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Autore: Gageta    07/04/2014    5 recensioni
John frequenta il liceo Barts: è al suo ultimo anno e tutto sommato le cose vanno bene. Ci sono gli ultimi mesi di duro studio, l'imminente scelta per il proprio futuro, c'è la squadra di rugby e tante ultime feste a cui partecipare, ragazze al suo seguito che uscirebbero volentieri con lui e una in particolare, Mary, con la quale farebbe di tutto pur di avere un appuntamento.
John ha sempre avuto le idee chiare: gli uomini si invaghiscono delle donne, chiedono loro un appuntamento, si innamorano e le sposano. Una cosa elementare, naturale.
John è sempre stato certo di questo, ma poi incontra Sherlock Holmes, e tutto ad un tratto non è più sicuro di nulla.
[teen!lock, Johnlock!AU]
Genere: Fluff, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Avevo già detto quanto amassi Harriet, vero? Bene, lo ripeto xD

E anche Mycroft… è adorabile su, ammettiamolo.

Altra cosa: grazie, grazie a tutte voi, non sapete quanto mi rendete felice con i vostri preziosi commenti <3

E un grazie anche a tutti coloro che la seguono in silenzio, ovviamente! Se la storia procede senza troppi intoppi è anche perché ci siete qui voi a sostenermi ;)

Bene. Ora… 12 pagine di word. È tipo il capitolo più lungo che io abbia mai scritto…

Per questo vi lascio senza dilungarmi troppo. Grazie ancora!

Ps. buona lettura!

 

 

 

 

Orgoglio e Pregiudizio

Capitolo 8

 

T

utto sembrava essere tornato alla normalità, sempre che con normalità si potesse definire quello stato di continuo nervosismo in cui John si era ritrovato. Si diceva di essere stato fortunato per aver risolto uno dei tanti problemi che lo assillavano: Sherlock se ne era andato dalla scuola, non aveva più preoccupazioni di nessun genere; non doveva più nascondersi, non doveva più girare per i corridoi sospettando un incontro indesiderato da un momento all’altro e non doveva più preoccuparsi di tenersi lontano da luoghi come il laboratorio o il corridoio dove Sherlock aveva avuto il suo personale armadietto.

Ma allora che cos’era quel peso che continuava ad avvertire nei pressi dello stomaco? Che cos’era quel senso di nausea che lo prendeva ogni volta che passava per l’uscita esterna del campo di rugby in direzione della fermata dell’autobus?

Ogni volta che guardava Smith negli occhi gli sembrava di vedere un corridoio vuoto e un ragazzo pallido che veniva costretto alla parete; ogni volta che camminava per i corridoi della scuola per raggiungere la classe dell’ora successiva gli sembrava di vedere una testa riccioluta ovunque, come se il fantasma di Sherlock continuasse a perseguitarlo, bloccato nel tempo e nello spazio.

Molte volte, quando passava di fronte alla targhetta affissa alla parete d’entrata degli spogliatoi dedicata a Carl Powers, si fermava, e rimaneva ad osservare le lettere dorate che componevano quel nome, come in trance, mentre l’eco di parole lontane anni luce da lui gli rimbombavano in testa.

Una sera, uscendo con gli amici, gli parve perfino di sentire una risata profonda vicino a lui mentre rideva con il gruppo di qualche evento curioso.

Quando stava con Mary, invece, quando la baciava…

Il suo pensiero non lo abbandonava mai.

Passarono i giorni, un lento susseguirsi di avvenimenti, parole, situazioni ed emozioni, ricordi e sensazioni.

John aveva riposto la lettera di Sherlock in un posto sicuro, sotto ad alcuni libri nel cassetto del comodino. La custodiva come una reliquia, un simbolo concreto di tutto quello che aveva vissuto nel giro di qualche mese con un amico straordinario, una delle persone migliori, più umane che avesse mai conosciuto. [1]

Perché per quanto Sherlock avesse cercato di nasconderlo, per quanto avesse ignorato palesemente la realtà delle cose, John aveva visto oltre la lastra di ghiaccio che sembrava sempre separarlo dal resto del mondo, era riuscito a scivolare oltre quella barriera e a scoprire una persona tutta nuova al suo interno: John era riuscito a conoscere Sherlock Holmes, a fare breccia nel suo animo imperturbabile e riservato per scoprire cose del tutto inaspettate. Lui, un semplice ragazzo appassionato di studi e rugby era riuscito a disseppellire sentimenti repressi e mai affrontati.

Gli veniva male a pensare alla lettera. Era stata una completa sorpresa, qualcosa che non si era per niente aspettato.

L’aveva letta con il cuore in gola, solo, in un’aula durante la pausa pranzo, scorrendo quelle poche righe che svelavano quanto Sherlock si fosse visibilmente pentito per il casino che aveva combinato.

Quando aveva letto le ultime due parole, quell’addio che gli aveva lasciato l’amaro in bocca, in quel momento aveva desiderato di poter sprofondare nel terreno per la vergogna e il senso di colpa, più forte che mai. Era stato, se possibile, ancora peggio.

Il messaggio traspariva dispiacere da ogni parola, ogni lettera in inchiostro nero sembrava essere stata vergata con grande attenzione, come se una sola sbavatura potesse rendere l’intera lettera un insulto alla pazienza di John. Sherlock aveva veramente temuto di averlo perso completamente, di averlo fatto arrabbiare al punto da farsi odiare per quella stupida mancanza di lucidità che lo aveva spinto al gesto estremo.

John sapeva che le cose non stavano per niente così, ma evidentemente l’impressione che aveva dato era tutt’altra. All’inizio, forse, era stato un po’ arrabbiato, probabilmente anche deluso, ma era passato in fretta. I problemi erano diventati altri: aveva dovuto capire cosa fare, cosa dirgli, come comportarsi.

E aveva fallito miseramente in tutto.

Eppure, ancora adesso, non riusciva a comprendere a fondo il suo errore, non riusciva – ripercorrendo mentalmente quello che aveva vissuto negli ultimi giorni – a trovare un modo più ragionevole in cui avrebbe potuto comportarsi.

La risposta arrivò ancora prima di quanto potesse aspettarsi.

Passò il periodo natalizio e la settimana di vacanza prevista, poi a gennaio, tornando a scuola, cominciarono a girare delle voci.

All’inizio John non ci fece molto caso: camminava tranquillamente per i corridoi e qualcuno si girava al suo passaggio; qualcuno lo indicava bisbigliando a bassa voce con il vicino, altri ridacchiavano e gli voltavano le spalle. Già abituato a quelle reazioni quando girava in compagnia di Sherlock, non comprese subito cosa stesse succedendo.

Si rese veramente conto dell’atteggiamento degli altri solo grazie ai suoi compagni di squadra quando, un pomeriggio, lo misero di fronte alla verità, una verità che non si aspettava e che lo lasciò spiazzato e scosso. Ma la storia completa la apprese solo più tardi.

Imboccò il corridoio che portava verso gli spogliatoi come suo solito e si ritrovò davanti gran parte dei Blackheath e un gruppetto di ragazzi: parlavano animatamente tra loro e sembravano litigare.

Non fece quasi in tempo a realizzare cosa stesse succedendo che qualcuno lo chiamò. «John!»

Si fermò poco lontano dal gruppo, posando lo sguardo sulla ragazza castana al centro che lo guardava con apprensione. «Ti prego… di’ loro che non è vero. Vero?» disse, parlando con una vocina tendente al lamentoso. Sembrava visibilmente scossa.

«Ne abbiamo le prove! Perché continuare a negare?» ridacchiò qualcuno dalla parte dei Blackheath.

«Che cosa succede?»

«Sherlock era un bravo ragazzo, non avrebbe mai potuto fare qualcosa del genere!» esclamò Molly, deglutendo a fatica.

Dopo aver passato giorni a cercare di non pensarlo neanche, nel sentire quel nome pronunciato ad alta voce John si fece subito più attento. Spostò lo sguardo dalla ragazza a Sebastian Moran, in piedi poco lontano, che sogghignava con un fascicolo di fogli in mano.

«John lo conosceva bene. Sherlock non avrebbe mai fatto qualcosa del genere. Quei documenti sono falsi.» continuò la mora imperterrita.

«Molly, lascia perdere… andiamo.» Greg Lestrade la bloccò con un braccio, tirandola verso di sé. «Non vale neanche la pena di discuterne.»

«Discutere di cosa?» John guardò i due interrogativo, chiedendosi quale fosse il nuovo motivo per il quale prendere in giro Sherlock. Se ne era andato, per sempre, che senso aveva continuare a farlo? Soprattutto dopo che li aveva lasciati senza fare niente oltre che sparire da un giorno all’altro evitando di dare spiegazioni.

Greg si passò una mano sul volto, apparentemente stanco, mentre Moran sorrideva sornione e gli porgeva i fogli che teneva in mano. «Penso che tu possa capire tutto da qui, caro il mio Watson…»

John gli scoccò un’occhiata truce, poi afferrò i fogli e dette uno sguardo veloce al nome scritto all’inizio. Spalancò gli occhi, stupito.

«Non avete il diritto di prendere quei documenti!» continuò Molly, staccandosi con uno strattone da Lestrade e fronteggiando il giocatore di rugby faccia a faccia.

«Che caratterino! Non si addice a una signorina per bene come lei, miss Hooper.» ironizzò il ragazzo, facendo qualche passo indietro con le mani davanti a sé. «Dovresti insegnarle le buone maniere, Jim…»

«Andiamo Seb… sai come mi piacciono le ragazze.»

John alzò lo sguardo dai documenti con il cuore in gola, fissando il nuovo arrivato con tanto d’occhi.

…tieni d’occhio Molly Hooper da parte mia.

Quando vide il ragazzo superare l’amico in pochi passi e passare un braccio intorno alla vita della ragazza provò un moto di disgusto, che aumentò quando ella arrossì lievemente sulle guance e abbassò lo sguardo.

«Perché tutte queste scene per Holmes, amore? Ormai è acqua passata, se n’è andato…»

«Dove gli avete presi questi?» la voce gli uscì dalle labbra più forte del previsto e quasi tutti i ragazzi che erano ancora presenti sulla scena si girarono a guardarlo, incuriositi.

«È merito mio, se così si può dire.» il ghigno che comparve sulle labbra di Moriarty – e che nessuno vide a parte John – gli fece quasi accapponare la pelle.

«Perché?» Sentiva la rabbia affiorargli piano, dal profondo dello stomaco, e s’impose di calmarsi.

Il pilone destro della squadra si strinse nelle spalle, guardandosi intorno fieramente. «Perché ho fatto delle ricerche. Non dirmi che non interessava anche a te sapere dove fosse andato a cacciarsi Holmes, eh John?»

Strinse una mano a pugno. «Non avevi il diritto di farlo.»

Moriarty ridacchiò e fece segno ai compagni di allontanarsi, posando poi un bacio sulla fronte della sua ragazza e sussurrandole qualcosa all’orecchio. Dopo ciò, Molly si allontanò, non prima di aver gettato un’ultima occhiata a John, ancora in piedi nello stesso punto.

«Avanti, cos’hai da dirmi, John? Il fedele amico John Watson…»

Inspirò a fondo, socchiudendo per un attimo gli occhi. «Non è vero.»

«Oh, allora gli hai letti

«Non. È. Vero.» soffiò, avvertendo una traccia di panico crescere lentamente, soffocandolo in una morsa.

Moriarty sospirò apparentemente triste, poi gli sorrise cordialmente. «Evidentemente a me non crede. Gregory? Tu lo sapevi, non è vero?»

Il ragazzo interpellato strinse i pugni, guardandolo con ribrezzo, e non rispose fino a quando non fu John stesso a guardarlo, carico di angoscia. «Mycroft… suo fratello mi aveva accennato. Ma non è stato niente di terribile. Sherlock era un bravo ragazzo.» sospirò, abbassando lo sguardo come pentito.

«Niente di terribile? NIENTE? Ha rischiato di finire in overdose! A SEDICI ANNI.» John non ricordò di essersi sentito così male negli ultimi anni.

Sherlock, il suo migliore amico, quel ragazzo pazzesco e pieno di risorse aveva in passato ceduto all’utilizzo di sostanze stupefacenti, evitando per un soffio la morte. Le parole stampate in inchiostro nero su quei documenti non potevano che essere vere. Erano documenti ufficiali quelli, John lo sapeva molto bene.

«Te la sei presa perché non ti ha mai detto niente? Fossi in te non sarei così sorpreso. Quanto veramente sai della sua infanzia? Della sua vita privata? Scommetto che non sapevi neanche che avesse un fratello, uhm?»

John cercò aiuto nel ragazzo al suo fianco, guardandolo con apprensione, ma Lestrade stava fissando un punto imprecisato della parete di fronte apparentemente distaccato dalla discussione in corso.

«Non mi sorprenderei se ci è ricaduto di nuovo. Se ci pensi i pezzi combaciano, no? È sparito da un giorno all’altro, senza dare spiegazioni, dopo aver passato un anno d’inferno per colpa di quei tuoi compagni di squadra che ti piace tanto definire amici. E una volta tanto che aveva trovato un amico, una volta tanto che era riuscito a spingersi più in là della semplice amicizia…»

«Basta!» John esplose, il volto che si era trasformato in una maschera di rabbia e frustrazione, sorpresa perfino. Come diavolo faceva Jim a sapere tutte quelle cose?

Alle ultime parole di Moriarty, Lestrade voltò lo sguardo verso John, spalancando lievemente gli occhi per lo stupore, mentre il mediano respirava piano, a fatica.

«Perché non avrebbe dovuto dirmi niente?» chiese, sconfitto e desideroso di risposte.

«Perché se ne vergognava.» Intervenne Greg, cercando di rassicurarlo con lo sguardo. «Non è una cosa di cui andare fieri. Penso che Sherlock volesse che tu lo rispettassi, che lo guardassi con occhi diversi. Non l’ho mai visto comportarsi così con qualcuno.»

John sentì un lieve pizzicore agli occhi e spostò il peso da una gamba all’altra mentre l’ennesima ondata di ricordi lo colpiva in pieno.

«Ciò non toglie niente al suo passato.» ribatté Moriarty, come se volesse piantare a fondo quell’idea nella testa di John, il quale, a quelle parole, dovette trattenersi dal rispondergli male, sapendo che era esattamente quello che il ragazzo voleva.

«Ok, va bene. È solo parte del suo passato, no? Le persone possono cambiare col tempo…» disse, moderando il tono di voce perché suonasse calmo e sicuro. «E tu non avevi alcun diritto di prendere questi documenti e di farli girare per la scuola come se niente fosse. Ora questi tornano dal preside e ci tornano insieme ad un mio richiamo per violazione della privacy. D’accordo?»

Moriarty alzò un sopracciglio e sollevò un angolo delle labbra. «John Watson, fedele fino alla fine… molto bene.» ghignò nuovamente, con quell’aria spavalda e sicura che lo contraddistingueva, per poi girare sui tacchi e allontanarsi lungo il corridoio. «Oh, e a proposito. Puoi tenerli, se vuoi. Ne ho fatte delle copie.» disse, e sparì dietro l’angolo.

«John…»

«No.» fu la sua secca risposta. Prese un respiro profondo, cercando di non pensare all’espressione che si era dipinta sul volto di Moriarty poco prima, e senza neanche un cenno di saluto verso Lestrade si allontanò dalla parte opposta, stringendo i fogli che aveva in mano come se fossero un prezioso tesoro di cui prendersi cura.

~*~

Quella sera, John tornò a casa con il morale a terra e, data l’ora piuttosto tarda, si congedò dalla madre subito dopo averla salutata, dicendole che era stanco e che aveva mangiato un panino per strada, ritirandosi così in camera sua.

Spinse lo zaino con i libri sotto il letto e si buttò di pancia sul materasso, sprofondando con il volto nei cuscini. I fogli che teneva ancora in mano finirono con uno svolazzo per terra, senza che si preoccupasse di raccoglierli: non avevano la minima importanza ora.

Strinse con forza le palpebre, affondando nella stoffa fino a quando non gli mancò il respiro e con un grugnito dovette girarsi supino. Portò le mani al volto e si strofinò malamente gli occhi, cercando di cacciare quel nodo alla gola che lo aveva accompagnato per tutto il tragitto fino a casa.

Si rese conto di quanto tempo avesse realmente passato a rigirarsi nel letto senza riuscire a chiudere occhio soltanto quando udì la porta della camera aprirsi e vide la figura di sua sorella stagliarsi contro la luce proveniente da fuori.

La ragazza chiuse la porta, senza paura di farlo con gentilezza per non svegliare John, e si trascinò fino al letto, dove si distese, anche lei supina, e puntò gli occhi al soffitto, scrutandolo nel buio.

Non seppero mai quanto tempo effettivamente passarono in silenzio, ognuno con i propri pensieri, facendo finta di dormire. Probabilmente passarono ore, forse solo cinque minuti.

Alla fine fu Harriet a rompere il silenzio. «Qualcosa che non va?»

John mandò un grugnito stanco e si girò su un fianco, dando le spalle alla sorella. Aveva ancora in testa quelle poche righe che aveva letto da quei dannati fogli, prima di decidere di aver letto troppo, e non riusciva a scacciare dalla mente l’immagine di Sherlock, steso in un letto d’ospedale, il volto ancora più pallido del normale e un genitore seduto al suo fianco con la testa tra le mani, distrutto dal dolore. E tutto solo perché non aveva avuto il coraggio di affrontare la situazione in cui si era ritrovato. Di certo non sarebbe andato a raccontarlo ad Harriet.

«Sai… pensavo di aver trovato qualcuno di speciale per una volta…» continuò la ragazza, incurante del fatto che John la stesse ascoltando o meno. «Ma non faccio altro che sbagliare, ogni dannatissima volta.» Sospirò sconsolata.

John annuì mentalmente alle sue parole, trovandosi in totale accordo. Qualsiasi cosa potesse fare, qualsiasi decisione prendesse, commetteva sempre qualche errore, che il senso di colpa e la delusione lo stringessero senza possibilità di fuga.

«Mi auguro che tu sia felice con Mary, che almeno tu abbia trovato la tua persona speciale. O forse vi siete lasciati?»

«No…» borbottò e poté quasi immaginarsi Harriet sorridere nel buio.

«Avete litigato? Potresti dirmelo sai… parlare aiuta molto.»

John si lasciò sfuggire un sorriso, più di disperazione che altro.

Rimase in silenzio, soppesando le sue parole. In fondo non aveva niente da perdere. Era vero che parlare aiutava, John lo aveva provato più volte sulla propria pelle nel corso della sua vita. Ricordava molto bene quella notte lontana, un giorno di primavera, quando aveva appena cinque anni. Pochi giorni prima suo padre, Jonathan Watson, li aveva lasciati, colpito improvvisamente da un infarto sulla strada di casa. Quella notte, dopo quasi una settimana in cui John si era sentito totalmente perso e confuso, si era ritrovato tra le braccia di Harriet e, insieme, stesi sul letto uno stretto all’altro, si erano parlati a vicenda, ricordando tutti quei bei momenti che avevano passato insieme con lui. Avevano parlato fino a notte fonda, consolandosi a vicenda, e la mattina dopo John ricordava molto bene di essersi sentito meglio, di aver perso quel peso che lo aveva accompagnato per giorni interi. Valeva la pena rivelare tutta la storia ad Harriet? Poteva veramente aiutarlo o si sarebbe limitata ai suoi soliti commenti sarcastici?

Sarebbe potuto benissimo accadere, conoscendola. Ma se non parlava con lei, con chi altro avrebbe potuto farlo? Aveva bisogno di farlo e nessuno più di lei sapeva cosa volesse dire trovarsi in una situazione sentimentale con qualcuno dello stesso sesso, anche se a senso unico.

John sospirò pesantemente e tornò supino, stringendo gli occhi.

«Non è colpa di Mary.»

Harriet si agitò sul letto, probabilmente sistemandosi in una posizione più comoda grazie alla quale avrebbe potuto osservare suo fratello. «Hai trovato qualcuno più interessante di lei?»

Il ragazzo si prese una pausa di silenzio, scegliendo le parole con cura. «No. Si tratta… si tratta di…» deglutì a vuoto, incapace di pronunciare quel nome che apriva troppi scenari imbarazzanti nella sua testa. Per una volta ringraziò di essere al buio e di non poter essere visto.

«Si tratta di Sherlock.»

Harriet sbuffò infastidita. «Tutto qui? Cosa diamine può essere successo perché tu ti preoccupi come una ragazzina alle prese con il suo primo amore?»

Un brivido gli attraversò la schiena e dovette costringersi a prendere un paio di respiri profondi prima di proseguire il discorso. «Non è così semplice…»

«Oh ovvio. Quel ragazzo non è semplice sotto molti punti di vista. Non capisco come tu riesca a sopportarlo.»

«Harriet!» la rimproverò.

«Sì scusa. Vai avanti con i problemi tra te e il tuo migliore amico.»

«Mi ha baciato.»

Lo disse di getto, senza neanche lasciarla finire di parlare, e Harriet si zittì subito. Ci fu un movimento al suo fianco, poi la luce si accese di colpo, costringendolo a stringere con forza le palpebre e a portarsi un braccio sul volto. «Ma cosa…?»

«Che cosa ha fatto?» la voce le uscì stridula, quasi come un urlo a bassa voce.

John sentì il sangue affluirgli al volto e non poté evitare di arrossire, risposta apparentemente sufficiente ad Harriet, la quale lanciò un gridolino sommesso che lo costrinse a lanciarle un’occhiataccia.

«Oh. Mio. Dio.» mormorò piano, mentre un sorriso andava ad illuminarle il volto. «Ommioddio!» esclamò poi, balzando in piedi e osservando John con una luce negli occhi che non lo rassicurò per niente. «E cosa hai fatto? Hai ricambiato?» allargò ancora di più il sorriso, come se quella notizia le avesse risollevato improvvisamente il morale.

Il ragazzo sbuffò, mettendosi a sedere sul letto e affondando il volto tra le mani. «Piantala

Harriet ridacchiò e si risedette sul letto, sporgendosi in avanti verso il fratello. «Dio che cosa tenera! Ti prego, dimmi che hai ricambiat-»

«Non sono gay, ok? La pianti? Ovvio che non ho ricambiato!» ribatté stizzito.

Il sorriso scivolò via dalle sue labbra, sostituito da un’espressione perplessa e ansiosa. «Che cosa hai fatto allora?»

John chiuse gli occhi e sospirò: questa era probabilmente la cosa di cui si vergognava di più. «Me ne sono andato…» mormorò, quasi non volesse farsi sentire dall’altra che, a quelle parole, spalancò gli occhi e si afflosciò su se stessa, tutto l’entusiasmo che scemava in un’espressione delusa. «No…» si portò le mani tra i capelli e si buttò all’indietro, andando a cozzare con la schiena contro il muro. «No ti prego… è uno scherzo vero? Dimmi che non l’hai fatto veramente…»

John deglutì, pentito, e abbassò lo sguardo.

«Dio John, quanto sei stupido!»

«Ok!» il ragazzo portò le mani davanti a sé in un segno di resa. «Ok, d’accordo… ho sbagliato, me ne sono reso conto anch’io. Ma cos’altro avrei potuto fare?»

«Che cosa cosa? Come sarebbe a dire cosa avresti potuto fare? Che cosa avresti fatto in una situazione del genere?» Harriet sembrava fuori di sé, arrabbiata con il fratello come non lo era mai stata in tanti anni della loro infanzia.

«Ora tu torni da lui, anche adesso. Anzi hai il suo numero di cellulare? Ora gli dici che ti dispiace, sono stata chiara? Chiamalo e digli che ti dispiace!» esclamò, puntando un dito accusatorio verso di lui.

«Non ho il suo numero e non lo chiamerò all’una di notte per questo, ok?» sibilò, guardandola con furia.

«Oh povero, povero, Sherlock! Perché ti devi innamorare di certi imbecilli senza cuore?»

John si sentì punto sul vivo e non riuscì a sostenere il suo sguardo carico di accuse.

«D’accordo, quel ragazzo non è uno dei migliori in quanto a cordialità… ma diamine! Come hai potuto anche solo pensare di reagire in quel modo? Nessuno, e dico nessuno dovrebbe ricevere un trattamento del genere!»

«È troppo tardi.» borbottò.

«Cosa?»

«È troppo tardi, va bene?» balzò in piedi, stringendo i pugni con forza. «Anche se volessi scusarmi, è troppo tardi.»

«Non è mai troppo tardi…» vedendo lo sconforto che attraversava il volto del fratello, l’espressione di Harriet si addolcì. Ad una sua occhiata sconsolata, tuttavia, un pensiero le attraversò la mente. «Quanto tempo fa è successo?» chiese con un filo di voce, già immaginando la risposta tutt’altro che soddisfacente.

«Circa un mese fa…» emise con un sospiro pieno di sconforto.

La giovane esalò un verso a metà tra un singhiozzo e un grugnito di rimprovero, scuotendo la testa. «Sei un idiota.»

John non poté che darle ragione. «Ma cos’altro… come avrei dovuto reagire?» chiese, lasciandosi nuovamente cadere sul letto. «È successo così, di punto in bianco. Io non… non me lo aspettavo. E ora non posso fare più niente. Se n’è andato, non lo rivedrò mai più…» La voce gli si affievolì fino a sparire del tutto.

«Perché ti è così difficile capire che non c’è alcuna differenza tra te e me?»

«Io non…»

«No, ora mi lasci parlare, razza di deficiente che non sei altro.»

John si zittì, tornando supino con gli occhi al soffitto.

«Non cambia niente, ok? Non c’è niente di diverso tra una relazione omosessuale e una etero. Beh, forse a livello fisico sì, ma penso che questo non t’interessi, per ora.» gli lanciò un’occhiata vagamente divertita e John scelse di ignorarla deliberatamente.

«Se ti piace una persona, profondamente, di là dal fatto che essa sia un maschio o una femmina, mi spieghi quale problema potrebbe mai esserci? Si parla sempre di anime gemelle e amore vero e bla bla. Eppure ancora adesso ci sono persone che non riescono a capacitarsi del fatto che una persona possa amarne una del suo stesso sesso.»

«Non ho mai detto di essere contro relazioni di nessun genere…» la interruppe.

«No, non lo hai mai detto, ma evidentemente non te lo sei ancora ficcato bene in testa. Non posso credere che ti saresti comportato così se al posto di Sherlock ci sarebbe stata una ragazza: sarai anche un idiota ma non sei stronzo fino a questo punto, di questo ne sono certa. Sei troppo ingenuo e buono per un comportamento del genere. Sei stato un villano nei suoi confronti, almeno di questo te ne sei reso conto alla fine…» fece una pausa, come a voler assaporare quel momento di superiorità in cui si trovava. «Sono convinta che tu non sia stato te stesso in quel momento, vero?»

Era una domanda retorica e John non le rispose.

«Ti sei lasciato prendere dall’angoscia, hai pensato di non sapere come reagire e hai lasciato che l’istinto agisse per te. Ti sei imposto di fare una determinata cosa – scappare per la precisione – come reazione ad un attacco di panico. E invece le cose sarebbero potute andare diversamente solo lasciando che il tuo buon cuore agisse per te. Sei un ragazzo meraviglioso John, lo sanno tutti, e hai abbastanza esperienza con le ragazze per tirarti fuori da una situazione del genere. Te ne rendi conto adesso? Hai considerato Sherlock come un ragazzo, maschio, hai lasciato che i pregiudizi e il tuo orgoglio prendessero il sopravvento. Lo capisci ora?»

John arricciò le labbra mentre le parole di Harriet lo colpivano nel profondo. Aveva ragione, troppo, e non poté non pensare a come sarebbero potute andare le cose se solo non si fosse lasciato prendere dal panico.

Per l’ennesima volta si ritrovò a ripercorrere mentalmente tutto il cammino che aveva compiuto con la sua amicizia con Sherlock, da quella notte alla festa fino a quel pomeriggio nel bagno. Ripensò al momento in cui aveva cominciato ad asciugargli i capelli con dolcezza, come una madre preoccupata asciuga il suo bambino per paura che si possa prendere un raffreddore.

Che cosa era successo in quel momento? Si era lasciato andare, ecco che cos’era successo.

Fin dall’inizio aveva capito che Sherlock era un ragazzo solo, senza amici, compagni su cui fare pieno affidamento. Fin dall’inizio John aveva provato un sentimento di pietà nei suoi confronti, tanto da ignorare i suoi modi sgarbati e pieni di supponenza per cercare di diventare suo amico, di fargli capire che poteva essere apprezzato anche lui. Lo aveva protetto sotto la sua ala, aveva fatto in modo che nessuno lo infastidisse e che potesse vivere una vita normale, come tutti gli altri. Non era forse questo il ruolo di una madre? Lo aveva protetto come una madre protegge il proprio figlio, lo aveva confortato, ascoltato, si era fatto in quattro per lui e le sue strambe idee. E quel sentimento di protezione persisteva ancora adesso, benché ormai non lo vedesse da quasi un mese.

Strinse gli occhi e si costrinse a focalizzare l’immagine di Sherlock a un soffio da lui, il suo respiro che gli accarezzava la pelle, le sue labbra sulle sue, quel leggero, dolce tocco.

Era stato così terribile? Era veramente stato così terribile da potersi permettere di comportarsi a quel modo?

Qualcosa si agitò nel suo stomaco mentre ricordava sempre meglio ogni più piccola emozione provata, ogni sensazione, dalla pressione delle labbra di Sherlock alle sue mani sulla sua testa.

Per un attimo, soltanto per un attimo, provò ad immaginare quelle stesse mani scivolare sul suo volto, andare una verso il suo collo e dietro la nuca, immergendosi tra i suoi capelli bagnati, mentre l’altra andava a porsi sotto il mento. Immaginò le sue labbra aprirsi, cercare affannosamente quelle dell’altro…

Spalancò gli occhi di colpo, trattenendo il fiato.

«No…» ansimò, portandosi le mani alla testa e rannicchiandosi su se stesso in posizione fetale. «No. No…»

«Che c’è?» In un attimo Harriet fu al suo fianco, preoccupata.

«Mi dispiace…» mormorò, la voce un flebile sussurro. «Mi dispiace…» ripeté, chiudendo gli occhi, cercando di scacciare quelle stupide immagini dalla sua testa.

E una volta tanto che aveva trovato un amico, una volta tanto che era riuscito a spingersi più là della semplice amicizia…

Le parole di Moriarty riecheggiarono vicine, costringendolo a prendere un paio di respiri profondi. Perché erano così dannatamente vere? Perché quel ragazzo che di buono non aveva niente, quella volta aveva avuto ragione su tutto?

Era stata colpa sua, soltanto colpa sua. Aveva abbandonato Sherlock, lo aveva lasciato nelle mani di quei suoi amici che amici non lo erano proprio per niente, non lo aveva protetto e, quasi certamente, lui era ricaduto in quel circolo vizioso. Sherlock, il suo amico, il suo migliore amico, era stato male per colpa sua, quando era stato proprio lui, John, a cercare di tenerlo fuori dai guai per proteggerlo da inutili danni fisici.

«Mi dispiace…» sussurrò nuovamente, sentendo gli occhi cominciare a pizzicare.

«Lo so…» disse Harriet in risposta, passandogli amorevolmente una mano tra i capelli biondo cenere. «E cascasse il mondo, ma stai pur certo che troveremo un modo perché tu possa dirglielo di persona.»

Sorrise tra sé e sé, guardando suo fratello tranquillizzarsi sotto il suo tocco e prendere la via del sonno, stanco morto. Osservò quella figura che conosceva fin troppo bene, quei lineamenti che erano così simili ai suoi.

E cascasse il mondo, Sherlock, ma tu avrai questo ragazzo. Non avresti potuto fare scelta migliore. Pensò con mezzo un sorriso.

~*~

Il giorno dopo John ebbe ben poco tempo per pensare alla scuola.

Al mattino rinunciò a fare colazione, arrivando a scuola con una decina di minuti di anticipo. Cominciò a girare per i corridoi, in cerca di quell’unica persona che poteva aiutarlo. Non trovandola, fu costretto ad andare a lezione, ma passò l’intera ora a fissare le lancette dell’orologio che battevano i secondi, in attesa che finisse. Quando il suono della campanella si fece sentire sopra la voce del professore di matematica si preparò in fretta e continuò la sua ricerca nei cinque minuti di pausa tra una lezione e l’altra.

La stessa cosa si ripeté per tutte le ore successive, ma di Lestrade non c’era alcuna traccia.

All’ora di pranzo, benché non avesse per niente fame, fu costretto a scendere in mensa per controllare anche lì, e non lo trovò.

Sedette sconsolato ad uno dei tavoli, ansimando per la lunga corsa, e affondò il viso tra le mani. Possibile che fosse sparito pure lui?

Non ebbe pace fino al pomeriggio, quando, finalmente, mentre prendeva le sue ultime cose dall’armadietto per tornare a casa, una voce non lo richiamò, ansimante.

«John!»

Si girò di scatto, rischiando di fare cadere a terra i libri che teneva ancora in mano, e sorrise nel vedere Greg avanzare velocemente verso di lui. Aveva il volto accaldato e sembrava aver appena compiuto una lunga corsa.

«Ti stavo cercando.» Pronunciarono quelle parole nello stesso istante e si guardarono stupiti l’un l’altro.

«Oh… wow, perfetto.» sospirò il nuovo arrivato. «Ci siamo rincorsi per tutta la giornata?»

John sorrise, un peso che finalmente lo abbandonava, e rimase in silenzio, aspettando con curiosità che l’altro parlasse.

«Ecco… riguardo a quello che è successo ieri…» iniziò Greg, spostando il peso da una gamba all’altra. «Ieri sono uscito con Mycroft, suo fratello… cioè, uscito. L’ho… l’ho incontrato, ecco…» diventò paonazzo da un momento all’altro e si affrettò a distogliere lo sguardo. «Insomma… mi ha detto di dirti che è disposto ad incontrarti, tra un paio di giorni. Ho pensato che è l’unico che possa dirti tutto per filo e per segno, che possa rispondere alle tue domande. Nessuno conosce Sherlock meglio di lui…» Si fermò e si morse un labbro, arrischiandosi a lanciargli un’occhiata di traverso.

John ascoltò attentamente le parole dell’amico, valutandole. «Io… ehm… non saprei. Sherlock… ci sarà anche lui?»

Greg scosse la testa. «No, al momento non ti è possibile vederlo. Mycroft vuole solo scambiare un paio di parole con te…»

Prese un respiro profondo. «Ok. Va-va bene…» annuì poi, scoprendo di sentirsi molto più leggero.

Lestrade sembrò sollevato. Cercò qualcosa nelle sue tasche e poi glielo porse. «221B Baker Street. Lo troverai lì dopodomani, appena dopo scuola.» Dopo un attimo di esitazione sorrise cordiale.

John annuì e prese il foglietto di carta con scritto indirizzo e orario dell’appuntamento.

Stava andando tutto troppo bene per essere vero.

~*~

Quel pomeriggio arrivò a Baker Street con venti minuti di anticipo.

Rimase in strada per i successivi dieci, camminando avanti e indietro sul marciapiede di fronte alla porta del 221B, strofinando le mani tra loro in un chiaro gesto nervoso. Per un attimo pensò pure di andarsene, di scappare ancora una volta da quello che lo aspettava e che aveva paura di affrontare, ma non lo fece, non questa volta. Era un uomo, che diamine, doveva risolvere la cosa una volta per tutte.

Quando mancavano ormai cinque minuti all’ora dell’appuntamento John si decise a fare quegli ultimi passi che lo separavano dalla porta verdognola e, preso il coraggio a due mani, suonò il campanello.

Si udirono alcuni passi felpati all’interno, poi, dopo un tramestio di chiavi, comparve una signora sulla settantina, vestita di un viola molto appariscente, che gli sorrise allegramente. «John Watson?» chiese, ignorando l’espressione stupita del ragazzo che aveva gettato un’occhiata al biglietto che teneva ancora in mano, preoccupato di aver sbagliato indirizzo. Nel sentire il suo nome alzò nuovamente lo sguardo e annuì.

«Oh bene! Ti stavamo aspettando… sono la signora Hudson, la governante degli Holmes. Prego, entra…» disse, aprendogli la porta.

Si ritrovò in uno spazio angusto e quasi buio, occupato per buona metà da una scala che portava al piano superiore. «Mycroft ti sta aspettando di sopra, caro. Vuoi del the? Ve lo porto su appena pronto.»

John le sorrise e scosse la testa. «No, la ringrazio.» disse, poi, assecondando l’invito della signora, avanzò verso le scale e le salì, fino al primo pianerottolo, dove una porta aperta rivelava l’interno dell’appartamento, piccolo ma accogliente.

«Ehm… Posso?» chiese titubante, affacciandosi verso il salotto dove la figura di un uomo era seduta su un’ampia poltrona nera.

Mycroft alzò lo sguardo dal giornale che stava leggendo e fece un cenno di saluto con il capo. «Prego, vieni…»

John avanzò nella stanza, strofinando tra loro le mani e guardandosi intorno con curiosità. Come aveva intuito alla prima occhiata l’appartamento non era molto grande: in quel momento si trovava nel salotto, occupato per la gran parte da mobili, due poltrone e un divano. Le tende alle due finestre presenti erano tirate e gettavano la stanza in penombra. Sulla sinistra il fuoco scoppiettava allegramente nel caminetto, sopra al quale una strana varietà di cianfrusaglie giaceva su di una mensola, tra cui un teschio e un pacco di fogli tenuti fermi da un coltello.

Sulla parete di sinistra una delle cose che lo colpì particolarmente fu il grande smile giallo disegnato sulla carta da parati, di un’orribile trama a fiori neri.

«Perdona il disordine, la signora Hudson fa il possibile, ma c’è sempre qualcosa…» sospirò stancamente, chiudendo il giornale e posandolo sul tavolino tra le due poltrone. «Siediti pure, abbiamo molto di cui parlare.»

John annuì e, appoggiata la giacca all’appendiabiti lì vicino, andò a sedersi sull’unica poltrona disponibile posta di fronte a quella del maggiore degli Holmes: una rossa, dall’aria molto comoda, cosa che poté confermare un attimo dopo, sprofondandoci dentro.

«A quanto ho capito Jim Moriarty si è preso alcune libertà nei confronti di mio fratello.» cominciò l’altro, accavallando le gambe e fissando il suo ospite con occhi attenti e inquisitori.

Il ragazzo annuì, cercando di mantenere il suo sguardo. «Mi ha dato… alcuni documenti.» mormorò.

«Già, ovvio. Inutile dire che ce lo eravamo aspettati.» Sorrise, come se non potesse ricevere notizia migliore, sotto lo sguardo sorpreso di John.

«Ve lo… eravate aspettati?» chiese sconcertato.

Mycroft sospirò. «Oh John, ci sono molte cose che non sai…» fece una pausa, passandosi una mano sugli occhi. «È una storia abbastanza complicata, ma tenterò di essere il più esaustivo possibile.»

Frugò nella tasca interna della giacca e ne tirò fuori un fascicolo di documenti piegati a metà, che dispiegò e porse al ragazzo. «Ho ragione di pensare che tu non gli abbia letti fino in fondo, non è così?»

John annuì e afferrò riluttante i fogli. «Non penso che sia necessario… sono fatti suoi.»

«Date le circostanze, non più.» Il ragazzo più grande osservò l’amico di suo fratello scorrere colpevole le righe.

«È successo veramente, questo non penso sia più un segreto. In passato Sherlock ha, a tutti gli effetti, abusato di sostanze stupefacenti, danneggiando la sua salute per un lungo periodo. La situazione mi è sfuggita di mano, abbiamo avuto troppa fiducia nelle sue capacità intellettive. Ma purtroppo la sua situazione non era una delle migliori…»

John deglutì a vuoto, incapace di leggere altro, e riportò lo sguardo sul maggiore degli Holmes.

«Ha sempre ricevuto maltrattamenti dai suoi compagni di classe o semplicemente da ragazzi dei licei in cui è stato. È sempre stato solo, lui e la sua grande vivacità e dannata curiosità. Non sarei dovuto rimanere sorpreso di quello che è successo.» sospirò. «Ha cambiato un liceo all’anno, come puoi vedere. Non è resistito di più nello stesso posto, almeno fino all’anno scorso…»

«Per-perché

Mycroft lo scrutò attentamente. «Sono stato costantemente in azione, l’ho controllato dal suo primo giorno. È stato un anno perfetto, almeno fino a quando non sei arrivato tu.»

John rabbrividì.

«Sono rimasto piacevolmente sorpreso dal tuo atteggiamento nei confronti di mio fratello, in tutti i sensi. Sherlock non ha… non ha mai avuto un amico, uno vero intendo

Poté quasi vedere un barlume di ringraziamento nel suo sguardo mentre pronunciava le ultime parole.

«Anche se non capisco cosa possa essere successo negli ultimi mesi di così grave perché potessi negargli la tua amicizia.»

John divenne all’improvviso paonazzo e tentò di spiegarsi, ma l’altro lo bloccò con un gesto della mano.

«Non è nei miei interessi saperlo, sono qui per altro.» Diede un’occhiata veloce all’orologio da polso, poi si schiarì la voce. «E ora, veniamo al punto del nostro incontro. Ci sono alcune cose che non sai, ma ho ragione di credere che sia meglio che tu ne sia al corrente.»

 

 

Il corridoio era silenzioso, privo del chiacchiericcio e dei passi degli studenti. Non c’era nessuno, a parte lui e il ragazzo che lo aveva seguito fino a quel punto.

Preso un respiro profondo, Sherlock si girò.

«Non sono ancora riuscito a sottrarla a Mycroft.»

Moriarty sorrise, poi portò gli occhi al soffitto e le mani ad unirsi dietro la schiena. «Non importa, sono sicuro che puoi farcela, mio caro Sherlock Holmes…»

«Perché lo hai fatto?» ribatté il moro, fissandolo con occhi vacui. «Perché hai ucciso Powers

«Oh andiamo… non ci sei arrivato?» Moriarty rise, riportando lo sguardo sul giovane di fronte a sé. «Sei così ingenuo…»

«Così dannatamente noioso.» ribatté l’altro, stizzito.

«Ah sì?»

«L’hai ucciso perché aveva scoperto la verità, perché sapeva che eri un ladro e un assassino.»

«Uh… dai, ti prego. Non era così intelligente.»

Sherlock fece qualche passo in avanti, lentamente, scrutandolo dalla testa ai piedi. «Troppo intelligente, troppo superiore per rimanere semplicemente a guardare il mondo che ti gira intorno, troppo per aspettare, per crescere.»

«Pensi che, se avessi cominciato dopo, sarebbe stato meglio?» ghignò. «Ho ucciso a tredici anni, [2] come pensi che sia vivere una vita così monotona come tutti gli altri? Ma tu ne sai qualcosa, vero?»

«Perché tutti questi giochetti? Perché non farmelo capire e basta?»

«Andiamo… non dirmi che non ti sei divertito.» Si lisciò la camicia, lanciando una veloce occhiata al proprio orologio.

«Potrei denunciarti, potrei dire tutto a mio fratello.» si arrischiò Sherlock, osservando con attenzione la reazione di Moriarty, che a quelle parole rise.

«Beh… tu fallo, e sappi che ti brucerò. Ti brucerò il cuore, te lo garantisco.»

Il ragazzo rabbrividì, passandosi la punta della lingua sulle labbra. «E se trovassi un modo per raggirarti?»

«Beh, allora buona fortuna. Credimi, ne sarò veramente sorpreso.» disse, e con un ultimo sguardo al giovane Holmes, se ne andò.

 

 

«No…»

«Sì.»

«Moriarty… non può essere.»

Mycroft sospirò e portò le punte delle dita alle labbra. «Ci ha ricattato, Dio solo sa quanto sia intelligente quel ragazzo. Lavora per una rete terroristica, vuole alcune informazioni da me e per averle è arrivato fino a minacciare mio fratello.»

«Che cosa?»

Il maggiore degli Holmes annuì tristemente. «Ricopro un certo ruolo nel governo e ha richiesto la mia attenzione riguardo alcuni… alcune cose.»

Sospirò e si allungo sulla poltrona, osservando John con un mezzo sorriso sulle labbra. «In definitiva, Sherlock se n’è andato da quella scuola per questioni di sicurezza. Moriarty ha avuto quello che gli interessava ma non ho intenzione di mettere a rischio la sua vita più di quanto non lo sia già stata. Per quanto ti riguarda, John, puoi tranquillizzarti, non hai nessuna colpa in merito.»

Il ragazzo si afflosciò sulla poltrona, a metà tra il sollevato e il frustrato. Aveva passato settimane a cercare di scacciare quel senso di colpa che lo attanagliava in ogni momento, e alla fine, Sherlock se ne era sì andato, ma per motivi che non lo riguardavano minimamente.

«Ora…» diede un’altra occhiata all’orologio, poi una alla porta, e infine tornò su John. «Sherlock frequenta attualmente una scuola privata, dove possiamo essere certi che non gli accada nulla. Mi aveva chiesto di non coinvolgerti in tutto questo perché a quanto pare teme alla tua incolumità ma credo che date le circostanze sia meglio che tu sappia tutto, per filo e per segno. E…»

Il campanello suonò al piano di sotto, seguito da alcuni passi veloci che andavano ad aprire. «Sherlock, caro… cosa succede?»

John spalancò gli occhi, mentre Mycroft allargava il suo sorriso e abbassava lo sguardo, evitando accuratamente quello del ragazzo.

«Perché Mycroft è qui? Che cosa diamine è successo ora?» La voce irritata di Sherlock risuonò chiaramente sulle scale, avvicinandosi velocemente.

John si alzò di colpo, il cuore che cominciava a battergli all’impazzata nel petto, e quando sentì la porta dell’appartamento aprirsi con un sonoro scatto non poté fare a meno di girarsi verso di essa, il fiato improvvisamente corto.

Il nuovo arrivato s’immobilizzò di colpo sulla porta, le parole che stava per pronunciare bloccate sulla punta della lingua, incapaci di essere esposte. Spalancò gli occhi, un ricciolo che gli ricadeva sulla fronte dopo la corsa per le scale. Lo zaino cadde a terra con un tonfo sordo mentre i suoi occhi si posavano sulla bassa figura del suo unico amico, in piedi di fianco alla poltrona rossa, la sua poltrona.

«John…»

 

 

 

 

 

 

Note:

[1] ~ John : That was amazing.

Sherlock: You think so?

John: Of course it was. It was extraordinary. It was quite... extraordinary. – 1x01

~ John: You were the best man, the most human, human being, that I ever know… – 2x03

 

[2] Purtroppo non me lo sono inventata, nel telefilm si può chiaramente vedere la data in cui Moriarty ha ucciso Powers, quando Sherlock scrive il post sul suo blog alla fine della 1x03 per chiamarlo alla piscina. Con qualche rapido calcolo, ebbene sì, Moriarty ha ucciso a tredici anni.

   
 
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