Dancin soon became a way
to communicate
feel the music deep in your soul
Le
tazze sono rimaste abbandonate sul tavolino accanto a me da almeno mezz’ora,
forse di più. Ho perso il passare del tempo, ho perso il conto dei minuti
trascorsi da quando Jocelyn ha abbandonato la stanza lasciandomi solo con Vinny
per la seconda volta. Abbiamo passato il resto di quel tempo che non ho contato
continuando a parlare di questa città, di quello che sta succedendo e forse
anche di quello che potrà accadere un giorno, abbiamo discusso della verità che
ruota attorno al Banco dei Sogni, della
paura delle persone che hanno raggiunto l’uomo in questa casa e di altre cose
ancora che forse, a pensarci, sono troppe perché possano essere passati solo
trenta minuti. Scruto nella stanza alla ricerca di un orologio, uno qualsiasi,
per rendermi effettivamente conto dell’ora che si è fatta, Vincent non c’è, è
uscito un momento per rispondere ad una chiamata. Jason ha detto quando ha portato il telefonino all’orecchio, la
cosa mi ha lasciato supporre che si trattasse dello stesso Jason nominato ieri
da Jocelyn, un’altra figura che forse avrò modo di incontrare in futuro.
L’orologio
segna le 17.44, i numeri rossi sono immobili e i miei occhi vi si abbandonano
stupidamente sopra. Improvvisamente il quattro si trasforma in un cinque e mi
ricorda che sono vivo.
Mi
sento strano. Nell’arco della giornata ho provato un’infinità di sensazioni
contrastanti, alcune talmente positive da stordirmi. Per me non è semplice
essere felice, anche solo pensare di poterlo essere mi fa uno strano effetto.
Sono cresciuto in una città che non mi appartiene, a cui neanche io appartengo,
ho continuato invano a fantasticare su un mondo che, sono certo, esiste ma che
non ho mai avuto la forza di andare a cercare. Ho paura del futuro e sono
insicuro, lo sono talmente tanto che fino a poco fa continuavo a ripetermi
dentro che avevo commesso un grave errore decidendo di venire qui e incontrare
Vinny. Tuttavia ora so di aver fatto la scelta giusta e, se tornassi indietro,
rifarei tutto daccapo.
Qui
dentro, su questo divano, ho avuto modo di riuscire a capire cosa succede
realmente là fuori, di capire cosa ci lega a questo mondo a tal punto da
avergli impedito di liberarsi di noi. Ho capito perché devo continuare a
lottare per il mio sogno, ho capito perché tanta bellezza, come quell’iris
sbocciato ieri, possa nascere anche da uno come me. Ci vorrà ancora molto tempo
prima che possa capire davvero tutto e con molta probabilità non ci riuscirò
mai, ma almeno ora so di aver incontrato qualcuno con cui cercare le risposte
alle mie assurde domande. Come ho promesso a Jocelyn tornerò anche domani e il
giorno dopo, voglio tornare sempre per dare un senso alla mia esistenza.
La
porta si apre e mi volto per vedere Vinny comparire sulla soglia, mi sorride e
io mi alzo per andare verso di lui. Non saprei che altro chiedergli ed è meglio
che vada, altrimenti potrei correre il rischio di non voler mai più tornare
alla realtà che, ora, si sta riproponendo più evidente e grigia di quanto mi
fossi ricordato nelle ultime, brevi, ore.
«Se
ora vai, spero vivamente di vederti anche domani.» mi dice lui, sorridendomi
ancora una volta con quel suo sorriso sincero e portando le mani sulle mie
spalle come, intuisco, gli piace fare.
Acconsento
con un cenno della testa e prendo parola:
«Tornerò
senz’altro.»
Le
mie stesse parole non mi bastano e riprendo a parlare subito:
«Volevo
ringraziarti per tutto. Ringraziarti per la tua ospitalità, per quello che mi
hai detto, per le risposte che mi hai dato.»
«Sono
io che ringrazio te, Steve. Sono contento di sapere di esserti stato d’aiuto,
se mai dovessi avere bisogno di qualcosa, anche solo di parlare, io e tutti gli
altri ci siamo.»
«Grazie.»
mormoro appena.
Mi
sento un peso ogni volta che ricevo inviti del genere, anche se, pensandoci,
forse un tale invito non mi era mai stato fatto prima.
Vinny
mi accompagna alla porta della sua stanza e mi saluta un’ultima volta.
Mentre
mi avvio verso l’uscita, sistemandomi la giacca, sento la voce, ormai
famigliare, di Jocelyn chiamarmi. Mi volto verso di lei, ferma all’altro lato
della stanza in compagnia di un’altra ragazza:
«Torni anche domani?» mi chiede.
Annuisco con la testa, incapace di esprimermi
a parole, il mio gesto è debole ma lei se ne accorge ugualmente, mi regala un
nuovo sorriso pieno di luce e mi saluta.
Appena sono in strada ripenso a quando sono
arrivato qui convinto di aver sbagliato posto. Se Jocelyn non mi avesse visto
me ne sarei sicuramente andato e nulla sarebbe potuto cambiare. Fortunatamente
non è andata così e ora non mi rimane che imboccare la nuova via che ho trovato
davanti a me, da sempre rimasta nascosta nel grigio di questa città.
***
Le ultime due settimane sono trascorse
diversamente da quanto sarebbe potuto succedere un tempo. Le giornate in
ufficio hanno continuato ad essere lunghe e interminabili, ma la consapevolezza
di poter trascorrere il resto del mio pomeriggio in un luogo diverso le faceva
scivolare via in modo meno doloroso. Mancano dieci minuti prima della fine del
mio turno, sto già pensando a cosa potrebbe succedermi quest’oggi, una cosa che
non facevo più da anni talmente mi ero rassegnato alla più totale monotonia.
Vedere la mia vita prendere una piega diversa e inaspettata, vedere che perfino
le pagine bianche che tocco tutti i giorni per delle fotocopie hanno delle
sfumature celesti o violacee che mai avevo notato, mi fa sentire fiducioso in
quello che potrebbe accadermi nel prossimo futuro. Volevo vedere le cose
cambiare e forse stavolta succederà veramente, devo solo continuare a credere e
non lasciarmi andare, per nessuna ragione.
Quando il quadrante dell’orologio dell’ufficio
segna le quattordici esatte abbandono ogni foglio con cui sto lavorando e afferro
la mia giacca, infilandola lungo le scale. Voglio fare una deviazione stavolta,
voglio andare nel punto in cui tutto è iniziato, nel posto in cui un piccolo
lembo di carta si è trasformato in un fiore ridandomi parte dalla speranza che
avevo perduto.
Cammino rapidamente in mezzo alla folla, le
persone intorno a me osservano solo il punto in cui i loro piedi appoggiano
sull’asfalto, senza prestare attenzione a ciò che le circonda, alcuni parlano
fra loro, a coppie, in piccoli gruppi, i loro discorsi sembrano melodie
monotonali e senza la più minima variazione. Appena raggiungo il luogo esatto
in cui il vento mi ha strappato dalle mani il mio pezzetto di carta accelero
ulteriormente, per poi fermarmi di colpo, sconvolto.
Non c’è più. Il mio fiore, l’iris, è
scomparso. Nel punto in cui avrebbe dovuto trovarsi con la poca erba nata
insieme a lui non c’è niente, tutto è tornato nuovamente nero e spento: lo
hanno tagliato.
Per quale motivo in questa città la bellezza
non è contemplata?
I miei occhi scorrono ripetutamente quel pezzo
di strada, lo fanno con fretta e insicurezza, finché noto un particolare
minuscolo e quasi invisibile: un filo d’erba. Un piccolo germoglio verde
intenso, che pare quasi spaventato da ciò che ha intorno. Istintivamente mi
chino verso di lui e rimango ad osservare il timido superstite, che è tutto ciò
che è rimasto della trasformazione del mio sogno.
Mi ritrovo a pensare che quell’iris non sia
altro che la metafora della mia vita; i germogli sono cresciuti fino a
sbocciare, proprio come nella mia infanzia, in cui ero in grado di immaginare
cose incredibili nella mia piccola anima di sognatore. Poi sono scomparso,
proprio come il fiore, sono stato atterrato dal grigio, azzerato da questa
città e dal nulla che porta con sé. Ma questo germoglio, piccolo e coraggioso,
non posso fare a meno di immedesimarlo con il me di ora, cioè quello che ha
avuto la possibilità di ricominciare a credere, di rinascere. Entrambi siamo
due sopravvissuti.
Lo sfioro appena con un dito e rimango ad
osservarlo per non so quanto tempo:
«Tieni duro, d’accordo?» mormoro.
Infine mi alzo e riprendo a camminare, diretto
alla casa di Vinny. Quando la raggiungo entro subito dall’ingresso lasciato
sempre aperto, salgo le scale e, appena davanti alla porta, incontro subito
Vinny. Solleva gli occhi dai bottoni del suo cappotto, dietro di lui la porta
chiusa dalla quale provengono deboli rumori.
«Oh,
Steve.» mi sorride, come è sua abitudine fare.
«Ciao.»
Termina di abbottonarsi prima di riprendere a
parlare, sospira leggermente e mi guarda:
«Sono contento di averti incontrato prima di
andarmene.»
«Cosa? Te ne vai?» chiedo sorpreso, forse
troppo, ma la notizia mi ha colto impreparato.
Che significa che se ne va?
Ma lui si mette a ridere:
«Aspetta, mi hai frainteso, vado via per un
paio di giorni, raggiungo Jason fuori città.»
«Ah,
scusami, avevo capito male.»
«Nessun problema.»
Si avvicina ancora di più a me e, come solito,
porta le sue mani sulle mie spalle:
«Ti chiedo solo un favore, amico mio.»
Acconsento con la testa e rimango in ascolto,
lui riprende parola senza abbandonare mai i miei occhi con i suoi:
«Stai accanto a Jocelyn e a tutti gli altri,
parla con loro e lascia che loro parlino a te. Ho visto che nell’ultimo periodo
sei riuscito a fare amicizia e ne sono contento, per questo te lo sto
chiedendo. Quelle persone hanno bisogno di aiuto.»
«Lo so e ne ho bisogno anche io.»
Vinny annuisce e mi sorride, sa che farò come
mi ha detto. Quasi sospetto che abbia temporeggiato più del dovuto per potermi
incontrare prima di andare via.
Mi abbraccia con affetto fraterno e torna a
guardarmi:
«Mancherò solo un paio di giorni.»
«Non preoccuparti.» sono io a sorridere,
questa volta.
Vincent mi saluta e si allontana, mentre io
apro la porta d’ingresso ed entro, salutando le prime persone che incontro. Mi
svesto della giacca, sistemo il mio maglione e rimango fermo a respirare a
fondo un paio di volte. Tutti i giorni ci metto almeno una decina di minuti
prima di rilassarmi totalmente; in questo posto mi sento come a casa, anzi, mi
sento addirittura più accettato che in casa mia, tuttavia ho sempre paura di
dire o fare la cosa sbagliata, di risvegliare ricordi dolorosi nelle persone,
di farle soffrire ulteriormente.
Appena mi sento più tranquillo mi volto e
subito incontro il viso di Jocelyn, mi sorride salutandomi e io tento di
rispondere allo stesso modo. Lei torna a conversare con le persone che ha
intorno e io cerco un posto dove poter andare. Una leggera nota stridula
proviene dalla mia destra, mi giro in quella direzione e noto il ragazzo con la
sua chitarra, seduto nello stesso posto in cui lo vidi la prima volta, a fare
la stessa cosa che stava facendo allora. La sedia accanto a lui è vuota,
fiocamente illuminata dalla luce diurna, decido di sedermici e provare a
parlare con quel ragazzo.
«Posso?» gli chiedo appena lo raggiungo,
indicando la sedia con un dito.
Solleva lo sguardo e mi osserva, trovo i suoi
occhi un po’ più luminosi rispetto alla prima volta che li ho visti, mi pare di
notare un leggero turbinio blu in quel verdemare: un buon segnale.
«Certo, siediti pure.»
Lo ringrazio e mi accomodo, lui impugna la sua
chitarra e si volta a guardarmi.
Faccio per parlare ma mi precede subito:
«Come ti chiami?»
«Steve.»
«Steve…»
mormora, distendendo le dita sulla chitarra: «Direi che fa rima con questo.»
Suona un unico accordo, la nota rimbomba
appena nella stanza, fondendosi alle voci dei presenti.
Lui torna a guardarmi e ride:
«Sì, proprio questo.»
Gli sorrido, sorpreso dalla positività
mostratami in meno di trenta secondi da una persona tanto giovane:
«E tu, come ti chiami?»
«Io sono Gabriel.»
Gli tendo la mano e lui me la stringe,
continuando ad avere quel suo sorriso da ragazzetto sul volto.
«Vuoi sapere che ci faccio qui, vero?» mi
chiede subito dopo aver mollato la presa, prendendomi alla sprovvista.
«Non sei costretto a parlarmene, lo sai questo?»
gli dico.
Lui annuisce con il capo, un gesto veloce e
sciolto:
«È parlandone con la gente che sto riacquistando
fiducia.»
È questo ciò a cui si riferiva Vinny prima,
parlare con lui aiuterà entrambi:
«Andiamo per gradi allora. Sei un musicista?»
Alza le spalle e abbassa gli occhi sulla sua
chitarra acustica, prendendo ad accarezzarla.
«Una specie.» attacca: «Lei è tutto quello che
mi è rimasto. So di non essere bravissimo come musicista, ma amo troppo suonare
per rinunciarci.»
Le corde stridono debolmente mentre lui vi fa
scorrere sopra le dita, come se lo strumento stesse parlando con il ragazzo,
come se lo stesse ringraziando per non essere mai stato abbandonato da lui.
Cerco le parole più adatte dentro di me per
porgli la fatidica domanda, chiedergli cosa l’abbia spinto ad andare al Banco dei Sogni, cosa gli abbia impedito
di fermarsi prima che fosse tardi.
«Perché lo hai fatto?» domando, la voce bassa.
Lui torna a guardarmi e alza le spalle:
«Non avevo scelta.» nel suo tono c’è una
pacata rassegnazione.
«Sì che l’avevi.» mi esce, spontaneamente.
Mi pento subito di averlo detto, convinto di
aver così ferito i sentimenti di Gabriel. Ma lui mi lancia un nuovo sorriso:
«No, non io. Mia madre e le mie sorelle si
sono trasferite fuori città. Qui la vita costava troppo per noi e così se ne
sono dovute andare, ma anche trovare i soldi per farlo non è stato facile e io
non potevo permettere che sacrificassero i loro sogni per questo, così l’ho
fatto io. Non ricordo quale fosse il mio, di sogno, ma non doveva essere
granché perché mi hanno dato davvero poco oro.»
Rimango immobile a guardarlo, sorpreso. Un
ragazzo tanto giovane che ha agito per aiutare qualcun altro, per aiutare delle
persone a cui tiene veramente. Coraggioso, testardo e impulsivo come tutti i
giovani della sua età, ma forse lui lo è più degli altri.
«Hai avuto davvero fegato a farlo.»
«Lo avrebbe fatto chiunque, credimi.»
Forse, non ne sono così convinto, non so
realmente quante persone, cresciute in questa città, sarebbero in grado di
compiere il suo stesso gesto, cioè sacrificarsi.
«Quanti anni hai detto di avere?»
Sorride:
«Non te l’ho detto. Ma sono ventuno, i tuoi?»
«Ventisette.»
«Ne dimostri meno, sai?»
Non dico niente e lui riprende subito parola,
senza perdere quella nota effervescente tipica della sua giovane età:
«Potrei scrivere una canzone su di te. Su
quello che hai fatto, sul tuo fiore. Qui dentro la sanno tutti la storia del
tuo iris.»
«Non c’è più.» sussurro appena,
immediatamente.
Il mio pensiero torna a quel pezzo nero di
asfalto dove solo quel piccolo filo d’erba sopravvive, quel minuscolo
superstite che crescerà sempre sfiorato dal nulla.
Gabriel abbassa il viso verso di me, per
guardarmi negli occhi. Non mi sono sbagliato, c’è davvero un vortice di blu in
quel mare verde, se ciò che Vinny mi ha detto è vero, significa che lui sta
lentamente ricostruendo il suo sogno.
«Vorrà dire che tornerà.» dice semplicemente:
«Dentro di te ci sono tutti gli iris che vuoi, Steve.»
Suona nuovamente quell’accordo, quello che
dice fare rima con il mio nome.
«Come fai a esserne sicuro?» gli domando.
Lui alza ancora una volta le spalle, un gesto
che mi fa capire che non sa la risposta, ma la sente.
Suona qualcosa di sconosciuto sulla sua
chitarra, una melodia leggera e orecchiabile, quel linguaggio che può essere
capito anche all’altro capo del mondo, che può essere compreso e amato da
tutti.
Lo osservo dall’inizio alla fine, mentre fa
scorrere le sue dita lungo le corde e la sua chitarra canta per lui.
«Perché non sei andato via insieme a tua madre
e alle tue sorelle se ne hai avuto la possibilità?» gli chiedo appena smette di
suonare, quando la musica scompare e torna l’avvolgente mormorio tipico di
questa casa. Abbassa gli occhi sulla sua compagna di avventure e prende ad
accarezzarla:
«Non saprei. Per quanto possa sembrare assurdo
non me la sento di abbandonare questa città, anche se non ha molto da offrirmi
credo che le mie uniche possibilità per farcela siano proprio qui. Se voglio
riuscire un giorno a vivere di musica allora non c’è altro posto in cui devo
andare.»
Annuisco con un cenno:
«Sei un tipo ottimista.» gli dico,
sorridendogli.
Lui risponde con lo stesso cenno:
«Direi più speranzoso, ma grazie.»
Un leggero silenzio cala fra di noi, Gabriel
si guarda intorno senza mai staccare le dita dalle corde della sua chitarra.
«Da quanto tempo sono partite?» gli chiedo
poi, per provare a ricostruire un po’ della sua vita.
Capisce subito che mi sto riferendo a sua
madre e alle sorelle, mi guarda negli occhi quando risponde:
«Tre settimane.»
«Stanno bene?»
Scuote debolmente la testa, un sorriso insicuro
si fa largo sul suo viso:
«Non lo so.» si limita a rispondermi.
Rimango sorpreso da quell’affermazione:
«Come non lo sai?»
Annuisce:
«Già, non lo so. Loro non hanno un telefono a
cui possa telefonare e io non ho un indirizzo a cui loro possano scrivere. Ma
sono certo che stiano bene, me lo sento.»
Rimango in silenzio ad osservarlo. Un’enorme
quantità di domande mi compaio in testa, prima fra tutte come riesca un ragazzo
tanto giovane ad avere tutta la forza interiore che ha lui. Non è solo dovuto
alla sua età, semplicemente lui ha continuato imperterrito a credere in un
futuro migliore. Non si è ancora arreso, non si è mai lasciato andare, cosa che
invece ho fatto io.
«Sicuramente un giorno le rivedrò.» pronuncia
a voce bassa, posando nuovamente gli occhi sulla chitarra.
Gli do un colpetto sulla spalla, un gesto
incoraggiante tipico dei ventenni:
«Il mondo è un posto piccolo.» gli dico.
Lui mi sorride e impugna il suo strumento:
«Ti dispiace se suono qualcosa?» mi chiede.
«Affatto.» rispondo senza la minima
esitazione.
Gabriel imbraccia la chitarra e comincia a
suonare senza pensarci due volte, nella stanza le voci si mescolano alla sua
melodia in un suono dannatamente vivo. Osservo le persone intorno a me, alcuni
si voltano un momento verso il ragazzo che suona e sorridono, come soddisfatti
di vedere che finalmente il giovane ha cominciato a fare ciò che sa fare
meglio. Nei giorni trascorsi qui dentro non ho mai visto nessuno rivolgere la
parola a Gabriel, così come non l’ho mai sentito suonare, eppure in questo
momento mi rendo conto di essermi sbagliato su tutto. Le persone qui dentro non
vengono lasciate sole con i proprio fantasmi, non vengono dimenticate le loro
storie, non vengono accantonate per nessuna ragione. Tutti si conoscono fra
loro, chi più chi meno, ma tutti. Chiunque ha sicuramente avuto la possibilità
di parlare con ciascuno dei presenti almeno una volta, quel tanto che basta da
sentire una storia simile alla propria e da sentirsi meno soli. Vinny ha
ragione anche questa volta.