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Autore: Patta97    31/03/2014    2 recensioni
E se esistessero delle persone che, leggendo, possano portare alla vita i personaggi che vivono fra le pagine di un libro? E se, in cambio, il libro si prendesse qualcuno dal nostro, di mondo?
- Hai visto la mia martora?
John non capì subito la domanda, era troppo preso dal registrare il fiato caldo sul suo viso e quelli che sembravano soffici capelli che gli sfioravano la fronte.

Note: Inkheart!AU, child!John, teen!lock
Genere: Fluff, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Ciao e scusatemi nuovamente per il ritardo!
In questo capitolo si conoscerà qualche personaggio in più, ma non ho nessuna particolare nota da fare. Buona lettura, se vi andrà!
Chiara












La città era costruita su una collina e le mura erano altissime e merlate, senza neanche un pertugio fra una pietra squadrata e l’altra. Delle sentinelle passeggiavano annoiate lungo il bordo, affacciandosi di tanto in tanto, e accanto all’enorme cancello d’entrata c’erano un ragazzino che scribacchiava concitato appoggiato a uno sgabello ed un uomo grassoccio con in mano una lunghissima pergamena.
Prima che arrivasse il loro turno per entrare al villaggio, John e Sherlock avrebbero dovuto aspettare che una lunga fila indiana di contadini, famiglie e fattori con carri e buoi passassero sotto una lenta ispezione.
John trattenne a stento uno sbuffo: era davvero impaziente di vedere se la città somigliasse a quelle medievali che aveva studiato in storia qualche mese prima.
Ma Sherlock lo tirò per una manica, passando spedito e a testa alta accanto alla fila, sordo ed insofferente alle proteste di chi stavano superando. John, arrossendo, evitò il contatto visivo con chiunque e tenne la testa bassa.
 
- Mike – salutò Sherlock non appena arrivarono al cospetto dell’uomo grassoccio il quale - John notò adesso – era più giovane di quanto potesse sembrare da lontano e portava un paio di occhiali dalle lenti tonde come il suo viso.
 
- Buongiorno a te, Sherlock. Avresti potuto rispettare il tuo turno – lo rimproverò bonariamente l’altro.
 
- Noioso.
 
Mike si limitò ad un sospiro. – E il tuo amico…?
 
- Lui è John. L’ho trovato.
 
- Uh, naturale. Passate pure e cerca di non cacciarti nei guai.
 
- Buon pomeriggio – fu la risposta di Sherlock mentre proseguiva dentro la città, trascinandosi dietro John.
Si accorsero appena del minuto scribacchino che, inginocchiato com’era sul suo sgabello, pigolò un ‘ciao, Sherlock’.
 
*
 
La città non era come John se l’era spettata: era meglio.
Tutto intorno a loro era colori, odori, rumori e voci.
Le casette e le botteghe erano ordinate ai lati delle strade lastricate leggermente in salita, tutte distribuite a raggi intorno a quella che doveva essere la sommità della collina, dove sorgeva il mastodontico, aguzzo e levigato castello in pietra nera.
Il naso di John venne attirato dal familiare, buon odore del pane appena sfornato e il suo stomaco brontolò, facendogli sentire quanto fosse affamato. Non ne fece parola con Sherlock, il quale marciava sicuro di sé fra i vari vicoli e stradine, fermandosi ogni tanto per controllare che John lo stesse seguendo.
Delle giovani e dei bambini ogni tanto si fermavano ad additare ridendo lo strambo ragazzino in pigiama che si accompagnava a un Dita di Polvere. Se lo avessero fatto dei suoi compagni di classe magari a John sarebbe importato di più, ma al momento era troppo occupato a dispiacersi per non poter vedere, ascoltare, sentire di più.
Improvvisamente Sherlock imboccò un vicolo cieco e saltò su delle casse di legno addossate al muro di una bottega, impilate a mo’ di scala, iniziando ad arrampicarsi fino al tetto. Non appena arrivò in cima, fece un mezzo sorriso esasperato a John, il quale lo guardava con la bocca semi aperta.
 
- Andiamo, John.
 
Il bambino si rimboccò le maniche del pigiama e scalò a sua volta, molto più lentamente e con molta meno agilità.
Sherlock lo aiutò a scavalcare la grondaia e gli tenne la mano per non farlo scivolare sulle tegole rossicce del tetto; entrarono da un finestra aperta in quello che sembrava un ripostiglio piuttosto disordinato.
John crollò sul pavimento di legno, stanco ed affamato.
 
- Cosa dobbiamo fare qui? – chiese.
 
Sherlock scomparve dietro ad una porta, chiudendosela alle spalle, per poi riuscirne con sottobraccio quelli che sembravano dei vestiti puliti.
 
- Stai rubando dei vestiti? – John si fece più sbigottito quando l’altro gli lanciò il groviglio di stoffe.
 
- Non essere ridicolo, John. È casa mia.
 
Il bambino arrossì e, non appena Sherlock si voltò apparentemente impegnato a cercare qualcosa, si mise in piedi e, spogliatosi dal pigiama, indossò i vestiti che gli erano stati assegnati: camicia bianca, gilet beige e pantaloni marroni al ginocchio. Era tutto un po’ troppo grande per lui, ma fece delle svolte come gli aveva insegnato sua mamma. C’era anche un berretto di velluto marrone e, dopo un attimo di esitazione, infilò pure quello.
Fissò i propri piedi nudi e sporchi di terra.
 
- Grazi mille, ma… Ho bisogno delle scarpe.
 
Sherlock si girò a guardarlo come soddisfatto del proprio lavoro. - A quelle penseremo dopo. Non ne ho della tua misura.
 
- E non hai bisogno di questi vestiti?
 
- Quelli servono per quando mi travesto.
 
- Perché dovresti travestirti?
 
- Perché in certi casi vorrei che la gente non mi riconoscesse – rispose Sherlock, come insultato dall’ovvietà della domanda.
 
- Ma non vieni sempre riconosciuto…? – domandò John, facendo un cenno col mento ai guanti neri dell’altro.
 
- Questi li dovrei portare per legge e per integrità morale ed entrambe possono essere parecchio… flessibili.
 
John pensò che forse non era quel che si poteva definire un ragionamento corretto, ma non lo disse.
Si prese invece un attimo per guardarsi attorno nella piccola e caotica stanza, rendendosi conto che più che un ripostiglio, quello era un salotto adibito a magazzino di oggetti.
C’erano libri polverosi, provette con liquidi strani e barattoli con dentro anfibi in salamoia. E poi fogli con sopra disegni molto realistici o scritti in una calligrafia stretta e disordinata, impilati sui tavoli ed appesi alle pareti dalla discutibile carta da parati. Su uno scaffale, John avvistò persino un teschio dal benevolo quanto inquietante ghigno.
 
- Se è casa tua… perché siamo entrati dalla finestra? – domandò infine.
 
Fu il turno di Sherlock per arrossire e deglutire rumorosamente. – Alla porta c’erano persone che non volevo esattamente incontrare.
 
John aprì la bocca per chiedere altre informazioni, curioso, quando la porta del salotto si spalancò ed entrarono delle guardie. Delle guardie vere, con spada alla cintola, lancia alla mano, elmo in testa e il luccicare di una cotta di maglia sotto la camicia nera; avevano ricamato sul petto lo stemma di un gufo argentato.
Seguì un uomo privo di elmo e lancia, ma dal passo indietro che fecero le guardie, John intuì che era il loro capo. Aveva i capelli argentati come lo stemma che portava sul petto ed un’aria calma ma decisa.
 
- Sherlock, devi venire con me – esordì l’uomo, la voce più giovane e calda del previsto.
 
- Non posso – rispose il ragazzo, facendosi più vicino a John e lanciandogli un’occhiata.
 
- Perché non p… E lui chi è?
 
- È con me. Ed ho da fare.
 
- I tuoi impegni possono attendere se il Re ti convoca al castello.
 
- Le convocazioni del Re possono attendere se ho degli impegni.
 
Le guardie fecero un passo avanti, ma il capo li fece retrocedere con un movimento della mano.
- Sherlock, ti prego.
 
- Mi dispiace ma… - Sherlock afferrò John per una manica e lo spinse verso la finestra, camminando piano all’indietro - …devo davvero scappare.
I due scavalcarono nuovamente la finestra e si affrettarono sulle tegole.
John udì distintamente il sospiro del capo delle guardie e il suo esasperato ‘acciuffateli’.
 
*
 
Corsero per quelle che a John parvero ore, su per i tetti e poi di nuovo giù tra le persone indaffarate, di lato fra i vicoli e arrampicandosi sopra i muretti.
John, col fiato corto e la testa che girava, si voltò per controllare se avessero seminato le guardie e, quando fece per riprendere a correre, Sherlock non era più lì. Andò nel panico.
 
- Sherlock? Sherlock, dove sei?! Sherlock! Sher…!
Qualcuno lo tirò per un braccio dentro una casa e richiuse la porta, svelto, tappandogli la bocca con una mano.
John tentò di protestare, finché non si rese conto che era proprio il suo amico.
La mano guantata venne rimossa.
 
- Dove siamo? – bisbigliò John nella penombra: sembrava un’enorme stanzone. – Non è una casa?
 
- È solo la facciata di una casa.
 
- Chi ci vive? – c’erano materassi e mucchi di paglia sul pavimento di pietra.
 
- Al momento nessuno – era la voce del capo delle guardie, il quale sbucò dall’ombra sembrando stanco neanche la metà di Sherlock o John, accompagnato da due soldati.
 
- Come…? – chiese Sherlock, stupito.
 
- Ti conosco da quando sei nato, Sherlock. Davvero credi che non ti conosca almeno un pochino?  
 
- Dove sono i bambini che abitano qui? – c’era un velo di preoccupazione nella sua voce.
 
- Ci siamo premurati di fare molto rumore prima di entrare e si sono dileguati tutti. Non mi interessa arrestare quel gruppo di ladruncoli dei tuoi amici. Allora, Sherlock: vieni con me?
 
John era allarmato, ma il ragazzo sospirò drammaticamente.
- E va bene. Cosa vuole stavolta?
 
- Hai saltato la vostra visita settimanale, stamattina. Era preoccupato, come sempre.
 
- Come ho detto, avevo da fare. Portami da lui, così mi toglierò questo peso dalle spalle – il tono di Sherlock era sempre più annoiato.
 
Mentre uscivano scortati dalle tre guardie, John si avvicinò al suo compagno.
- Perché hai un incontro settimanale con il Re? – mormorò in modo che solo l’altro potesse sentirlo.
 
- Perché è mio fratello – si sforzò di dire Sherlock, proseguendo a camminare, impassibile e leggermente infastidito.
 
John si bloccò un attimo, stranito, per poi continuare a trotterellargli dietro.
  
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