tanto voluto iniziare una sfrenata corsa per i campi, catturare tanti insetti, rotolarsi nell’erba, ma tutto quello che poteva fare era stare in braccio a suo padre mentre percorrevano il sentiero in aperta campagna che conduceva alla stazione del treno.
Abbassò lo sguardo sulla fasciatura che si intravedeva dai suoi calzoni lunghi sino al ginocchio: era stato strano indossarli qualche ora prima e aveva temuto che gli dessero fastidio, ma non era stato così. La sua gamba non faceva più male, a volte gli dava una strana sensazione di formicolio ma niente di grave.
Però la sento sempre rigida e, a piegarla o fare movimenti, la coscia ha proprio difficoltà.
A quel pensiero le sue braccia si cinsero maggiormente al collo di Andrew e nascose il viso sulla sua spalla, cercando di convincersi per la centesima volta che sarebbe andato tutto bene e che quella rigidità non era niente di preoccupante, ma solo una conseguenza temporanea della ferita.
“Non aver paura, Kain – la mano del padre gli accarezzò la schiena – il dottore che ti visiterà è veramente bravo e si prenderà cura di te.”
“E cosa mi farà alla gamba?” mormorò il bambino con preoccupazione.
“Questo non lo so, ma proprio come tu trovi l’errore nei circuiti delle radio che non funzionano, lui troverà se c’è qualcosa che non va nella tua gamba e sistemerà le cose.”
“Voi resterete con me, vero?”
“Certo, pulcino – lo rassicurò Ellie – quando mai potremmo lasciarti?”
“Coraggio, ragazzino, ad East City ti porto in un posto dove fanno un gelato fantastico: avrai una coppa al cioccolato tutta per te, con tanto di panna e ciliegina sopra. Sei contento?”
“Sì, papà.”
“Per cui adesso cerca di stare tranquillo: è anche il tuo primo viaggio in treno e scommetto che lo troverai molto eccitante; eccoci e pare che qualcuno sia venuto a salutarti.”
A quelle parole Kain alzò il viso dalla spalla di Andrew e si girò a guardare verso l’ingresso della piccola stazione: come riconobbe quelle persone un grande sorriso gli illuminò il volto.
“Ciao, gnomo! – Roy si fece avanti, seguito da Riza, Vato, Elisa ed Heymans – abbiamo pensato di venire a salutarti e augurarti buon viaggio e una pronta guarigione.”
“Che bello, siete venuti. Papà, posso andare in braccio a Roy?”
“Va bene – acconsentì Andrew, passando con delicatezza il bambino – tienilo così, in modo che la gamba non si pieghi… bene, perfetto.”
“Ehilà, ragazzino – sorrise Roy, sistemandoselo meglio – lo sai che ti aspettiamo per goderci le vacanze tutti assieme, vero? Quest’estate dobbiamo fare centinaia di cose e ci divertiremo un mondo.”
“Anche Jean sarebbe voluto venire a salutarti – Heymans gli arruffò i capelli neri con dolcezza – ma non ha potuto, ti devi accontentare di me.”
Kain quasi piangeva dalla commozione davanti a tutte quelle dimostrazioni d’affetto dei suoi amici. Tutti loro gli accarezzavano i capelli, gli promettevano che quando sarebbe tornato avrebbero fatto cose incredibili tutti assieme.
“Adesso che c’è bel tempo Hayate non vede l’ora di correre per i campi – mormorò Riza abbracciandolo – devi tornare presto, piccolo mio, lui ti aspetta… ed anche io. Non hai idea di quanto mi mancherai in questi giorni.”
“Spero di tornare presto, Riza.” dovette tirare su col naso perché proprio non ce la faceva.
East City era così lontana, quattro ore e più di treno, centinaia di chilometri: sapere una distanza simile da tutti loro era veramente dura. E per quanto poi? Per ora sapeva che erano circa quattro giorni per fare tutte le visite mediche, ma era solo per quel periodo?
 
La prima sensazione che ebbe di East City, non appena vide la grande stazione ferroviaria, fu di qualcosa troppo grande per lui. Tutto quel viavai frenetico lo metteva a disagio: gente che si muoveva rapidamente, procedendo dritta per la propria strada, senza salutarsi. Era così difficile uscire da una realtà tranquilla come quella del paese dove i volti sono almeno conosciuti per tuffarsi in quel mondo nuovo.
Fu quasi istintivo aggrapparsi maggiormente a suo padre e cercare con lo sguardo sua madre, quasi avesse paura di essere strappato da loro da qualche sconosciuto e portato via per sempre.
Fortunatamente il caos che c’era alla stazione ferroviaria diminuì notevolmente quando si incamminarono per le strade, andando verso il centro della città dove c’erano ampi viali con diversi giardini e parchi.
“Ehi, Kain – lo chiamò con gentilezza Andrew – guarda, quella è l’Università dove ho studiato: desideravo da tanto fartela vedere, figlio mio.”
Il bambino si girò e vide l’imponente edificio che sorgeva all’interno di un grande parco, dove decine e decine di giovani camminavano con i libri sottobraccio. Era così grande e maestoso, ma trasudava una stabilità ed una sicurezza tale che probabilmente fu in quel momento Kain decise che lui sarebbe ad ogni costo andato a studiare lì.
“Si può visitare, papà?”
“Lo faremo, promesso – annuì Andrew – ma adesso è il caso di andare in albergo, riposarci e cenare: ormai è tardi e domani mattina dobbiamo andare all’ospedale a farti visitare dal medico.”
“E la cosa migliore è che tu vada a letto presto, pulcino – disse Ellie, accarezzandogli i capelli – è la prima giornata che passi fuori dal letto ed è stata davvero stancante per il viaggio. Scommetto che dopo cena crollerai addormentato, anche se adesso non te ne rendi conto.”
Ed effettivamente fu così: già mentre cenavano in albergo si sentì incredibilmente stanco, come se tutta la fatica avesse deciso di presentarsi in quel momento. Fu quindi con piacere che si fece mettere a letto, nella stanza che condivideva con i genitori.
“Che strano, – commentò – il letto grande è nella stessa stanza del mio e c’è anche un divano e un tavolo… solo il bagno è in una camera diversa: è una mini casa però senza cucina, vero mamma?”
“Già – sorrise Ellie, rimboccandogli le coperte – gli alberghi sono così e ovviamente non potevamo stare in una stanza separata da te, pulcino. Allora, i tuoi occhiali sono qui nel comodino, per qualsiasi cosa chiama, tanto noi siamo qui.”
“Mamma – Kain le prese la mano – sono… sono solo quattro giorni, vero? Poi torniamo a casa, promesso?”
“Sei spaventato?”
“Un po’ – ammise, con tristezza – è che… non è come addormentarsi con i suoni della campagna ed è tutto così strano, diverso. Insomma, mi piace, davvero, e voglio vedere l’Università, andare a mangiare il gelato in quel posto che mi avete detto, ma… non è casa.”
“Lo so, pulcino – la donna gli baciò la fronte – fa uno strano effetto per noi che veniamo da quel piccolo angolo di mondo così protetto e tranquillo.”
“Insomma, fossi qui in gita con te e papà non credo che sarei così spaventato.”
“Vedrai che andrà tutto bene, amore mio – sussurrò Ellie, portando il viso accanto al suo – la tua gamba guarirà e torneremo a casa, promesso. Ma tu devi essere forte e coraggioso, come sei sempre stato: io e papà saremo accanto a te, tranquillo.”
 
Il giorno successivo a scuola tutti i ragazzi erano stranamente silenziosi e poco attenti alle lezioni: sapevano che in quelle medesime ore il medico stava visitando Kain e si sentivano estremamente preoccupati per la diagnosi che avrebbe fatto.
“Insomma, è solo un po’ rigida – commentò Roy all’intervallo, rivolto a nessuno in particolare – è del tutto normale che succeda dopo che è stato per tanto tempo fermo. E poi mi ricordo che una volta mi sono strappato un muscolo della gamba e si è irrigidita tutta per diversi giorni, forse non è dissimile.”
I ragazzi si girarono verso Vato, fonte di conoscenza indiscussa del gruppo.
“Ecco – arrossì, passandosi una mano tra i capelli bicolori – quello che hai avuto tu è un trauma esterno, ma il problema è che quella lamina è entrata dentro la carne e non sappiamo cosa abbia eventualmente preso: ci sono un sacco di muscoli e legamenti in quella parte dell’arto… però il fatto che riesca a muovere la parte inferiore è positivo, suvvia. Non c’è stata una lesione davvero grave da paralizzarla.”
“E come fanno i medici a capire che danni ha avuto? – chiese Jean grattandosi il dorso del naso con perplessità – La ferita è ormai in buona parte rimarginata come qualunque taglio che si rispetti.”
“Non so di preciso – ammise Vato – ma sono dei medici specializzati in queste cose: sicuramente gli faranno provare determinati movimenti e coglieranno dei dettagli che il nostro dottore non sarebbe in grado di vedere.”
“E poi come procederanno?”
“Adesso mi chiedete troppo, mi dispiace – sospirò – ho letto nei libri che ci sono diversi tipi di riabilitazione a seconda del tipo di problema, ma non erano molto specifici.”
O meglio, era lui a non voler raccontare agli altri di stampelle, bastoni, tutori e altre cose che aveva visto durante le sue ricerche: gli dava fastidio pensare a Kain con delle simili soluzioni addosso e preferiva tenere simili pensieri per sé.
No dai, non sarà niente di grave.
“Spero che ci facciano presto avere notizie.” sospirò Heymans.
“Mio padre ha chiesto al signor Fury di chiamare al telefono che c’è alla stazione di polizia per tenerlo informato – ammise, volendo dare loro un minimo di conforto – Appena ci sono novità lo sapremo.”
“Davvero? Ottimo!”
Però quelle ore di attesa erano davvero dure.
 
I telefoni erano abbastanza rari nel paese, le comunicazioni affidate per lo più alle classica posta scritta, e uno dei pochi si trovava nell’ufficio del capitano Falman.
“Ragazzi… siamo in orario d’ufficio e sto lavorando.” disse Vincent quel pomeriggio, squadrando a turno quei giovani invasori che da venti minuti stavano nel suo ufficio.
“Non stiamo dando disturbo – disse Roy, seduto nella sedia e con le braccia conserte nella scrivana – stiamo solo aspettando la chiamata del padre di Kain.”
“Vato…”
“Scusa, papà, ma proprio mi è scappato – arrossì lui, nascondendo il viso dietro al libro che stava facendo finta di leggere – lo so che mi avevi chiesto di non dirlo.”
“E c’era un motivo ben preciso: senti un po’, invasore, questa scrivania mi serve. Leva le tue braccia da lì, non lo vedi che sto lavorando?”
“Se vuole le do una mano – sorrise furbescamente Roy – e poi voglio stare vicino al telefono: voglio rispondere io quando chiama il padre di Kain.”
“Tu non rispondi proprio a niente – lo bloccò immediatamente Vincent – al telefono ci penso io. Voi tre, se proprio volete restare…”
Dobbiamo restare – dichiarò Roy con aria seccata – abbiamo tirato a sorte per non invaderle l’ufficio tutti quanti, anche se ovviamente Vato doveva esserci dato che è suo figlio. Per il resto siamo usciti io e Riza, quindi dovrebbe anche ringraziarmi, perché l’idea è stata mia.”
“Arrogante ragazzino che non sei altro…” cominciò Vincent, stringendo la penna con aria seccata, tanto che Vato desiderò scomparire dietro al suo libro: proprio Roy non poteva fare a meno di stuzzicare suo padre, incurante delle conseguenze a cui poteva andare incontro.
“Oh no, signore, non si arrabbi – fece Riza, alzandosi dalla sua sedia e andando accanto a Vincent – ci scusi tanto, davvero, ma siamo così in pensiero per Kain che proprio non potevamo restare ad aspettare a casa. Le giuro che non le daremo fastidio, vero Roy?”
“Ovviamente.” annuì lui con uno sbuffo.
“E sia – sbottò Vincent, dando un buffetto alla guancia di Riza – dipendesse da me farei restare solo Vato e te, signorina, ma chiuderò un occhio anche per il nostro furfante.”
Ottenuto quel permesso i ragazzi parvero rilassarsi e rimasero in quieta attesa, continuando a lanciare esasperate occhiate a quel telefono che proprio non aveva voglia di squillare e far sapere loro qualcosa.
Quando dopo un’ora ci fu una chiamata accorsero, ma non si trattava del padre di Kain: era una telefonata di lavoro e Vincent fece loro cenno di uscire dall’ufficio.
“Maledetto telefono – sbottò Roy – potrebbe anche degnarsi di passarci la telefonata giusta.”
“Sono quasi le sette – sospirò Riza, guardando l’orologio appeso nel piccolo corridoio della stazione – tuo padre finisce di lavorare alle otto, vero?”
“Sì – ammise Vato – spero che il signor Fury ce la faccia a chiamare prima di quell’ora.”
La chiamata successiva, circa mezz’ora dopo, fu quella tanto attesa.
“Ciao, Andrew – salutò Vincent – iniziavo a pensare che… ehi!”
“Mi dia quel telefono! – Roy praticamente saltò sopra la scrivania – Voglio sapere di Kain!”
Riza dal canto suo corse verso Vincent e si aggrappò al suo braccio e anche Vato si era accostato alla scrivania.
“Dannazione… ragazzi! – gridò – Fermi tutti o vi faccio uscire da quest’ufficio, sono stato chiaro? E tu scendi dalla scrivania: non sei un gatto ma un essere umano! Scalmanati che non siete altri… allora Andrew, scusami tanto, qui ho gli amici di tuo figlio impazienti di sapere le novità.”
“Non avevo molti dubbi in merito – la voce di Andrew indicava che stava sorridendo – mi dispiace di crearti tutti questi disagi in ufficio.”
“Ma che disagi. Allora, che hanno detto i medici?”
“Stamattina gli hanno fatto i primi controlli: gli hanno esaminato la ferita e provato a far muovere la gamba in diversi modi. Dicono che c’è qualcosa che non va di sicuro, ma devono ancora fare alcuni esami per capire nello specifico di che cosa si tratta.”
“Ovvio che vorranno essere certi prima di fare una diagnosi – annuì Vincent con serietà – quindi si prospettano altri esami, eh? E il bambino come sta?”
“Adesso è tranquillo ed è in camera con Ellie. Ma all’ospedale era molto spaventato e ovviamente la gamba con tutte quelle prove gli ha fatto un gran male… è terrorizzato a tornarci domani. Senza contare che anche questo ambiente nuovo lo mette a disagio: insomma non è facile.”
“Mi dispiace…”
“E’ che Kain non ha un buon rapporto con l’idea di stare male, non riesce a viverla serenamente… e ad essere sinceri ha pienamente ragione. Nemmeno io ci riesco anche se cerco di nasconderlo: mi sono continuato a ripetere che tutto sarebbe andato bene, ma quando stamattina l’ho visto piangere e l’ho dovuto tenere fermo mentre il medico gli piegava la gamba… lasciamo stare che è meglio.”
“E’ una dura prova, amico mio, ma sono sicuro che la supererete – volse lo sguardo verso i ragazzi che lo guardavano con ansia – e dunque domani altri esami, eh? Per oggi nessuna novità.”
“No, dillo pure ai ragazzi. Del resto lo sapevano che non sarebbe stata questione di un giorno solo: ci hanno pronosticato almeno altri due giorni di esami e poi ci diranno. Rassicurali che il medico è in gamba e ci sa fare, ma non dire loro che Kain è così spaventato, va bene?”
“Ovviamente. Puoi richiamare anche domani per farci sapere come va?”
“Certo. Adesso però devo andare: fra un venti minuti vorrei farlo mangiare così poi lo mettiamo a dormire e si calma. Vedrò di chiamare a quest’ora.”
“Va bene, a domani.”
Come chiuse la chiamata Vincent dovette raccogliere le sue forze nell’arco di un millesimo di secondo per potersi girare a guardare suo figlio, Riza e Roy.
“Allora?” chiese lei, con le mani giunte.
“Oggi gli hanno fatto i primi esami, ma ovviamente non hanno ancora informazioni necessarie per sapere bene che cosa c’è che non va. Il medico è molto bravo e per sincerarsi farà altre analisi, almeno per i prossimi due giorni.”
“Cosa? – si rabbuiò Roy – Dunque non si sa ancora niente?”
“Ci vuole tempo, ragazzino. Per simili cose bisogna procedere con cautela, ma Andrew ha promesso che chiamerà anche domani alla medesima ora per dirci le novità.”
“E Kain come sta?” chiese Riza.
“Bene, – mentì Vincent – è molto stanco, ovviamente ed Andrew mi ha detto che dopo cenato andrà subito a dormire: sono giornate impegnative per tutti loro, del resto.”
Ma chiaramente Roy capì che gli stava tenendo nascosto qualcosa.
 
Non furono dei giorni facili per Kain: si può promettere di essere forti e coraggiosi e mettere tutto l’impegno possibile per mantenere la parola data, ma oggettivamente di fronte a tutti quegli esami la sua volontà di undicenne cedette.
Non era colpa dei medici e delle infermiere: erano molto gentili con lui, lo chiamavano per nome e cercavano di tranquillizzarlo. Ma la gamba gli faceva male per tutti quegli sforzi e poi quell’ambiente che sapeva di disinfettante e dove c’erano tante cose misteriose e sconosciute gli faceva davvero paura.
Il terzo giorno gli fecero un prelievo di sangue e fu una vera e propria tragedia: lui odiava gli aghi ed il concetto a cui era abituato era quello di iniezione nel sedere, dove almeno non poteva vedere… un prelievo dal braccio fu un’esperienza che lo lasciò senza fiato per tutti gli strilli e le suppliche che fece.
“Mamma – mormorò, sdraiato nel lettino, esausto dopo che l’avevano calmato – voglio andare via! Voglio tornare a casa… per favore…”
“Devi essere forte, pulcino – lo consolò Ellie, accarezzandogli i capelli – coraggio.”
“Non voglio più…”
“Sssh, tesoro, ti sei agitato tanto: adesso chiudi gli occhi e riposa, da bravo.”
“No – supplicò – che poi vengono e mi mettono di nuovo l’ago nel braccio!”
“Ma no.”
Dovettero passare alcuni minuti prima che Kain cedesse alla stanchezza e si addormentasse. Ellie rimase ad accarezzargli i capelli fino a quando non entrò il medico seguito da Andrew.
“Bene, direi che possiamo fare il punto della situazione – dichiarò l’uomo, controllando la cartelletta che aveva in mano – gli esami fatti sono sufficienti.”
Si avvicinò al letto e scostò il lenzuolo per vedere la leggera fasciatura sulla coscia del bambino.
“Non paiono esserci danni ai muscoli o ai legamenti, i movimenti riesce a farli senza problemi…”
“Ma gli fa molto male.” obbiettò Ellie.
“In parte è dovuto al normale processo di guarigione, ma sicuramente c’è un problema di fondo: c’è qualche tessuto che si sta cicatrizzando nel modo sbagliato, andando a dare fastidio agli altri componenti della gamba.”
“Ossia sta guarendo male?” Andrew si mise a braccia conserte ed annuì.
“Sì, se vogliamo metterla in questo modo e c’è anche la spiegazione logica – l’uomo prese le forbici e tagliò con gentilezza il bendaggio, mostrando la ferita rossastra – in genere per tagli di questo tipo si mettono dei punti di sutura per chiudere i lembi. Tuttavia, leggendo la relazione fatta dal vostro medico, non posso che approvare la sua scelta di farla procedere con naturalezza: con dei punti di sutura era molto più facile che l’infezione si diffondesse e la priorità era mantenere la ferita pulita e sotto costante controllo. E qui si è creato il problema perché evidentemente alcuni tessuti, senza l’aiuto della sutura che teneva chiusi i lembi, si sono cicatrizzati in maniera troppo estesa o comunque male, creando le difficoltà attuali.”
“E si può fare qualcosa in merito?” Ellie fece la fatidica domanda.
“Sì – annuì il medico sfiorando l’estremità della ferita – possiamo procedere con un’operazione: riapriamo la ferita ed eliminiamo il tessuto che si è cicatrizzato male e poi mettiamo dei punti di sutura in modo che la guarigione avvenga in modo corretto.”
“Detta così pare una cosa abbastanza tranquilla.” mormorò Andrew, con una lieve speranza nella voce.
“Ha undici anni e a quest’età le capacità rigenerative del corpo sono molto elevate: il tessuto buono non dovrebbe avere problemi a formare una nuova parte cicatrizzata questa volta in maniera corretta.”
“Insomma tornerà a camminare normalmente? – Ellie prese il braccio del marito e lo strinse con ansia – E’ questo che ci sta dicendo, dottore?”
Il medico sorrise e annuì.
“Salvo complicazioni è il risultato che mi attendo. Tuttavia voglio che il bambino resti alcune settimane qui in ospedale: in primis voglio tenere d’occhio la ferita per tutto il tempo che avrà i punti di sutura, ossia una decina di giorni, e poi è consigliabile che la prima parte della riabilitazione la faccia qui sotto la guida di esperti. Ma se tutto va bene in massimo tre mesi vostro figlio torna a correre e a saltare come tutti gli altri bambini.”
 
“Operare? – Roy sgranò gli occhi, quando Vato riferì loro la notizia – Ma stai scherzando?”
“No – scosse il capo lui – voi eravate già andati via ed io stavo aspettando papà per tornare a casa quando il signor Fury ha chiamato. Dovranno riaprire la sua ferita per sistemare alcune cose che stavano guarendo male. Però ha detto che se tutto va bene Kain tornerà a camminare e correre senza problemi.”
“Oh, questa sì che è una notizia meravigliosa!” Elisa abbracciò il fidanzato.
Anche gli altri sembrarono sollevarsi a quella rassicurazione: era quello che tutti avevano sperato in quei giorni e finalmente la grande conferma era arrivata.
“E quando torna a casa?” chiese Riza.
“Ecco, per quello ci vorrà parecchio tempo…”
“Oh – si incupì subito lei – più o meno quanto?”
“Penso che lo opereranno entro la settimana prossima e poi deve stare in ospedale per diverso tempo perché i dottori vogliono controllare che questa volta la ferita guarisca bene e poi deve fare riabilitazione.”
“Che è la riabilitazione?” chiese Jean.
“Sono degli esercizi che ti fanno fare in modo che la gamba riprenda a muoversi piano piano, senza forzare troppo. Sai, come quando ti sloghi una caviglia: non devi sforzarla per i primi giorni e certo non puoi correre subito.”
“Allora saranno solo pochi giorni.”
“No, la ferita di Kain è più grave – spiegò il ragazzo – diciamo che tra una cosa e l’altra non torneranno qui prima di un mese.”
Un mese?” a quelle parole Roy sbottò.
“Così tanto…” anche Heymans scosse il capo.
“Praticamente starà tutto giugno lì – capì Jean – accidenti, io credevo che fosse una cosa più rapida.”
Tutti iniziarono a commentare quella lunga attesa che li aspettava: ovviamente nella loro ingenuità avevano pensato che la questione si risolvesse nell’arco di una settimana o massimo dieci giorni. Del resto stavano parlando di medici di East City, si presumeva che loro fossero in grado di risolvere il problema in tempi decenti.
Era veramente strano per tutti loro: erano abituati a vedersi quotidianamente e anche le assenze da scuola non volevano certo significare scomparsa per periodi così lunghi. E quegli oltre centocinquanta chilometri di distanza si facevano sentire per chi era abituato a camminare al massimo per quaranta minuti per arrivare a casa dell’altro.
Insomma sembrava che Kain fosse incredibilmente irraggiungibile e questo era difficile da sopportare.
In tutto questo Riza si strinse le braccia attorno alla vita e abbassò lo sguardo a terra: lei era quella maggiormente colpita da questa separazione. Oltre a Kain per un mese non avrebbe rivisto Ellie ed Andrew che ormai erano diventati il suo punto di riferimento: le sembrava di essere stata abbandonata, lasciata indietro, proprio ora che le serviva il maggior sostegno emotivo.
Non si accorse nemmeno di come Roy avesse posato lo sguardo su di lei.
 
“Sarai addormentato, Kain – spiegò Ellie, mentre rientravano in albergo – non sentirai niente. E quando ti risveglierai mamma e papà saranno accanto a te.”
“E se mi sveglio quando mi stanno operando? – mormorò lui nel panico, aggrappato ad Andrew – Non voglio, ho paura… voglio tornare a casa, da Riza.”
“Ti addormentano in un modo speciale, figliolo – lo abbracciò ancora più forte il padre – non ti potrai svegliare, tranquillo. Dai, basta con le lacrime: ricordi che hai promesso di essere forte? E poi sembra tanto, ma un mese passerà in fretta, devi solo essere più ottimista.”
Ma era difficile esserlo dopo un’altra giornata snervante in ospedale e con la prospettiva di essere operato nell’arco di pochi giorni.
“E perché poi devo stare in ospedale? Non posso tornare in albergo?”
“No, pulcino: i dottori devono tenerti d’occhio giorno e notte.”
“Ma voi starete con me… vero mamma?” ma intuiva già la risposta.
“Verremo a trovarti tutti i giorni, amore mio – Ellie lo baciò sulla guancia, mentre Andrew lo posava sopra il letto – ma non possiamo stare sempre con te.”
“Io non voglio dormire senza di voi – pianse disperato – non voglio stare in quel posto! Mamma, ti giuro che faccio il bravo, faccio tutto quello che mi dite voi… ma non abbandonatemi lì.”
“Nessuno ti sta abbandonando, piccolo pulcino – la donna lo abbracciò – ma non possiamo: in ospedale ci stanno medici e pazienti. Per i parenti ci sono gli orari visite, altrimenti non ci sarebbe spazio per tutti.”
Ma quelle spiegazioni e rassicurazioni non venivano recepite dal bambino: ormai la sua mente spaventata si era convinta dell’idea di un prossimo abbandono, con i suoi genitori che lo lasciavano per sempre in quella città per via della sua gamba che non sarebbe mai guarita del tutto.
“Kain – lo riscosse Andrew – ascolta, vuoi scendere giù con me? Devo chiamare Vincent e sicuramente ci saranno anche dei tuoi amici: chiedo se puoi parlare con loro, va bene?”
“Davvero?” singhiozzò lui, asciugandosi le lacrime e facendo un disastro con gli occhiali appannati.
“Certo – sorrise lui, inginocchiandosi e sistemando la situazione con un fazzoletto – ma non credo che vogliano sentirti piangere, diventerebbero tristi. Ci calmiamo un po’ e poi andiamo, va bene?”
“Sì…”
 
“Ti passo una persona al telefono – dichiarò Vincent, porgendo la cornetta a Roy che quella sera era passato nella speranza di avere delle novità – così finalmente ti calmi.”
A quella concessione il ragazzo rimase perplesso, ma prese l’apparecchio senza esitazione.
“Pronto?”
“Roy! – la vocetta di Kain squillò felice – Oh Roy! Sono così felice di sentirti!”
“Gnomo! Che sorpresa, pensavo che fosse tuo padre.”
“Papà ha detto che se mi calmavo potevo parlare con voi.”
“Calmarti?”
“Mh – adesso la voce era più triste – E’ che mi devono operare e ho paura… lo so che mi hai detto di essere forte, ma ti devo confessare che ho pianto tanto in questi giorni.”
“Oh no, gnometto – sospirò Roy sedendosi sulla scrivania – non dire questo, non va bene. Ci sono i tuoi genitori con te e noi ti pensiamo ogni giorno… e se devi fare questa stupida operazione, che sia. Dai che ti devo insegnare ad andare in bicicletta e se non guarisci bene non potrò farlo.”
“Vorrei essere coraggioso come te, Roy. Vorrei non essere così spaventato… sai, devo stare in ospedale per tanti giorni e mamma e papà non potranno stare sempre con me. Potranno venire solo a certe ore e non la notte.”
Roy si passò una mano sui capelli, cercando un modo per consolare il suo piccolo amico in quello che era un momento veramente difficile.
“Portati qualcosa in ospedale – suggerì – un qualcosa che potrai stringere quando sarai a letto, che te ne pare? Come quando stringevi la tua penna per farti forza: dovrebbe funzionare.”
“La penna l’ho lasciata a casa: avrei troppa paura di perderla qui e poi non pensavo di starci così tanto. Credevo che dopo questi esami… sarei… sarei… Roy… c’è Riza lì con te?”
“No, gnomo, mi dispiace è a casa. No, dai, non piangere…”
“Dai, Ellie, prendilo – disse una nuova voce – da bravo, Kain, dammi la cornetta. Ehi, Roy, sono Andrew…”
“Stava piangendo così disperatamente…”
“Lo so, è spaventato e innervosito all’idea di quello che lo aspetta. Ma adesso Ellie lo mette a dormire e si calma. E’ stato felice di sentirti, davvero.”
“Davvero per un mese non tornerete?”
“No, ragazzo mio – la voce di Andrew sospirò – non possiamo lasciarlo solo ed i medici vogliono giustamente seguire momento per momento la sua guarigione. Senti, Riza come sta?”
“Preoccupata… di certo l’idea che per un mese non ci sarete turba più lei di tutti noi altri, non credo di doverglielo dire.”
“Lo immaginavo, mi dispiace, povera piccola mia. So che lo farai comunque, ma stalle vicino, prenditi cura di lei e non lasciare che si deprima troppo.”
“Ovviamente.”
“Grazie, Roy, sapevo di poter contare su di te.”
“Quando lo operano?”
“Dopodomani lo ricoverano, mentre l’intervento è previsto il giorno dopo.”
“Gli dica che noi stiamo aspettando con ansia il suo ritorno e che deve farsi forza.”
“Certo che lo farò, ragazzo… e fatevi forza anche voi. Si tratta di un mese, dopotutto.”
 
“Fra tre giorni – mormorò Riza, tenendo tra le braccia Hayate – così presto…”
I suoi occhi castani si socchiusero per ripararsi dal sole che tramontava proprio davanti a lei, rendendo i contorni di Roy, posato al cancelletto di ferro, molto sfocati.
“E già. Ah, il signor Fury ha chiesto di te e ha detto che devi stare tranquilla.”
“Come se fosse facile.”
“Ti capisco fin troppo bene – ammise Roy ad occhi bassi, fissando l’erba alta che invadeva in parte il sentierino che conduceva verso la porta della villetta – l’ho sentito ed era molto spaventato: non deve essere per niente bella l’idea di passare tutte quelle notti in ospedale da solo.”
“Dovrei essere con lui, almeno il giorno dell’operazione.”
A quelle parole Roy sorrise furbescamente.
“Proprio quello che volevo sentire, colombina. E se ti proponessi di andare ad East City?”
Perché lui aveva già deciso che sarebbe andato e gli serviva una compagna d’avventura, più ovviamente qualche complice.
Del resto non era roba da tutti giorni prendere un treno clandestinamente.
  
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