Capitolo
4
Presto,
presto, Elsa si
dice, eppure, le mani si fermano prima di poggiarsi sulle maniglie.
Dietro di
lei i ritratti di re e regine la fissano con occhi accusatori, occhi
che sono
infilzati come pugnali nella sua schiena. Cristalli di ghiaccio blu
scuro,
rabbioso, si alzano lentamente dai suoi piedi. Guarda le porte; non le
aveva
mai osservate sul serio, mai. Bianche, fiori verdi
e viola, diamanti,
vortici. Le maniglie sono d’oro.
Elsa
fa un respiro profondo.
Dietro quelle bellissime porte c’era qualcuno che non voleva
vedere. Chiunque
sia dalle Isole del Sud—dopo Hans—è
tutto quello che sente è tua sorella è
morta, e tutto quello che riesce a vedere è la
spada che si spezza,
frammenta, in un milione di pezzi.
Non
essere il
mostro che vogliono tu sia, che pensano tu sia, non essere,
mostro—
Come
poteva qualcuno
desiderare il potere a tal punto?
Elsa
fa un respiro profondo,
ma uno diventa due, e tre, e poi si ritrova ad avere
l’affanno. Dà le spalle
alla porta. Il ghiaccio scricchiola sulle pareti, crescendo come muffa
negli
angoli del soffitto. Nata e cresciuta ed educata per questo, pensa,
guardando
il ritratto che era sempre stata costretta a guardare, vicino allo
spazio vuoto
dove sarebbe stato appeso il suo, un giorno; ma non pronta. Come
avrebbe
potuto, chiunque, essere stato pronto, per quello che era successo?
Forse
insegnandole prima di
tutto come si ama, Elsa pensa con amarezza, voltandosi di scatto verso
il
ritratto, gli occhi del re, la preoccupazione passiva della regina, ed
ecco i
primi sovrani di Arendelle di fronte a lei ancora una volta, e la
pittura
scorticata, spellata, nell’angolo. Elsa fissa la pittura.
È quasi color crema,
aria fresca sotto il blu scuro. Inspira. Espira. Il ghiaccio recede.
Con
un movimento veloce, si
volta verso la porta, e la apre.
"No,
non le serve
adesso, le serve solo un po’ di riposo—"
"E
in base a quali
conoscenze fai questa prognosi? Forse il Venditore di
Ghiaccio Reale ne
sa più del Medico Reale su questioni del genere?"
"Uh,
no, credo, ma
so—uh, la mia famiglia, che—"
"Devo
bendarle la
testa. Portami dell’acqua calda."
"Che—io?
No! Le serve
solo un po’ di riposo."
"Le
servono
bende."
"Riposo."
"Bende!"
"Riposo,"
Anna
geme. Le voci pulsavano bianche e arrabbiate dietro i suoi occhi. Sente
il
proprio letto sotto di sé, coperte familiari, cuscino
piatto. "Riposo.
Come credete che possa riposare, se urlate?"
"Le
mie scusa, vostra
Altezza." Questo doveva essere il medico. Non le era mai piaciuto; non
da
quando si era rotta il braccio arrampicandosi sul tetto del palazzo, e
lui
aveva dovuto per forza ri -romperlo,
già, no grazie. Continua,
"Dovrei solo fare un piccolo—"
"Vada
via. Per
favore," sbadiglia, rintanandosi più a fondo nelle coperte,
fredda fino al
midollo e con la sensazione di aver ingoiato un intero secchio di
feltro.
"La chiamerò…dopo…" sente
l'oscurità che la trascina di nuovo dentro
di sé. Sonno. Sonno è bello—
"Vostra
maestà."
Voce tesa, non è d'accordo, non fa niente—sonno,
sonno—
Sente
lo scatto della porta
e apre un occhio, cisposo. Tutto è troppo luminoso. Vuole
sibilare, e battere
in ritirata. Dice, "Non tu."
Kristoff
si ferma, proprio
sulla porta. Riesce a vedere la tensione nelle sue spalle, riesce a
sentire i
secchi passi arrabbiati del medico che se ne va, nel corridoio.
Continua,
"Voglio dire, se ti va. Puoi rimanere qui," sbadiglia di nuovo, e oh,
perché mai è così stanca, "se vuoi. O
puoi dormire nelle stalle," la
voce si fa più gentile, "Perché fai
così, eh? Ma tutto ok. Non giudico.
Beh, un poco giudico…" si strofina l'occhio. Kristoff sembra
avere una
disputa interna, senza dubbio con Sven. E’ in piedi sulla
soglia della porta.
In piedi. In piedi—
Si
alza all'improvviso,
troppo veloce, e il mondo vortica. "Woah."
"Ehi,
furia
scatenata," fa, lasciando che la porta si chiuda, e si avvicina al lato
del letto. La spinge di nuovo giù sui cuscini.
"Rilassiamoci, ok?"
"No,"
lotta,
spinge via il braccio, ma è come lottare contro un carro
spazzaneve, "la
tua gamba, come—non era rotta?"
Kristoff
abbassa lo sguardo,
sollevando una gamba come se non sapesse come usarla, e poi dice,
"Ma—voglio dire, mia madre—l’ha
aggiustata. Non è la mia vera madre.
Adottato, sono stato—adottato—comunque."
Vuole
dirgli che l'aveva
capito, dalla, sai no, cosa dei troll, mentre se ne sta lì
in piedi, sfregando
il pavimento col piede. Vuole anche chiedergli spiegazioni, ma il mondo
vortica
ancora e si rende conto che non è il momento giusto. Fa
alcuni lenti respiri
dal naso, e finalmente riesce a far funzionare la bocca. "Quindi, tutto
ok?"
"Quasi."
Le fa un
sorriso storto. "Dovresti dormire."
"Lo
so," e lo
sente arrivare di nuovo, come un lupo che si preparava a balzare o
così—ma i
lupi balzavano? Faceva schifo con le metafore—dà
dei colpetti con la mano al
letto, accanto a lei, senza arrossire perché non pensa a
niente tranne che sonnosonnosonno.
Sbadiglia. "Sembri…distrutto…" chiude gli occhi,
ascoltando il rumore
tenue degli stivali di Kristoff; sembrava come se stesse camminando
sulla neve,
e non su marmo o legno o qualunque cosa fosse il pavimento. Lo sente
tirare le
tende. La luce viene offuscata. Passo-passo-passo. " ‘ono
stanco…"
"Anche
io."
E
poi sente un bacio rapido,
timido, al lato della testa, l’unica parte di lei visibile da
sotto le coperte
visto che ha freddo. "Sono contento che stai bene.
Ma non farlo
più, ok?."
"Fare
che?"
Pausa.
Riesce a
immaginarselo guardare di lato. "Sai no. Farmi preoccupare e
così."
"Non
prometto niente,
tranne che per il così," sospira-sorride. Lo sente
rannicchiarsi accanto a
lei e riapre un occhio. "Che stai facendo?"
Kristoff
si è raggomitolato
sul pavimento, proprio sotto al suo lato del letto.
"Kristopher,"
e
non riesce a metterci abbastanza rabbia; è troppo stanca.
"C’è un’intera
metà del letto, qui. Prometto di dartene, cioè,
almeno un terzo."
L’espressione
di puro
terrore sul suo viso è ridicola, ed è troppo
stanca per sentirsi offesa.
"Beeeeeeene,
dormi sul pavimento, cavolo." Allunga il braccio alla cieca dietro di
sé,
prende il cuscino in più, e glielo lancia in testa. E poi fa
per togliersi la
coperta.
"No,"
dice,
"tienila. Sono abituato al freddo."
E
Anna, come un sogno che si
ricorda a metà, richiama alla mente quando era stretta
vicino a lui in quella
piccola fessura, che si sentiva, per la prima volta da quando tutta
quella—storia era iniziata, al caldo. Rabbrividisce sotto la
coperta. Ascolta
Kristoff sistemarsi sul pavimento. La stalla sarebbe stata
più comoda, a questo
punto. Si sente male. Si sente stanca.
Fa
cadere la mano. Kristoff
la prende.
E,
così, si addormenta.
Un
vento gelido la segue
nella stanza. Il fuoco vacilla, poi si spegne debole. Una finestra si
spalanca.
Riesce a sentire gli uccellini fuori, riesce a sentire il calore del
sole
estivo. E poi dice, "Mi perdoni, per favore, la mia—" la
mia
maledizione mi sfugge ancora di mano—ma si
interrompe bruscamente. Si
dirige al caminetto, sfregando un fiammifero sulla pietra di cornice e
lanciandolo nel legno ancora ardente. Ha deciso di lasciare la finestra
aperta,
lasciare la finestra aperta avrebbe—il sole, e—
Elsa
guarda in su, e poi
deve forzarsi a non fare un passo indietro, ad afferrarsi alla
scrivania. Sente
il ghiaccio formarsi sotto le unghie. Ogni centimetro del suo corpo
grida scappa.
"Regina
Elsa," si
inchina, e a quanto pare non si era accorto del suo passo falso.
Sono
gli occhi, pensa, dopo
che lo shock iniziale è diminuito, e il respiro si
è calmato; dopo che si è
detta calma, calma, calma.
Hanno
gli stessi occhi.
Si
concentra sulle altre
cose. Il naso storto, le evidenti
lentiggini—l’ammasso di capelli castani, che
erano sfuggiti a qualunque tentativo di tenerli in ordine. Le punte
erano
ricce. Si concentra su queste cose per evitare gli occhi.
Quando
si raddrizza, tiene
la lingua tra i denti e si guarda assorto l’avambraccio,
tenendo su la manica
della giacca bianca. Riesce a distinguere appena i bordi di una
scrittura netta
e disordinata, stampata lì sopra. Guarda prima lui e poi
lei, rapido, e poi
dice, abbastanza sconsolato, "Ho solo—ah, preparato una
cosina, ecco, mi
permetta—" Tossisce. Si inchina di nuovo. "Regina Elsa. Sono
il
Principe Albert, dodicesimo figlio della corona delle Pisole del
Sud—Isole," fa una smorfia, "ha, si è un
po’ sbiadito—e desidero
ringraziarla formalmente per—avermi ricevuto al
suo—cestello." Alza gli
occhi. Li riabbassa. Corregge, in fretta, "Castello. Il suo
castello."
Gli
occhi di Elsa schizzano
alla scrivania, e alla lettera poggiata sopra. Inizia a maledirsi, il
ghiaccio
le si forma attorno ai piedi, perché non
l’aveva letta l’avrebbe dovuta
leggere che cosa avrebbe dovuto fare ora—
"E,
uh, questo è
sbavato," borbotta sottovoce. Si morde di nuovo la lingua, e poi lascia
andare la manica con un sospiro. Quando i loro sguardi si incrociano,
il
ghiaccio sotto i suoi piedi aumenta. Spera che non se ne sia accorto.
"Volevo solo porgere le mie scuse ufficiali, per essere mancato alla
sua
incoronazione."
Elsa
batte le ciglia.
Stringe le mani. Dice, "Come, scusi?"
China
la testa, ma non
sembra essersi offeso terribilmente, per il fatto che non si fosse
nemmeno
accorta della sua assenza. "La sua incoronazione. Io e mio fratello
Hans
saremmo dovuti venire, ma ha sbagliato a darmi istruzioni nei pressi
del regno
di Corona, e poi una tempesta mi ha mandato fuori rotta—io e
miei uomini
abbiamo attraccato solo adesso."
Elsa
chiede, "Solo
adesso?"
"Sì.
Avevo altre cose
da dire—che avevo preparato—ma
io—è—" si tira su la manica, e il
braccio
non è altro che una macchia nera d’inchiostro
sbavato. Borbotta, "Per lo
più erano congratulazioni e roba del genere—si
sta, uhm, godendo—la reginità?
L’essere regina?"
Elsa
si sente galleggiare.
Dice, "Mi perdoni, Principe Albert."
Esce.
Kristoff
si rigira nel
sonno, russando piano, e usa il braccio di Anna come coperta. Lei
scivola dal
letto per metà, ma non si sveglia.
La
stanza di Elsa è una
tempesta.
Marcia,
avanti, indietro,
avanti, indietro, e il ghiaccio si insinua come edera sulle pareti,
fondendosi
sul soffitto in una moltitudine di fiocchi di neve che brillano alla
luce
estiva. Il vento vortica attorno a lei, tende, lenzuola e vestiti
completamente
coperti dal ghiaccio. Si mette le mani tra i capelli. Avanti, indietro,
avanti,
indietro. Calmati. Doveva calmarsi, tutto questo non poteva uscire da
quella
stanza—
Dannata
maledizione!
Il braccio
scatta di lato e l’armadio scoppia, colpito da un getto di
ghiaccio. Fissa per
un momento la propria mano tesa, poi i frammenti di legno spezzato, e
si chiede
come sarebbe, solo per un momento, essere normale,
essere capace di sentire,
completamente. Niente a metà. Sentire come faceva Anna. Elsa
pensa che magari
forse c’era la possibilità che stesse iniziando a
farlo, ma questo era troppo—
Si
ferma al bordo del letto.
Ha il respiro affannoso. E pensa, debolmente, come se ancora non fosse
possibile—
Posso
parlarne
con Anna.
E
poi pensa—
Anna
si sta
rimettendo.
E
poi—
Ho
bisogno di
lei adesso.
Elsa
fa un passo verso la
porta, si morde il labbro, si ferma. Aveva un principe delle Isole del
Sud in
biblioteca e una situazione delicata tra le mani e non aveva dormito
e—
Esce
dalla stanza, chiudendo
la porta sulla piccola tempesta. Tre, quattro passi, ed eccola alla
porta della
sorella. Si ferma proprio prima della maniglia; poi, sfogando la
propria
preoccupazione sul suo labbro, la apre, cercando di ignorare la traccia
del
proprio ghiaccio che si insinuava sul telaio mentre lo faceva.
Anna
è stesa sul suo letto a
metà, la fronte appoggiata alla spalla di Kristoff; il
venditore di ghiaccio è
accovacciato sul pavimento, e le stringe una mano. Elsa chiede, "Cosa
state facendo voi due?"
Kristoff
si sveglia di
soprassalto. Svegliandosi immediatamente, si tira anche
su a sedere immediatamente, e la sua
fronte sbatte contro quella di Anna. "Ohi," sibila senza energie, e
poi perde l’equilibrio e cade dal letto. È un
pasticcio, tutto, ed Elsa è
sicura che il bernoccolo extra non avrebbe fatto
bene al cervello già
ammaccato di sua sorella, ma questo—"Hai detto che ti saresti
assicurato
che era sistemata," fa, rigida.
È
troppo.
"Uhm,"
Kristoff
risponde, guardando la mano che stringe, e Anna mezzo stesa addosso a
lui.
"Gli
ho chiesto io di
restare," Anna replica, sedendosi, massaggiandosi la testa, "Era
distrutto. C’è qualcosa che non va?"
"Questo!"
Elsa
dice—c’è un principe nella sua
biblioteca e un uomo in camera di sua sorella e
questo—"Pensi che visto che sei una principessa puoi fare
quello che vuoi
senza pensare alle conseguenze?" Il vento aumenta, insinuandosi nelle
fessure.
"Perché
ti arrabbi
tanto?" Anna risponde. Stringe gli occhi. "Stava dormendo sul
pavimento!"
"Anna,"
Elsa
chiude gli occhi, pregando affinché le venga data pazienza,
e tutto quello che
riesce a vedere è mani che si stringono. "Hai
un’immagine da mantenere. La
proprietà d’immagine. Non mi interessa chi sia
lui, non può rimanere in camera
tua senza controllo, le persone inizieranno a parlare—"
"Lasciale
parlare," Anna dice, alzandosi in piedi, spazzolandosi il vestito,
massaggiandosi la testa. "Io non —che t’importa, e
ok, Elsa, scusa, non
per essere deprimente, qui, ma nessuno non
parlerà di nient’altro
che della tua crisi col ghiaccio —che, sì,
è stata colpa mia, ma—"
"Per
favore,
vattene," Elsa dice. Kristoff si alza. Il suo viso è rosso.
"Sì.
Certo."
"Elsa—"
"No,"
Elsa dice
piano. Il vento si alza, la temperatura precipita. Se Anna è
troppo agitata da
accorgersene, Kristoff no. "Sei una principessa, Anna. Ecco una
responsabilità che deriva dall’apertura dei
cancelli. Non si tratta più solo di
te."
Kristoff,
che aveva preso il
berretto per schiacciarlo tra le mani, dice ad Anna, "Ci, uh, vediamo
dopo." Ha gli occhi piantati a terra. Si ferma da Elsa.
"Io—solo
che—mi dispiace."
Elsa
annuisce prendendone
atto. Ecco l’edera di ghiaccio, sul muro. La porta si chiude.
Guarda Anna,
mezza aggrovigliata nella coperta, i capelli un pasticcio, con gli
occhi
torbidi e col bisogno di dormire ancora, e lo sa subito che non
può parlare con
sua sorella di queste cose, che era una stupida, sciocca idea, che se
non fosse
mai entrata questo litigio non sarebbe mai successo—
"Perché?"
tutto
quello che Anna chiede.
"Ti
ho detto
perché," Elsa dice, voltandosi. Testa alta, collo rigido. Il
vento cala,
il ghiaccio si ritira. "Sei una principessa, Anna. È ora che
inizi a
comportarti da tale."
"è
per questo che sei
venuta qui? Per urlarmi contro?"
Elsa
si ferma alla porta.
Mentire è semplice. "Per vedere come stavi."
Kristoff
scivola piano nelle
stalle. Fa caldo, e c’è puzza di cavalli e fieno.
È tarda mattinata, ma sembra
tarda notte, gli occhi pesanti, appiccicati, le braccia e le gambe
molli.
Crolla nel mucchio di fieno più vicino. Dopo alcuni momenti
sente un piccolo
strattone alla camicia.
"Ehi,
amico."
Sven
muove le labbra.
"No,
sì, Anna sta
bene." Prende il berretto e se lo appoggia sul volto. Sa di sudore,
sembra
oscurità. "Che c’è che non va,
allora?" Sven vuole sapere.
"Beh, non c’è niente di meglio
dell’essere ricordati della questione della
principessa. Di nuovo." Sven gli domanda, "Da chi?"
Risponde, "Dalla regina Elsa. Capisco. È una principessa. Io
no."
Sven chiede, "Quindi vuoi essere una principessa?"
Kristoff
solleva il berretto
tanto quanto basta per guardar male l’amico.
È
stanco. Era stato
indiscreto, qualcosa che non sarebbe mai dovuto accadere, ma dopo aver
sentito
il respiro farsi sempre più debole per tutta la notte e
averla portata dai
troll e sua mamma e dopo tutto quello che era successo, tenersi un
po’ per
mano—
Ma
la proprietà di immagine.
Elsa aveva ragione.
Kristoff
chiude gli occhi.
"Perché
le cose non
possono mai essere semplici," geme.
"Suppongo
che—i litigi
arrivino con—il territorio, no?" Anna brontola, infilandosi
una scarpetta,
e poi l’altra, e poi inciampando, con un oof!
Fuori dal letto. Cade sul
pavimento e si fa male, e questa volta non c’è
nessuno ad attutire la caduta.
Rimane seduta lì per un minuto, cercando di fermare le
vertigini. La mano che
Kristoff aveva tenuto stretta è ancora calda.
Si
abbraccia le ginocchia,
appoggiandovi la fronte. Il pavimento era freddo, e anche lei. I venti
provocati da Elsa si erano scatenati, là dentro. E
lì, in un angolo del
soffitto, c’era una singola stalattite di ghiaccio, il colore
delle campanule
d’estate, ritorto e spezzato e assolutamente bello. Vorrebbe
poterlo fare. La
cosa della magia del ghiaccio. E la capisce. La questione della
principessa.
Ok, forse non è che la capisce, capisce
proprio, ma—beh, ci sta
arrivando. E forse far rimanere Kristoff in camera con lei da soli non
era
stata un’idea delle migliori—anche se non
è che stavano facendo—
Facendo—
Hnn—o—niente.
Non
che hnnare con
Kristoff fosse una cosa brutta o un’idea di cui lamentarsi,
in realtà era una
bella idea, ma pensava anche alle porte aperte e a trovare il proprio
posto e a
prendersi il proprio tempo—ma era difficile quando tutto era
nuovo e roba così
e—
Fa
un respiro profondo. Si
siede. Ok, non era questa la ragione. La ragione di tutto
ciò è che anche Elsa
aveva una ragione. Un sacco di ragioni. Troppe ragioni.
E
una parte di Anna le dice
che Elsa non era entrata solo per vedere come stava. Una parte di Anna
le dice
che Elsa l’avrebbe lasciata dormire.
Il
che significa che
qualcosa non andava.
Si
alza dal pavimento,
aiutandosi col letto. Scivola fino alla porta. È la maestra
di come si impiega
minor sforzo possibile per ottenere il massimo risultato—cade
sulla maniglia,
ed è ancora fredda. Fuori il sentiero di ghiaccio porta fino
all’atrio, fino
alla stanza di sua sorella.
Non
si ferma davanti alla
porta. Non lo fa più, non bussa nemmeno—si fionda
dentro, già parlando,
già—"Elsa? Mi dispiace. Voglio dire, per Kristoff.
Suppongo che posso
dirti che non stavamo—facendo niente,
perché di queste cose si parla tra
sorelle, no? Non lo so. È
tipo…già…" Anna smette di parlare. La
stanza è
un macello. L’armadio è ridotto in pezzi,
nell’angolo, e il legno è sparso per
il pavimento. Sembra un relitto. I muri gocciolano, il ghiaccio si sta
sciogliendo, e i vestiti di Elsa sono arrotolati a terra.
Anna
è colpita da un
improvviso attacco di vertigini. Si copre la bocca, scivolando senza
grazia
fino al letto della sorella. Le coperte erano l’unica cosa
miracolosamente
asciutta, grazie al baldacchino di sopra. Si stende per un momento,
respirando
dal naso, espirando dalla bocca, provando a sopprimere la nausea.
Il
baldacchino è un noioso
blu scuro. Quanti anni aveva passato, sua sorella, a guardarlo?
Anna
si raggomitola su un
fianco. Il letto aveva l’odore di una mattina
d’inverno.
Chiude
gli occhi.
Elsa
è di nuovo nella sala
dei ritratti, e guarda le porte bianche che danno nella libreria. Sta
dando
forma a un piano—cioè, una lista di quello che sa,
e la speranza che ne venga
fuori qualcosa.
Il
Principe Albert delle
Isole del Sud è dall’altro lato di quella porta.
Il
principe Albert delle Isole
del Sud, dirottato, non era a conoscenza del tradimento di suo
fratello, né dei
poteri di Elsa, né
dell’inverno-durante-l’estate.
Il
problema era, cosa fare
col Principe Albert.
Si
sarebbe offeso, se
gliel’avesse detto e basta? Avrebbe preso la spada
e—
Elsa
scuote la testa.
Iniziava a sembrare sua sorella. C’era una pecora nera in
ogni famiglia.
Dopo tutto, pensa piuttosto
cupa, facendo
galleggiare un fiocco di neve sulle nocche, guardate lei.
Apre
le porte. Il principe
chiude il libro che stava leggendo con un colpo secco, e
un’espressione
colpevole, ri-infilandolo a forza nello scaffale. Esclama,
"E’ Tristano
e Isotta. Lo leggo per le parti in cui combattono con la
spada." Fa un
mezzo sorriso. Quando lei non ricambia, scivola via dal suo volto.
Elsa
dice, "Principe
Albert. Forse dovrebbe sedersi. Ci sono delle…cose
di cui ho— ho bisogno
di metterla al corrente."
E
in quel momento la porta
alle sue spalle si riapre. Sente il brivido della propria magia. Olaf
chiede,
"Elsa? Pensavo solo che dovresti sapere che Anna è in camera
tua. E poi,
qualcosa ha distrutto il tuo armadio," conclude, con un sussurro.
Il
principe sposta lo
sguardo tra lei e il pupazzo di neve che batte le piccole mani, avanti
e
indietro.
Il
principe dà di matto.
"Ciao,
fratello. Cielo,
sembri così arrabbiato! Le sbarre di metallo non si addicono
a uno con la pelle
chiara e delicata come la tua."
"Sei
qui per
gongolare?"
"No.
Immagino che già
ci abbiano pensato abbastanza gli altri. Ci hai provato. Non posso
incolparti
per averlo fatto. Impariamo dai nostri errori, e tutto il resto. Forse
la
prossima volta mirerai un po’ più in basso."
"Come
hai fatto tu? Tu,
che ti accontenti di rimanere nelle ombre—"
"Ah,
fratellino. Sono
abbastanza contento della mia posizione. Forse, se lo fossi stato anche
tu,
adesso non saresti lì a mangiare senza il tuo cucchiaio
d’argento."
"Sta
zitto."
"Hans.
Pensavo di
averti insegnato qualcosa."
"Nessuno
di voi mi ha
mai insegnato niente."