Nove aprile: in ammollo.
La musica classica è un vizio che ci si concede
quando nulla si collega; quando le fila delle idee e dei pensieri
sfuggono inesorabilmente dalle dita tremule.
Le note dolciastre aleggiano,
vibrando sonanti, nell’aria satura
per un istante soltanto – giusto una manciata di secondi:
accarezzano le affannate tempie scompigliate e
si crogiolano nei lineamenti del volto sfumati;
scivolano sulla poi sulla pelle, increspandola di brividi,
circondano le imperfezioni e i segni violacei svettano
con quella maestria quieta che descrive il moto delle stelle;
il corpo è una tavolozza di colori screpolati,
lasciati asciugare senza cura alcuna;
eppure, nonostante tutto, è così prezioso, il corpo.
Le note tintinnanti infine precipitano,
gocciolano con un infantile plic, plic, plic:
lacrima dopo lacrima,
risata dopo risata,
melodia dopo melodia;
ogni cosa stilla nell’acqua tiepida
e spumosa della vasca da bagno.
Allungo i muscoli rattrappiti della schiena,
li sento cedere e rinnovarsi insieme;
mugolo sommessamente – sono preda debole
di questo tepore così familiare e così melanconico;
le dita sguazzano libertine tra le bolle profumate,
in linee immaginarie, curiose, proibite nella loro impossibilità.
E intanto l’incanto dell’orchestra, dell’opera, dell’aria,
mi accompagna verso l’oblio dei sensi;
è una sostanza piacevolmente unta e viscosa
quella che m’imbratta le idee e le sinapsi;
il diaframma trema quando inspiro troppo poco
per poi espirare troppo velocemente.
Lo spartito impone pause e rincorse;
fughe e riprese; dona equilibrio, la musica.
E qui giaccio, quindi, inerme e immobile;
in ammollo tra sogno e realtà;
improvvisamente estranea ad ogni cosa, a chiunque.
*