I – Il Mago
Regina del passato e del futuro
Quartiere
Latino, Parigi. 16 Luglio 2011.
Aveva perso il
conto dei giorni di viaggio, sapeva solo che era stanca della carrozza, della
strada accidentata e del continuo vociare della scorta. Scoccò uno sguardo malevolo
allo sportello in legno scuro quando sentì un commento volgare da parte di una
guardia. Parole simili le davano fastidio.
– Maestà? – con
un sospiro, si voltò verso la sua dama di compagnia e le fece un sorriso
tirato.
– Dimmi pure,
Laira. – aveva chiesto spesso a Laira, la sua unica amica, di non rivolgersi a
lei come ‘maestà’ ma solo con il suo nome. Quell’appellativo non le
apparteneva, ma le era stato affibbiato da un giorno all’altro senza che lei
potesse protestare.
– Avete l’aria
stanca, maestà. Volete che faccia fermare le guardie e faccia montare la tenda?
Scosse la testa.
Mancava poco al castello e non voleva fermarsi, almeno non fino al tramonto.
Voleva solo
uscire da quella carrozza che non la faceva respirare e godersi una cavalcata nella
foresta, ma non le era permesso. Ordini del re, dicevano. Per la sua sicurezza.
Si era chiesta
perché un re così lontano avesse fatto girare mezzo mondo ai suoi cavalieri per
trovarla e appena aveva avuto la conferma di chi fosse, l’aveva chiesta in sposa.
Lui non l’aveva mai vista in volto, ma aveva organizzato il matrimonio fin nei
minimi dettagli e aveva mandato i suoi uomini a prenderla. L’avevano fatta
salire sulla carrozza e da allora aveva potuto scendere solo per brevi pause e
per la notte.
Non si erano mai
incontrati e già lei non ne poteva più. Per mesi le aveva mandato doni e
inviato lettere, spiegandole quanto lui avesse bisogno di lei. Di quanto il suo
regno avesse bisogno di lei.
Aveva provato a
resistere a quell’assalto gentile finché aveva potuto, ma alla fine i suoi
genitori l’avevano costretta a cedere. Avrebbe sposato un re che non conosceva,
che non aveva mai visto e che non amava e tutto in nome di un sogno che non
capiva.
– Vorrei
cavalcare, Laira. – appoggiò la testa contro la parete della carrozza sentendo
gli zoccoli dei cavalli calpestare le foglie secche e i rami caduti della
foresta che stavano attraversando. – Vorrei sentire il vento tra i capelli, ne
ho bisogno.
Il viso di Laira
perse colore e le sue mani tremarono. – Mi dispiace, maestà, ma sapete, gli
ordini… – chiuse la bocca, non sapendo come continuare. Laira non voleva
ferirla, ma non voleva nemmeno contraddire gli ordini del re e dei suoi
genitori.
– Non importa. –
disse lei infine. – Riuscirò a sopravvivere lo stesso.
– Una volta al
castello potrete fare quello che volete. Lo sapete. – cercò di incoraggiarla,
ma le sembrarono parole di cortesia. – Vuole solo tenervi al sicuro.
Represse una
risata amara. Da cosa, doveva tenerla al
sicuro?
Le mani di Laira
coprirono le sue e un piacevole tepore si diffuse lungo le dita. – Avete le
mani congelate, mia signora. – un altro appellativo che detestava. Perché non
la chiamava più per nome? Possibile che una sola proposta avesse cambiato le
cose in maniera così radicale?
– Ho bisogno di
luce, Laira. Sole. Sentirne il calore sul volto. Per quanto apprezzi i tuoi
poteri sul fuoco, questa carrozza mi opprime. – la sua dama annuì e batté contro
il tetto della carrozza con una mano per farla fermare. Aprì lo sportello per
parlare con le guardie e il conducente. – La nostra signora ha bisogno di
riposo.
Aveva bisogno di
un cavallo e di fuggire, veramente.
Un cavaliere
aiutò Laira a scendere e poi le porse la mano. – Permettetemi di aiutarla,
maestà. – lo avrebbe scacciato e sarebbe saltata giù da sola, ma gli
insegnamenti di sua madre la fermarono. Accettò la mano dell’uomo, ma mentre
scendeva non le sfuggì la spada al fianco sinistro, si intravedeva appena sotto
il mantello rosso su cui spiccava un dragone dorato. L’uomo indossava l’armatura
completa, lasciando solo il viso e i capelli biondi allo scoperto. Tutti gli
altri uomini indossavano l’abbigliamento completo da battaglia e le venne un
brivido.
– Vi ringrazio per l’aiuto.
– Vi faccio
montare la tenda. – proseguì lui.
Scosse la testa,
guardandolo negli occhi verdi. Erano sinceri, buoni. Forse lui l’avrebbe
capita. – Avrei bisogno di passeggiare. Sono stata seduta troppo tempo e ho le
gambe rigide e fredde. – il cavaliere guardò i suoi uomini e infine annuì.
– Come volete, ma
avrete bisogno di una scorta. – con pochi gesti sbrigativi ordinò a un paio di guardie
di seguirli mantenendo una certa distanza mentre camminava accanto a lei con
una mano sulla spada.
– Siete molto
cauto. – commentò inoltrandosi nel bosco. – Cosa temete?
– Pur essendo in
pace, il regno ha molti nemici. – rispose lui mantenendosi sul vago. – Nemici
che rapirebbero volentieri la nostra futura regina.
Regina.
Non si sentiva
affatto una regina, ma una bambina spaurita in un mondo che non conosceva. Fu
quasi tentata di dirglielo, il cavaliere le ispirava fiducia e aveva bisogno di
parlare con qualcuno che non fosse Laira. La sua dama era così fedele al re e ai suoi
genitori che non la ascoltava più e sminuiva quello che aveva da dire. Alla
fine lei aveva smesso di confidarsi e aveva iniziato a tenere tutto dentro. – Vorrei cavalcare. – disse sentendo
che il vento e il calore del sole le davano nuova vita. – Vorrei cavalcare fino
al castello.
Lui scosse la
testa con un sorriso gentile, ma fermo. – Anche se siamo dentro i confini del
regno, potrebbero esserci lo stesso dei briganti.
Camminarono nel bosco
senza scambiarsi altre parole. Lei con il suo abito verde che strusciava sulle
foglie e sull’erba mettendo in allerta gli animali. Lui con il passo leggero,
di chi è abituato alla guerra e alla caccia.
– Il re, – iniziò
l’argomento che le premeva torcendosi le mani. – che tipo di persona è? – non lo aveva mai chiesto a nessuno e ora che
erano vicini al castello sentiva il bisogno di prepararsi.
– Voi che tipo di
persona pensate che sia? – non si era aspettata un’altra domanda, ma che
venisse rassicurata e il re messo sotto la luce migliore. Che un uomo le
chiedesse la sua opinione era strano, eppure piacevole. – Sentitevi libera di
parlare, mia signora. – la incoraggiò. – Se tenete la voce bassa, i miei uomini
non vi sentiranno.
– E di voi?
Potrei mai fidarmi di voi?
– Non una parola
di quel che direte uscirà dalle mie labbra, ve lo giuro su Dio.
Annuì,
affidandosi a quel giuramento. Quell’uomo non poteva essere uno spergiuro. – Io
non lo sopporto. – si sfogò, prendendosi la gonna tra le mani. – Ho letto le
sue lettere, ho visto i suoi regali. Altisonanti e pomposi. Non me ne faccio
nulla. Come posso amare un uomo del genere?
– I matrimoni non
sempre avvengono per amore. – le diede la stessa risposta di sua madre quando
lei cercò di spiegare cosa provava.
– Allora, –
proseguì. – come posso avere una convivenza pacifica con un uomo che come mi ha
in suo possesso mi mette le catene?
Il cavaliere alzò
un sopracciglio guardandole i polsi. – Non fraintendetemi. – precisò. – Forse
non saranno ceppi di ferro, ma impone la sua autorità e il suo potere. È un
tiranno! – l’ultima parola le sfuggì dalle labbra e temette di essersi attirata
le ire dell’uomo, ma contro ogni aspettativa scoppiò a ridere e le porse il
braccio. – Avete una lingua tagliente e onesta, mia signora. Una ventata di
aria fresca per il regno. Venite, qui vicino c’è un fiume. Potrete riposarvi
là.
Si ritrasse,
sospettando che l’uomo volesse ucciderla, ma lui continuò a ridere a
intermittenza. – Non vi farò del male. Ho giurato che vi avrei protetta. Il mio
re vi vuole al suo castello e io vi ci condurrò.
Si strinse al suo
braccio. Qualcosa le diceva di aver fiducia in lui. Lo aveva osservato con i
suoi uomini attorno al fuoco, prima che si ritirasse per la notte, e aveva
notato come li chiamasse per nome mentre ne ascoltava i problemi e i dubbi.
Aveva sempre avuto una parola di incoraggiamento e di lode quando loro si
abbattevano. Quello doveva essere il comportamento di un vero condottiero e si
era guadagnato il rispetto e l’amore dei propri uomini.
Si sedette vicino
al fiume con un tetto di foglie sopra testa a riparlare la pelle bianca dalla
luce e si sentì rinfrancata dallo scrosciare allegro dell’acqua accanto. Il
cavaliere era al suo fianco che si guardava intorno senza mai smettere di
tenere la mano sulla spada.
Lei, d’altro
canto, intrecciava fiori per farne una corona da regalare a Laira mentre
canticchiava a bassa voce. – Avete sempre l’aria preoccupata e tesa. – disse
senza alzare la testa.
– Fanciulla, – a
quella parola le guance le divennero calde – sono molte le cose di cui devo
preoccuparmi.
– Ora, – chiese
lei. Non sapeva se ridere o sentirsi offesa per la libertà che lui si era preso
– sarei una fanciulla?
Lui si avvicinò,
trafiggendola con quegli occhi colore
dell’erba. – Sì. Siete una fanciulla. – le sistemò un fiore tra i capelli
biondi appena sopra l’orecchio. – Delicata come un fiore e altrettanto fragile.
Una mano corse al
fiore tra i capelli e se lo tolse. – Mi dispiace, – disse mettendoglielo sul
palmo – siete un uomo gentile, ma se siete leale al vostro re non dovreste
prendervi libertà del genere. – E se lei doveva per forza sposarlo, si sarebbe
sforzata cominciando nel migliore dei modi.
Il cavaliere fece
due passi indietro, riprendendosi il suo regalo. – Ai vostri ordini, mia
signora. – non era freddo, anzi, era cordiale come prima e il sorriso non
smetteva di illuminargli il volto.
Si alzò,
raccogliendo la corona di fiori che aveva terminato e rassettò il vestito, più
tranquilla, ora che aveva fatto una passeggiata. – Vi ringrazio per avermi
portato in questa radura. Ora sarà meglio tornare indietro.
Fece in tempo a
fare una decina di passi, quando l’uomo la afferrò per la vita e la spinse a
terra. Rotolò stretta tra le sue braccia
e con la gonna che si avvolgeva intorno alle loro gambe. – Cosa state
facendo? – sbraitò. Ma lui non la ascoltava. Steso su di lei, scrutava la
foresta con l’asta di una freccia gli spuntava da una spalla. – Siete ferito!
– Maestà! – le
due guardie accorsero in loro
soccorso e lui scalciò via le gonne dell’abito rialzandosi.
– Trovate chi ha
lanciato questa freccia! – abbaiò lui. – Proveniva dall’altra sponda del fiume!
I due uomini
scattarono sull’attenti. – Agli ordini, maestà!
Era ancora
stordita per la caduta e le girava la testa, ma aveva sentito chiamare il
cavaliere ‘maestà’. Non si erano rivolti a lei. Lo guardò sottecchi, stava dritto in piedi con la spada
sguainata. Quando lei cercò di rialzarsi lui la fulminò con lo sguardo. – State
giù. Quella freccia era per voi. – lei scosse la testa e si sedette.
Aveva smesso di
essere rispettoso. Aveva smesso di trattarla con cortesia. Era freddo e con i
sensi in allerta. Il vento scuoteva gli alberi e si stavano avvicinando pesanti
nubi cariche di pioggia.
– Chi siete voi?
– domandò lei guardando il cielo riconoscendo i segni. Li aveva già visti in
passato quando sua madre si arrabbiava.
La ignorò e si strappò
la freccia dalla spalla, non doveva essere penetrata in profondità, ma sembrava
comunque una ferita dolorosa.
– Chi siete voi? – ripeté alzando i toni.
La guardò un
attimo, prima di tornare a scrutare la foresta. – Io sono Artù, re di Camelot.
Non avrei permesso a nessun altro di venirvi a prendere, Ginevra. – un fulmine
squarciò il cielo, colpendo un uomo che era appena uscito dal bosco con la
spada sguainata, riducendolo in cenere. – E finché sarete sotto la mia
protezione, nessuno vi toccherà.
Verity si svegliò di soprassalto con il fiatone. Era un sogno.
Solo un sogno, eppure sentiva su di sé lo sguardo di quell’uomo, nelle narici
l’odore di zolfo del fulmine e aveva la sensazione del grasso bruciato che le
ricopriva la pelle e si attaccava alle labbra.
Nonostante respirasse a bocca aperta, l’aria non le riempiva i polmoni.
– Un brutto sogno? – la voce maschile la fece sobbalzare come se
avesse ricevuto uno schiaffo. – Ti agitavi da un po’ e alla fine ho deciso di
allentare l’incantesimo per permetterti di svegliarti prima che i vicini
venissero a controllare quale animaletto avessi raccattato per strada. – la
figura in ombra alzò le spalle. – Sai, i miei vicini non sono abituati a sentire le donne urlare. Non me le porto qui.
Ho una reputazione da mantenere.
Batté le palpebre riconoscendo quel tono superbo. – Tu! Maledetto
stronzo!
– Educata già di prima mattina, vedo. – Michael fece un passo avanti
uscendo dall’ombra del muro. Aveva addosso una camicia con il colletto
slacciato e un paio di pantaloni neri sorretti da bretelle. Anche se lei lo
odiava e non lo sopportava, non poteva negare che con quel vestito e i capelli
scompigliati, Michael fosse uno spettacolo da togliere il fiato.
– Non meriti un briciolo della mia buona educazione! – urlò
allontanando il pensiero con forza. – Mi hai rapito!
Le sue labbra si piegarono in un sorriso. – Non ti ho rapito. Ti
ho preso in custodia fino a data da definirsi.
– Rapito! E ti farò finire il galera!
Il suo sorriso si allargò. – Mia piccola, innocente Carta di
Spade, – cominciò avvicinandosi a bordo letto, togliendosi le bretelle e
sbottonandosi la camicia. – come pensi di farmi finire in galera? – si tolse la
camicia che posò sullo schienale della sedia lì vicino, rimanendo a torso nudo.
– Ti sei data un’occhiata prima di minacciarmi?
Verity si guardò. Era seduta su un letto matrimoniale con un
lenzuolo bianco a coprirla e aveva le mani legate. Ma non era questo ad averle
fatto perdere un paio di battiti del cuore. Aveva addosso solo la biancheria
intima ed una canottiera bianca. – Cosa mi hai fatto mentre dormivo? – sibilò, ma
quando lo guardò negli occhi la rabbia si sgonfiò come un palloncino.
Per la prima volta da quando l’aveva conosciuto Michael le parve
minaccioso. Torreggiava su di lei con gli occhi azzurri ridotti a due fessure e
i pugni serrati. – Credi davvero, – scandì lentamente le parole. Sembrava che
la temperatura della stanza fosse calata di venti gradi per quanto era freddo.
– che ti abbia fatto del male? Pensi che io
sia così disperato da prendermi una donna mentre dorme? L’unica cosa che ho
fatto, ragazzina, – aggiunse calando su di lei. – è stato cambiarti in modo che
non dormissi con gli abiti dell’altro ieri.
Uno spiacevole senso di colpa la pungolò, incitandola a scusarsi
prima di ricordarsi cosa avesse fatto Michael. – Se non mi avessi rapita, non
avresti dovuto cambiarmi. – ribatté senza guardarlo negli occhi.
– Se non ti avessi preso in custodia, saresti morta. Sbandieri a
tutti i tuoi poteri. Non ne hai il controllo. È troppo facile riconoscerti. –
la rabbia la avvolse di nuovo come un manto e un vento gelido percorse la
stanza, come se volesse dimostrare che Michael aveva ragione.
– Visto? Non hai alcun controllo. – sottolineò lui. – Comunque, scatenati
non c’è nulla a cui tenga qui dentro. Ma prima di sfogare la frustrazione, da brava
donna sessualmente repressa, vuoi fare colazione?
Quel repentino cambio di argomento la prese in contropiede e Michael
ne approfittò per tornare al tavolo quadrato davanti cucinino e Verity si rese
conto di dove si trovasse. Quel ragazzo strafottente viveva in un monolocale
ben arredato e curato. Il letto aveva lenzuola bianche che profumavano di
sapone di Marsiglia ed esaltavano la cornice e i comodini neri. Il resto
dell’ambiente era come quel letto. I mobiletti scuri con i vetri fumé incastrati
sotto le finestre con infissi bianchi. Perfino la cucina era bianca con
maniglie nere. E aleggiava l’aria di una pulizia e di un ordine quasi
maniacale.
– Finito di studiare l’appartamento? – chiese Michael con un
vassoio tra le mani. Lo mise sul materasso accanto a Verity e prese in mano un
bicchiere di carta. – Non amo che la gente mangi a letto, soprattutto nel mio, ma
con te sarò buono e farò un eccezione. Quindi, non fare briciole.
Lei guardò la brioche e il bicchiere come quello di Michael,
cercando di comprendere cosa le avesse detto. Anche mentre la invitava a
mangiare riusciva a essere offensivo, ma la colazione avevano un’aria invitante
e lei era affamata.
Mosse i polsi cercando di allentare la cintura che li stringeva. –
Mi hai legata. – disse fredda. – Come pensi che possa mangiare e riempirti il
letto di briciole con le mani legate?
– Ho solo legato i polsi, – spiegò prima di bere un lungo sorso. –
hai ancora l’uso dell’articolazione dei gomiti, ma se vuoi, – lo sguardo corse lungo il suo corpo fino a fermarsi
alle coppe del reggiseno che si intravedevano sotto la canottiera. – Posso imboccarti,
bocca a bocca. O se preferisci posso metterti le manette, così sei più libera.
Ne ho di carine: rosa con i cuscinetti morbidi.
Verity deglutì sotto lo sguardo predatore di Michael. Non le
piaceva come la guardava e a cosa alludeva. – Usi veramente le manette? – non
voleva avere una risposta, ma aveva bisogno di impegnare la mente.
Alzò le spalle. – E se anche fosse? Non ho mai fatto nulla che una
ragazza non volesse. Mi hanno anche pregato. Per cui sì, ho usato anche le
manette, ma non qui. Non amo ripetermi, quindi non dimenticarlo: non porto
ragazze a casa mia.
Senza voler approfondire di più il discorso, prese il suo bicchiere.
Bevve appena un sorso con il profumo della brioche che la stava torturando. Per
poco non si fece andare la bevanda di traverso. – Ma che schifo è?
– Un caffè.
– No! Io vengo dall’Italia. – disse guardando il bicchiere. Il
gusto era terrificante. – Lì fanno il caffè. Nero, molto forte e aromatico.
Questo è… – si bloccò cercando la parola giusta. – è acqua al vago aroma di
caffè! Vuoi avvelenarmi? – Michael si prese tutto il tempo di prenderle la
tazza dalle mani e spostare il vassoio sul pavimento. Si muoveva con lentezza
esasperante, come se fosse la cosa più naturale del mondo avere una ragazza
legata sul suo letto che stava per farsi andare un caffè di traverso. – Non ti
piace il caffè americano? – domandò sedendosi accanto a lei.
Se avesse potuto avrebbe incrociato le braccia al petto, ma si
limitò a sbuffare. – I fondi di caffè passati in una moka italiana hanno più
gusto di questo schifo.
– Peccato che non troverai altro che caffè americano qui. – le
afferrò i polsi con una mano e ricaddero entrambi sul letto con lui a
cavalcioni sopra di lei. – Cioè, ti potrei procurare un espresso, Verity, ma
qui tutto ha un prezzo.
Le passò una mano sul ventre e lei represse un brivido di
disgusto. – Non osare toccarmi!
Le sfiorò la guancia con il naso ignorandola. – Perché fai tanto
la difficile? Non c’è niente di male in un po’ di divertimento. Siamo adulti e
vaccinati.
Odiava sentirselo addosso, odiava tutto di lui. Il suo modo
rassicurante di parlare. Il modo con cui gestiva la situazione in maniera distaccata,
senza sentimenti. Alessio l’aveva accarezzata in quei punti, l’aveva toccata
con dolcezza quasi tutte le sere da quando era andata a vivere con lui. Avevano
fatto l’amore ogni volta che era possibile, anche mentre litigavano. C’era
sempre qualche sentimento che la legava ad Ale, ma Michael... Michael le faceva
ribrezzo perché era glaciale. La stuzzicava nei punti in cui era più sensibile
e si godeva l’effetto, ma era lontano con la mente, assente. Non aveva mai
odiato tanto una persona.
Come Michael avvicinò di nuovo il viso al suo, Verity gli tirò una
testata al volto e le si appannò la vista. Non aveva mai capito l’espressione
‘vedere le stelle’, ma davanti ai suoi occhi si accesero tante lucine colorate.
Mentre cercava di recuperare l’uso della vista, sentì l’acqua scorrere poco
lontano da lei. Nonostante fosse sfocato e la testa le pulsava, vide Michael tamponarsi
il viso con un asciugamano. – Ringrazia il cielo che guarisco in fretta. Mi hai
rotto il naso. – gettò l’asciugamano sporco di sangue a terra e notò che il
gonfiore e il livido sparivano lasciando il posto a un naso integro.
Un naso perfetto, su un viso perfetto.
Era un invito a spaccarglielo di nuovo se Michael si fosse
avvicinato come prima. Verity ringhiò, retrocedendo sul materasso. – Non osare
toccarmi di nuovo.
– Hai l’aria stordita. Non sei ancora guarita del tutto? Era solo
una botta. – lo guardò senza capire e il sorriso di Michael lampeggiò di nuovo.
– Da quanto sei un Arcano, Verity?
– Non sono affari tuoi!
– Oh sì, che sono affari miei! La regola vuole che io ti uccida.
Il motivo per cui sei qui è questo: avere informazioni da te, divertirmi e poi
farti diventare una Carta del mio mazzo. A dir la verità potevo fare le cose
anche in ordine inverso, ma preferisco avere le informazioni senza sentire il
servilismo nella voce che hanno le carte. Se posso lo dire, te la sei giocata
bene. Mi hai rotto il naso e mi hai
sporcato le lenzuola cambiate ieri, non me lo aspettavo.
Verity si strattonò di nuovo i polsi cercando di liberarsi. Non
poteva morire per mano di quel ragazzo meschino. Aveva una persona da
vendicare. L’immagine del corpo senza vita di Alessio le balenò davanti agli
occhi e con esso anche il biglietto che aveva trovato.
La sua rabbia esplose e un vento gelido invase la stanza
distruggendo le finestre e rovesciando le sedie. Se prima aveva avuto la
sensazione che la stanza si fosse raffreddata, ora la temperatura era scesa
sottozero. La cintura che la teneva legata di congelò e le la strappò via. –
Perché per arrivare a me hai coinvolto Alessio? Perché l’hai ucciso? E chi è
Atlaeia? – urlava per sovrastare quel vento ghiacciato.
Michael rimase immobile a braccia incrociate guardando il suo mobilio
che si copriva di brina. – Verity, calmati.
– il vento si bloccò di colpo e il fiume dei suoi sentimenti si prosciugò come
se qualcuno avesse costruito una diga. Li sentiva in un recesso della mente, ma
non riusciva a raggiungerli. – Che mi hai fatto? – gridò sentendosi impotente.
Lui si massaggiò le tempie e poi la guardò con gli occhi azzurri
brillavano di rinnovato interesse. – Hai detto Atlaeia?
– Perché hai ucciso Alessio? – ribeccò lei, cercando di
raggiungere nuovamente la sua rabbia.
– Non so chi sia questo Alessio. Mi interessa Atlaeia, chi è? Quel nome non mi è nuovo.
Scosse la testa. – Io lo sto chiedendo a te! Tu e quel dannato
biglietto che mi invitava a Parigi! Ora sono qui! – si liberò delle lenzuola
con un calcio e si mise in piedi sul materasso. – Perché per arrivare a me hai
dovuto uccidere il mio ragazzo? Non ti bastava mia madre?
Per la prima volta da quando si erano conosciuti, Michael era
sconcertato. – Il tuo ragazzo è morto? Era come noi? Un Arcano?
Il dubbio le accese un campanello in testa, ma lei si rifiutò di dargli
retta, sicura di avere davanti il responsabile della morte di Alessio. –
Dovresti saperlo bene visto che gli hai sparato al petto.
Lui si grattò l’accenno di peluria sul mento camminando avanti e
indietro. – Fammi capire: il tuo ragazzo è morto e un biglietto ti ha condotto
qui a Parigi? E tu dove eri? In Italia?
– A Roma. – precisò.
– Beh, – disse Michael con un sorriso infilando le mani in tasca.
– Questo mi scagiona. Io non sono mai stato a Roma.
– Bugie. – sussurrò lei minacciosa. Non gli avrebbe mai creduto.
Mai.
– Te lo potrei anche provare, quando è successo?
Scosse la testa, rifiutando di ascoltare lui e quella parte di lei
che le diceva di calmarsi e ascoltarlo. – Cazzate! Ridammi i miei poteri!
– Verity, rispondi.
Di nuovo, sentì una strana pressione dentro di sé. Prendeva
possesso di una parte di lei costringendola ad obbedire. – Tre mesi fa.
Dovresti saperlo. – rispose controvoglia.
Michael rise talmente tanto forte che Verity saltò giù dal letto
per tirargli un calcio, ma lui le
afferrò la caviglia. – Sai dove ero tre mesi fa? In Russia. A rubare una croce
bizantina ad un collezionista. Vuoi le prove? Cerca su internet. Accendi la tv.
Ieri ho rubato il diamante sulla Torre Eiffel. Io sono il migliore di tutti,
Verity. Mi cercano per i furti impossibili. Due mesi fa ero a Monaco a derubare
una delle banche con il miglior sistema di sicurezza d’Europa. Ero occupato a
progettare i miei lavori e non potevo pensare al tuo fidanzatino. E poi, io torno
a Parigi per pochi giorni al mese. E non per incontrare un donna cocciuta come
te. – strinse la presa sulla caviglia mentre le sorrideva. – Ora, dimmi di
Atlaeia. Lei mi interessa.
– Non so nulla di Atlaeia! – Michael mollò il suo piede e la
afferrò per le braccia, stringendo fino a strapparle un grido di dolore.
– Dimmi di lei! – ordinò.
La sua voce le pressava la testa tanto da stordirla. Era sia dentro che fuori.
– Non so nulla! Il suo nome era su un biglietto accanto al corpo
di Alessio. – il ricordo tornò più vivido che mai e ricacciò indietro le
lacrime. Il corpo di Alessio era ancora caldo quando lo aveva trovato e lei gli
aveva chiuso gli occhi prima vedere il bigliettino e chiamare la polizia. Non
lo aveva mostrato alle autorità, ma lo aveva tenuto per sé con un angolo del
pezzo di carta macchiato del sangue del ragazzo che amava.
La presa sulle braccia si allentò, ma non la lasciò andare
tenendola inchiodata contro il muro. L’espressione di Michael si addolcì. – Non
piangere. – le sussurrò. Anche se non era un ordine, lei si fermò. Era la prima
volta che le parlava in quel modo, quasi gli importasse di non vederla stare
male. Si rilassò contro il muro, stremata dal dolore, forte come una pugnalata.
Le mani di Michael scesero fino a chiudersi sui polsi. – Da quanto tempo sei un Arcano? – chiese. C’era la stessa forza che
l’aveva costretta a rispondere, ma i toni erano più calmi, quasi gentili.
– Circa sei mesi.
– Chi lo era prima di te?
Un angolo della sua mente si chiese perché dovesse rispondere a
quell’interrogatorio, ma la sua bocca parlò staccandosi dal cervello. Voleva
solo rispondergli. – Mia madre.
– Chi sei?
– Verity Jensen. – non aveva più forze per opporsi. Voleva solo
chiudere gli occhi e sperare di non sognare. Non voleva farlo mai più. Gli
incubi si alternavano a sogni impossibili su Alessio.
Michael alzò gli occhi al cielo, prima di ridurre ancora di più lo
spazio tra di loro. Sembrava fosse pronto a prenderla nel caso lei non
riuscisse più a reggersi in piedi. – Chi
sei come Arcano? – la incitò.
– La Regina di Spade. – Michael la lasciò andare. La pressione sul
suo cervello sparì lasciandola svuotata e il sonno sparì come era arrivato. Le girava
la testa e sentiva lo stomaco pesante come se dovesse vomitare.
– Sei la Regina di Spade? Tra tutti sei… – Verity non sentì le ultime parole di Michael, perché in quel momento la porta d’ingresso venne scardinata con un violento calcio e sbatté contro il muro coprendo i due ragazzi di intonaco e calcinacci.
___________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________NdA: Ormai aggiornare sta divendando una specie di miracolo, ma sono sempre felice di farlo. Vorrei aggiornare più in fretta (e scrivere 2-3 capitoli a settimana se potessi), ma voglio fare le cose per bene e lavorare sulla storia prima darvela. Cerco di consegnarvi il miglior lavoro possibile, mettendoci impegno e passione :3
Spero di non farvi attendere secoli per il prossimo capitolo, l'ho già stampato, devo solo editarlo e sistemarlo (spero presto)
A presto