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Autore: Ely79    28/03/2014    2 recensioni
Vorreste trasformare la vostra ridicola Urbanhare in un mostro capace di far sfigurare le ammiraglie del Golden Ring? Cercate più spinta per i vostri propulsori a vapore compresso? Spoiler e mascherine su disegno per regalare una linea più aggressiva al vostro mezzo da lavoro? Una livrea che faccia voltare ogni testa lungo le strade che percorrete? Interni degni di una airship da corsa, con quel tocco chic unico ed inimitabile?
Se cercate tutto questo, grande professionalità ed un pizzico di avventura, allora siete nel posto giusto: benvenuti alla "Legendary Customs".
[Ambientazione Steampunk]
Genere: Avventura, Commedia, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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L.C. - Cap. 31
31

Houpette sedeva accanto al bow window spalancato sul giardino, le gambe accavallate che emergevano dalle pieghe dell’abito di lamé bordeaux. Fuori, minuscole lampade cinesi coloravano il giardino del “Bull(es) de mousse”. Lo show era stato un successo, un tripudio di applausi con tanto di standing ovation, nonostante su “Along a rainy road” la voce avesse tremato in un paio di passaggi. Aveva deciso di riproporla comunque, nell’assurda speranza che Del la sentisse e si facesse vivo. Era sciocco, inutile, persino stucchevole, se ne rendeva conto.
«Come va, mia cara?» miagolò una voce decisamente troppo rauca per appartenere ad una delle habitué.
Dietro al trucco dai pesanti accenti rosa, Jeff le stava offrendo una bottiglia di birra con una ridicola coccarda di tulle e piume legata all’imboccatura. Era uno dei tratti distintivi di Feather, la sua parodia di Penny Valentine: riempire ogni cosa di pacchiani fronzoli color confetto.
«Notizie dal fratellone?» domandò avvicinando una sedia.
Houpette scosse il capo, facendo ondeggiare i boccoli ramati della parrucca.
«No» sospirò, evitando il tono da soubrette. «Da quando è uscito dalla “Legendary” non l’ha più visto o sentito nessuno. Choncho è andato a casa sua, ma non c’era. Una vicina ha detto che è sparito da un paio di giorni».
«E da tuo padre?» ma l’amica negò.
«Figuriamoci. Dovrebbe spiegargli perché è stato cacciato e sarebbe un colpo troppo duro per lui. Ha impiagato anni per accettare me, ma… no, non potrebbe mai. Finché quel che fai non rovina te o gli altri puoi essere bislacco quanto ti pare, per lui resti una brava persona, ma la droga... Suppongo che Del sia dal suo amico Nate. Ultimamente è l’unico con cui gli vada di passare del tempo» sospirò, osservando  distrattamente il riflesso delle luci sulla bottiglia.
«Amico?» ghignò allusivo Jeff.
I minuscoli fiocchi che costellavano l’abito rosa fenicottero la facevano somigliare ai cespugli di ortensie che si scorgevano sotto le finestre.
«Solo amico» confermò laconico. «Non l’ho mai visto ma sai com’è fatto Delmar: una volta fuori dalla sua vita, non hai diritto di sapere nulla che lo riguardi. Ne accennava di tanto in tanto a pranzo, così, en passant. Mi pare faccia l’autista».
«Se lo starà scarrozzando da una rosticceria all’altra, saccheggiando le pasticcerie e i fornai che trovano nel mezzo» ridacchiò l’altro sperando di tirarlo su.
La battuta non sortì l’effetto sperato e la cantante si limitò a rigirarsi la bottiglia fra le dita, pensierosa. Feather non desistette. Che avesse di fronte uno dei pezzi da novanta del “Bull(es)” o della “Legendary”, poco importava: erano pur sempre amiche - o amici - e non poteva stare a guardare. Schiarì la voce e riprese:
«Su, tesoro. Sono solo dieci giorni che è successo e tuo fratello è il re degli ingordi e dei pigri di Port Serafine. Dagli tempo e si farà vivo rotolando sulle trippe, sputando briciole e dandoti del finocchio invertito come al solito. Io comunque sono in giro nei prossimi giorni, butto uno sguardo per vedere se riesco a rimorchiarlo col gancio traino».
Feather vide Houpette muovere le labbra scarlatte mimando una specie di augurio un attimo prima di bere. Era chiaro che fosse meglio far cadere il discorso e passare oltre.
«Piuttosto, che ci faceva qui il vostro bell’ingegnere?» chiese lasciando un vistoso segno rosa sul dorso della mano con cui si era asciugato le labbra.
«Scorch? È stato qui?» domandò l’altra sorpresa.
L’amica annuì con tanta foga da ritrovarsi la frangia della parrucca sulla punta del naso.
«È venuto due sere fa, mentre si esibiva Georgette» sbuffò sistemandosi. «Era con quel suo amico viscido… sai, quello che non si lava molto i capelli».
«PigTail».
Chissà perché non era sorpresa. Dopo tutto, in officina non c’era persona che non nutrisse dubbi circa la rapida guarigione di Scorch dalla sua dipendenza: sapevano che Pigtail gli girava ancora intono e supponevano gli avesse passato qualche farmaco illegale o chissà che. Solo Clay sembrava non dar peso alla cosa, mantenendo la più cieca fiducia nel cugino.
«Bingo. Lui. Sono arrivati verso le dieci e sono andati dritti da Brigit. Non hanno ascoltato nemmeno il ritornello di “Bring me home, cowboy”, quei cafoni!» sbuffò.
Era uno dei peggiori brani di Georgette, colmo di esplicite richieste sessuali che la scheletrica soubrette accompagnava mimando in maniera altrettanto sconcia.
«Da Brigit?» domandò, aprendo il ventaglio di piume e cominciando a farsi aria.
«Non li ho visti andarsene, ma quando l’ho incrociata più tardi, la padrona era piuttosto tetra. Tipo quando la vedi di giorno, struccata e con la sua palandrana mentre sbraita in tribunale contro un imputato».
Nella vita di tutti i giorni, Brigit era un magistrato della corte cittadina, un principe del foro che era meglio avere dalla propria parte se non si voleva finire in guai grossi. Se aveva quella faccia anche al “Bull(es)” non era un buon segno.
Houpette non riusciva a immaginare cosa potesse volere Scorch da lei. O da lui.

***

«Smettila! Mi fai male!» esclamò Charlotte cercando di trattenere con una mano il lemure.
Quella mattina LucyBelle era piuttosto nervosa e non aveva fatto altro che mordicchiarle le mani e tirarle i vestiti. Anche in quel momento, mentre si trovava in bilico sulla scala a pioli, non smetteva di salire e scendere dai gradini per farle dispetti, squittendo un’ottava sopra il solito.
«Ma che ti prende?» si lamentò all’ennesimo schiocco di mascelle a poca distanza dalle sue nocche.
L’animale si agitò, appollaiandosi sulla cornice della botola e restando in ascolto, come se qualcosa nel sottotetto avesse attirato la sua attenzione. Probabilmente il ticchettio dell’orologio nel congegno di ricarica.
«Vide uno splendido angelo andargli incontro, scendendo lieve da una scala. E allora capì che il Paradiso esisteva anche per lui» declamò solenne una voce maschile.
Charlotte sussultò, stringendo convulsamente i montanti della scala. Era l’ultima persona che desiderava incontrare lì a quell’ora.
Niklas la fissava sognante, appoggiato allo stipite. Era scalzo e la camicia stropicciata ricadeva floscia oltre la cinta.
«Buongiorno, Charlotte» salutò, mascherando a fatica uno sbadiglio.
«Buongiorno» replicò lei scendendo svelta, il cervello che correva a mille plausibili spiegazioni per la sua presenza.
«Non avrai dormito qui anche tu per caso? Perché io sono crollato leggendo i manuali della stramaledetta Glorith α che devono portarci. E io che mi lamentavo delle Dumil… Quell’airship è un vero casino!» ammise stiracchiandosi e mugolando per ogni giuntura scricchiolante.
«È stata l’insonnia a buttarmi giù dal letto, non ne potevo più. E l’impressione di non aver chiuso una pratica. Stavo andando a cercare i registri per verificare» svicolò indicando la botola, augurandosi che l’ingegnere credesse alla menzogna.
Per sua fortuna era troppo assonnato e indolenzito per accorgersi dei piccoli dettagli che l’avrebbero tradita, come la sua giacca accanto a LucyBelle. Si limitava ad osservarla con quel sorriso gentile e innocente che sfoggiava da quando aveva smesso di bere. Un bel sorriso.
«Il nero è un colore meraviglioso per un’airship, esalta le linee di tensione, le cromature, le giunture delle lamine, ma su di te… no. Proprio non va» commentò indicando l’abito che indossava.
Senza pensarci, Charlotte chinò la testa per controllare che sull’abito non fossero rimaste tracce di polvere, dando il tempo a Niklas di raggiungerla.
«Però senza trucco e con i capelli sciolti sei…» mormorò, interrompendosi appena in tempo dal dire qualcosa di cui avrebbe potuto pentirsi.
Bloccata fra la scaletta e il progettista, la donna si strinse tremando nelle braccia, muta.
«Stai bene, insonnia a parte? Sei pallida» osservò il progettista sfiorandole la guancia con le dita.
Charlotte non riuscì a sottrarsi a quel tocco: era troppo stanca per riuscire a richiamare i vecchi rancori che l’avevano aiutata a tenere Almgren a debita distanza, anche se quell’uomo non aveva più molto a che vedere con l’ubriacone che aveva occupato l’ufficio accanto al suo per quasi due anni.
Come faccio a fidarmi? Loro non cambiano, non cambiano mai, gemette dentro di sé.
Ripensò al voltafaccia di Odrin, così assurdo e ingiustificato, al suo rifiuto.
Mi sto comportando come lui, pensò rattristata. Non ha voluto nemmeno fare lo sforzo di ascoltarmi, darmi una chance. E io sto facendo altrettanto con Niklas per paura di rivivere tutto un’altra volta, perché era un alcolizzato fino a poco tempo fa, proprio come…
Lui la vide roteare gli occhi, sfuggendo i suoi, e l’espressione sul suo viso tradì un malessere diverso da quello fisico. Era ciò che stava aspettando: il momento di ricominciare a farsi cautamente avanti.
«Charlotte, hai l’aria di chi sta soffrendo per un motivo. È il tuo fidanzato?»
«Sai che non c’è nessuno» ammise, senza rendersi conto che la piega della sue labbra diceva ben altro.
Dentro di sé, Niklas esultò: ora aveva la certezza di poter vestire i panni del cavaliere dall’armatura scintillante giunto a salvare la dama dopo mille tribolazioni.
«C’è qualcuno che ti infastidisce, a parte il sottoscritto?» scherzò sottovoce.
Charlotte sorrise per un istante. Era stato carino ad ammettere di far parte dei suoi problemi.
«La risposta è la stessa. Non…»
S’interruppe arrossendo. Mentre cercava di tenere a bada lo spasimante ecco che, non richiesto, si era fatto vivo il suo stomaco con voce da baritono. Scorch, passato un primo momento di perplessità, si mise a ridere.
«Allora è vero: non sono il sonno né il cuore! È la pancia!»
«Sai, l’ansia e… la fretta di arrivare… » cercò di giustificarsi, ridacchiando a sua volta.
Lo sguardo di entrambi corse al ventre dell’uomo, unitosi alle proteste.
Niklas arretrò di un passo, prendendole le mani con un gesto assolutamente innocente.
«Senti che idea. Visto quanto siamo affamati, ora ci rendiamo presentabili, lasciamo qui tutto - pratiche, disegni, conti, normative - e ce ne andiamo all’“Archituono” a far colazione come si deve. Anzi, andiamo al “Lucky PinWheel”, visto che l’ultima volta che te l’ho proposto hai rifiutato. Ci rimpinziamo per bene e mettiamo tutto in conto alla società, perché è a causa del lavoro che siamo combinati così. Ti va?»
«Va bene» disse, ricambiando appena la stretta.
La risposta era stata talmente repentina che Scorch pensò d’aver capito male o, peggio, d’averla immaginata.
«Dici davvero?»
«Sì» confermò. «Al “Lucky Pinwheel” fanno molti tipi di dolci per la colazione, potremmo prenderne anche per i ragazzi. Dopo il licenziamento di Delmar hanno bisogno di qualcosa che li tiri su».
Il trionfo di Scorch si ridusse della metà, senza svanire del tutto.
«Se questo è lo scotto da pagare… e sia, dannazione. E io che volevo fare il romantico, per una volta che avevo un’amica tutta per me» mugugnò strizzando l’occhio.
In fondo, mantenere quella breve distanza tra loro cominciava a piacergli. Gli permetteva di apprezzarla ancora di più e di lasciarsi osservare senza far scattare odiose barriere. Era un atteggiamento del tutto nuovo per lui e lo trovava appropriato alla sua ritrovata sanità mentale e fisica.
Il telettrofono squillò all’improvviso facendoli trasalire. Guardarono l’apparecchio dove un lungo tasto rettangolare era illuminato. Sopra era stato scritto a pennarello “Clay casa”.

***

Sandy lasciò che il vento le scompigliasse i capelli. Il motore della Torran si sovrapponeva alla voce calda di James Blackbow che cantava “Still our night” dal fonografo dell’ariship. Era sicura che Clay avesse scelto quel brano di proposito.

Belly to belly, eyes in the eyes
I’ll forget who you were, you’ll forget who I was
No matter what we’ve said, no matter what we did
This night it’s still our night

«Non riesco a crederci» piagnucolò, nascondendo la faccia tra le mani e battendo i piedi sul pianale come una bimba in vena di capricci.
«Donna, avevamo detto che non ne avremmo parlato o sbaglio?» ribadì lui con un sorrisetto ironico stampato in faccia.
Aspettava quel momento da quando erano partiti: sapeva che non avrebbe resistito, l’aveva capito nel momento esatto in cui l’aveva vista aprire gli occhi fra le sue braccia.
«Lo so, ma non ci riesco!» protestò, arrossendo vistosamente quando si accorse di guardarlo e provare un fremito allo stomaco. «Com’è potuto succedere?»
Clay rallentò ad un incrocio, sporgendosi un po’ oltre la plancia per controllare oltre gli spigoli dei palazzi e delle recinzioni che nascondevano le laterali. Le strade di La Roscas erano zeppe di punti ciechi, delle trappole per ogni conducente, ad ogni ora del giorno e della notte.
«Facile: i ragazzi sono dalla nonna, tu eri sola e triste, io ero solo e incazzato nero, le solite birre…» cantilenò con semplicità ripartendo. «L’allegria sale e le mutande scendono. Non è compli… ehi! Sto guidando, donna! Te ne sei accorta o stai ancora godendo?»
Sandy ritirò la mano con cui l’aveva schiaffeggiato sulla nuca fissandolo con sdegno. O forse vergogna perché, doveva ammetterlo, a dispetto della sua reazione si sentiva bene. Quando la sera prima aveva accettato di cenare con lui, aveva ripetuto alla nausea che si sarebbero comportati da adulti civili e responsabili, evitando di cadere nei soliti errori. Ovviamente aveva mandato al diavolo l’ex-marito non appena aveva tentato d’allontanarla dalla seconda birra. Ovviamente era stata lei a ridurre le distanze. Ovviamene era stata lei a cominciare a strusciarsi, ad allungare le mani, a baciare.
Perché sono così stupida? si domandò avvilita. Ci casco sempre. E lui che cercava di impedirmelo… oddio, non che si sia tirato indietro, ma ci ha provato. E io… però… Clay, perché ti voglio ancora dopo quello che hai fatto?
La resistenza del capofficina alle sue avance era durata forse una ventina di minuti. Aveva pagato il conto e se n’erano andati, sperando che l’aria fresca calmasse i bollenti spiriti. Invece, il brusco cambio di temperatura non aveva fatto altro che spingerli ad avvinghiarsi ancor di più l’una all’altro. Arrivare all’appartamento di Clayton ancora vestiti era stata un’impresa, per non parlare del riuscire a non svegliare l’intera palazzina.
«Me la cavo ancora bene?» s’informò, facendola sobbalzare e strappandola alle sue considerazioni.
«Idiota» rimbrottò, voltandosi per nascondere un risolino imbarazzato.
«Allora me la cavo molto bene» rincarò, afferrando al volo il pugno che stava per colpirlo di nuovo.
Le sorrise.
«Non eri male neanche tu, sai?» replicò, tutt’altro che sarcastico, sfiorandole la mano con le labbra. «Per fortuna avevo ancora una camicia pulita o avrei dovuto chiedere i trucchi a Iron per mascherare tutti quei succhiotti. Sembro un dalmata» scherzò.
«Sta’ zitto e guida!» protestò lei con una punta di soddisfazione nella voce.
Non gliel’avrebbe mai detto, ma quelle libbre di troppo che si portava addosso avevano avuto un effetto imprevisto sulla sua libido. Lo preferiva ora, con i muscoli ancora forti e massicci ma meno definiti, più morbidi, velati dalla carne. Le faceva venire in mente la Torran, con la sua carrozzeria morbida, solo a tratti spigolosa, plasmata per racchiudere un motore potente.
«Cosa credi che voglia quel matto, a quest’ora del mattino?» sviò per cancellare le immagini che le riaffioravano alla mente.
Avevano ricevuto una chiamata da Avelan meno di un’ora prima, che cinguettava giulivo all’altro capo del ricevitore di raggiungerlo il prima possibile, imponendo la presenza del direttivo della “Legendary Customs” al completo.
«Spero riempirmi le tasche di soldi con largo anticipo, ma non ci farei troppo affidamento» ringhiò serrando la presa sulle cloche.
Sandy si sistemò meglio sul sedile, osservandolo dubbiosa.
«Sospetti una fregatura?»
«Ne ho prese troppe in vita mia per escluderle a priori» ribatté aspro.
Pur non avendo accennato al divorzio, ebbe la netta sensazione che fosse in cima alla sua lista. Annuì, fingendo di interessarsi al loro riflesso nelle vetrine scure del quartiere.
«Per fortuna Charlotte era già in ufficio: a casa non ha il telettrofono e sinceramente non so neppure dove abiti… Non so come avremmo fatto a rintracciarla. Secondo te che ci faceva alla “Legendary” a quest’ora?» chiese l’uomo, allusivo.
Sandy accavallò le gambe, tamburellando con la punta della scarpa sulla parte inferiore della plancia.
«Non penserai che sia stata con quell’imbecille di tuo cugino, vero? Guarda che se n’è andata alle sette, è venuta in ufficio a salutarmi. Sarà stata la sua solita insonnia, sono mesi che non chiude occhio come si deve. Quella ragazza è troppo fissata con il lavoro, dovrebbe trovare qualcos’altro cui pensare, magari un hobby».
«Magari un uomo. Un tipo complicato e con un passato difficile che ha bisogno di essere tenuto in riga» ammiccò Clay accarezzandole la coscia.
La donna sorrise, posando la mano sulla sua un attimo prima di graffiarla.
«Stai. Zitto» ribadì mentre, con enorme sorpresa di Clay, lo tratteneva premendogli il palmo poco più in basso dell’anca. «E comunque, anche se fosse, di certo non ripiegherà su di lui. Charlotte ha una dignità».
Arrivarono alla “Legendary” quando mancavano una quindicina di minuti alle sette. Scorch e Charlotte stavano uscendo in quel momento dal portone. Avrebbero dovuto fermarsi a richiuderlo prima di attraversare lo spiazzo e superare il cancello.
Lomann decise che non poteva buttare via l’occasione. Doveva provarci. Calcolò a spanne quanto tempo sarebbe occorso ai due per raggiungerli: era sufficiente.
«Vorrei svegliarmi ogni giorno come oggi» mormorò intrecciando le dita con le sue. «Oppure potrei venire da voi la mattina, tanto mi alzo presto comunque, non sarebbe un peso. Potremmo fare colazione tutti insieme, porterei le brioches. E finito lì, vi carico sulla Torran e porto Bonnie e Junior a scuola, poi io e te veniamo qui o ti accompagno agli incontri come facevamo prima, e al pomeriggio vieni con me a riprendere i ragazzi e…»
S’interruppe. Sandy si era liberta dalla stretta e lo fissava. C’era un’ombra di dolcezza nel suo sguardo, dove però era semplice leggere quanto fosse offesa e amareggiata. Lo stesso sguardo di quel giorno di sette anni prima, quando era successo tutto.
«Alexandra, io… per favore. Per favore».
Lei, sentendo i passi degli altri ormai vicini, si sforzò di sorridere, aggiustandogli il colletto della camicia scompigliato dal vento.
«Non è il momento, Clay» lo zittì.

***

Avelan aveva parlato per soli cinque minuti. Un’inezia rispetto al solito fiume di parole. Poche frasi, secche e precise, chiarissime. Nessuno se ne capacitava.
E ancor più sconcertante era Goundoulakis, vestito di tutto punto e sorridente come suo solito, presente attraverso un dinamoschermo. I suoi occhi scuri trapassavano l’etere e la lastra di vetro, quasi fosse realmente fra loro.
Sandy scosse il capo, strabuzzando gli occhi.
«Puoi ripetere, Ostap?»
Il magnate giunse le mani e vi poggiò il mento, rivolgendole uno sguardo sognante.
«Abbiamo bisogno di un’airship da corsa o Gunner non verrà. È la sua sola condizione» ripeté.
Clay e Niklas erano impietriti sulle poltrone. Il primo stringeva i braccioli, mente e voce azzerati, impreparato a una proposta del genere. Considerati la mole di arretrati, gli abituali imprevisti, i prossimi arrivi delle vecchie glorie da restaurare, l’organico snervato e mancante di un membro, non era davvero la notizia che si aspettava di udire. Il secondo tremava e sudava freddo. Aveva l’espressione sconcertata di chi vede i proprio sogni concretizzarsi nel momento sbagliato per goderne: era intimamente convinto che quell’idea assurda fosse germinata dagli schizzi che teneva stupidamente in vista sulla scrivania e che Avelan aveva visto, un’imbeccata da inconsapevole maestro. Lanciò uno sguardo a PigTail che, in piedi accanto al russo, fungeva da osservatore per conto del proprio capo. Questi rispose incurvando appena l’angolo destro della bocca, in una smorfia che non sapeva di sorriso né di malignità.
«Signor Avelan, signor Goundoulakis» iniziò Charlotte, spezzando con tono professionale il silenzio che aleggiava nello studio. «Avete un’idea delle tempistiche che un’operazione simile richieda? Non mi riferisco unicamente alla costruzione del mezzo, che di per sé risulta comunque impegnativa, ma anche alla sua certificazione da parte del Dipartimento per…»
«Signorina Vernet,» intervenne pacifico Aris dallo schermo, «non si agiti, la prego. Abbiamo convenuto di offrirle tutta l’assistenza giuridica possibile attraverso il signor Hammond».
La segretaria posò lo sguardo su Thomas, sentendosi a disagio. Aveva l’impressione che l’offerta celasse una sorta di condanna.
«Ma le richieste hanno tempi di evasione molto lunghi e possono essere effettuate solo a mezzo completato» obbiettò.
«Non preoccuparti. Lascia fare al mio ragazzo, lui conosce bene il sistema» ribatté Ostap, lisciandosi la barba sulle guance tonde.
Nel frattempo, i due cugini avevano continuato a scambiarsi occhiate e sillabe sconnesse, che poco alla volta erano passate dall’incredulo al timoroso per sfociare in una crescente esaltazione. I loro sogni, le speranze di bambini e tecnici, l’occasione di lasciare un segno tangibile nel mondo delle airship, la possibilità di dare una svolta vera al destino della “Legendary Customs” e renderla realmente una leggenda: era tutto lì, nelle loro mani, in una decisione tanto semplice quanto ardua. Una parola. Solo una parola. Da pronunciare di comune accordo affinché il piede del destino abbassasse il pedale dell’acceleratore, sospingendo l’aeromobile che ospitava le loro vite - e quelle dei ragazzi - verso la gloria o la disfatta.
«Dunque la vostra decisione è…» li sollecitò Avelan, pur certo della risposta che avrebbe udito.
«Accettiamo!» esultarono all’unisono.
Sandy si allungò scomposta sulla poltrona e prese per mano l’amica, che la guardò sorpresa.
«Charlotte, siamo in un mare di guai».


Writer's Corner
Di nuovo in ritardo, ma spero vi siate accorti che nel mezzo non c'è stato il nulla assoluto ma una nuova storia nella sezione "Licantropi". Se volete darle un'occhiata, è "I morsi della paura".
Grazie come sempre a tutti i lettori e recensori: Shade Owl, pheiyu, Wild_Demigods, Akainu magma, blood_mary95, maddampini, Ernesto507, LibertyStyle, Heven Elphas, tortuga1, vita17, TheWhiteDoll, AleGritti92, VersoLUniverso, John Spangler, Aurelianus, windshade, MorphineJ, Niki12, Nana Punk e Mizzy.
   
 
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