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Autore: Ely79    14/04/2014    2 recensioni
Vorreste trasformare la vostra ridicola Urbanhare in un mostro capace di far sfigurare le ammiraglie del Golden Ring? Cercate più spinta per i vostri propulsori a vapore compresso? Spoiler e mascherine su disegno per regalare una linea più aggressiva al vostro mezzo da lavoro? Una livrea che faccia voltare ogni testa lungo le strade che percorrete? Interni degni di una airship da corsa, con quel tocco chic unico ed inimitabile?
Se cercate tutto questo, grande professionalità ed un pizzico di avventura, allora siete nel posto giusto: benvenuti alla "Legendary Customs".
[Ambientazione Steampunk]
Genere: Avventura, Commedia, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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L.C. - Cap. 32
32

Boy si appoggiò alla porta inspirando con cautela. Poteva distinguere ogni costola lungo il lato destro del torace, per non parlare delle caviglie su cui quel bastardo di Benny aveva passeggiato allegramente dopo averlo malmenato. Questa volta non aveva aspettato che entrasse in casa: l'aveva atteso sulle scale e lì l’aveva lasciato quando la soddisfazione l’aveva spinto a festeggiare nella prima bettola del quartiere. Benny non aveva nemmeno cercato una scusa questa volta, si era limitato ad aggredirlo a calci, pugni e insulti, così, perché si divertiva a picchiare lui che reagiva e quasi lo istigava, piuttosto che sua madre, ridotta ad incassare senza nemmeno un fiato o una lacrima.
Bussò piano. Persino le unghie gli facevano male e controllando notò due lividi che si allargavano sotto quelle dell’medio e dell’anulare.
Le altre tre le posso comunque usare, pensò sentendosi in parte consolato.
Dall’appartamento non giunse risposta, eppure nelle tempie percepiva un ronzio. In cortile non aveva visto il trabiccolo con cui Ozone si muoveva di solito.
«Cazzo, non mi avrà lasciato di nuovo a piedi?» borbottò bussando una seconda volta.
Ancora nulla. Silenzio e frizzi tremuli nell’aria. No, era sicuro che ci fosse. Quegli scoppiettii erano una traccia inconfondibile.
«Ehi, vecchio? Mi senti? Sto entrando» chiamò, frugando nelle tasche in cerca delle chiavi.
L’ultima volta che non si era annunciato, aveva trovato Ozone con le brache calate e una donna nuda cavalcioni sulle sue gambe. Quella l’aveva preso per il nipotino e gli aveva persino chiesto se voleva unirsi a loro. Ozone, una volta ricompostosi, gli aveva dato ad intendere che se avesse avuto “bisogno”, la sua amichetta gli avrebbe fatto un prezzo di favore.
Scacciò i ricordi e infilò la chiave alla toppa, ma la sentì girare a vuoto. La porta era aperta.
Nell’appartamento tutto sembrava essere al proprio posto, tranne il motorista. Di lui non c’era traccia. Boy gironzolò per la stanza, scorgendo il debole luccichio della pistola incastrata tra il bracciolo e il cuscino della poltrona.
Seguì i crepitii e lo trovò in quella che doveva essere la camera da letto. Andava per supposizioni, giacché la penombra confondeva ogni cosa e raramente si era spinto più in là del soggiorno. Al massimo aveva sbirciato nel cucinino.
Ozone era disteso su quello che poteva essere un letto sgangherato o una catasta di assi coperte con un telo. Respirava con lentezza, le trecce della barba strisciavano sul petto come due serpenti grigi e addormentati. Si mosse appena, sollevando una mano in segno di saluto. Pareva stesse spostando da solo la bancata di un motore.
«Muovi il culo, vecchio. È tardi» borbottò Jessie, mostrandogli il solito sacchetto dalla porta. «Oggi c’erano anche con i peperoni, mamma te ne ha messe un paio ma non so se ti piacciono».
Il maestro inspirò profondamente e tossicchiò.
«Non dire stronzate, non mi muovo se non vieni» fece il ragazzo, dondolando sui talloni.
Smise subito, sentendo le giunture riprendere a bruciare, e sedette sul pavimento mugolando tra i denti. Evitò di scoprire se il mentore si fosse voltato a guardarlo: l’avrebbe capito anche un cieco che quelli non erano sbuffi o sbadigli. Aprì il cartoccio combattendo contro le fitte alle dita martoriate e tirò fuori un paio di focaccine. Addentò la prima masticando rumorosamente, sperando di scuotere il lato perbenista del collega che, ancora steso, insisteva a fissare il soffitto.
«E allora?» ciancicò, stizzito dal fastidioso prurito al naso che i discorsi muti di Ozone gli stavano trasmettendo. «Tanto Clay ha detto che i catorci li mandiamo a esaurimento, idem quello che arriva dai clienti. La priorità va alla airship di Gunnar, ma di quella non abbiamo niente finché Scorch non fa un progetto come si deve. Chi se ne frega se stiamo qui, posso recuperare domani… se non te la senti ancora di venire» soggiunse, a malapena udibile.
Sfiorò con le dita l’ultimo piercing superstite all’angolo del labbro inferiore. Aveva tolto quello nel mezzo e i tre su quello superiore dopo che in un tentativo di applicare le sue capacità, si era quasi ritrovato con un buco delle dimensioni di un trias sotto la narice sinistra, dove prima aveva un Triple Pin1. E dire che il piccolo ornamento che aveva inserito l’aveva fatto letteralmente di sua mano ed era venuto piuttosto bene.
A fatica, Ozone si mise a sedere. Boy notò solo allora che i vestiti cominciavano a stargli larghi ed erano gli stessi da un paio di settimane. Anche la pelle sembrava più rugosa e cadente di quanto ricordasse. Aveva persino l’impressione che la polvere di casa si fosse appiccicata addosso al maestro.
«Mangi?» gli domandò, allungando il sacchetto.
L’anziano sospirò respingendolo.
«Mangia e non farmi incazzare, che non sono la tua balia!» sbottò cacciandogli in mano una focaccia.
Dietro la solita irruenza, Ozone distinse chiara la preoccupazione. Erano quasi tre anni che si conoscevano e da due il ragazzo aveva assunto stabilmente il ruolo di allievo, non solo alla “Legendary”. Trovava che la sua vita, passata per le strade di New Homes – il quartiere più povero e malfamato di Port Serafine –, obbligandolo a crescere facendo il bullo ad ogni costo per non soccombere al gradasso di turno, somigliasse molto alla sua, trascorsa in un paese in guerra, dove sospetto e paura potevano decretare la fine di un’esistenza. I piccoli gesti di affetto che Boy gli riservava dietro la maschera del cattivo erano il segno di qualcosa di grande e di cui non si sentiva mai degno.
Addentò la focaccia per fargli piacere, più che per autentico appetito.
Jessie rimase a fissarlo masticare il boccone con insolita lentezza.
«Cazzo! Abbassa la voce, ci sento» grugnì tappandosi le orecchie.
L’uomo annuì, posando una mano sulla gola nascosta dalla barba. Subito dopo indicò con l’altra il collare di cuoio che Odrin aveva realizzato per lui e che ora stava agganciato al sostegno di una mensola.
«Cosa vuol dire che quel coso non serve a niente? Avevi detto che…»
Non terminò la frase, finendo a contorcersi contro il muro con la testa fra le mani.
«Non urlare!» sbraitò.
Occorsero alcuni minuti prima che il giovane si riprendesse dai capogiri.
«Dimmi cosa cazzo hai» rimbrottò ansimando, ma Ozone riprese a tossire, negando stancamente.
Non gli era mai parso tanto fragile e disperato.
«Per piacere» insisté, più calmo.
Il motorista fece una delle sue risatine roche guardandolo alzarsi e ripulirsi da polvere e ragnatele.
«Non fare il coglione, per quello basto io» lo rimproverò, strizzando gli occhi quando, sedutosi al suo fianco, gli passò un braccio attorno alla spalla e un caos di voci gli esplose nuovamente in testa. «Dimmi cosa ti sta succedendo, Marcus».

***

La presenza di Thomas incombeva fra i muri della “Legendary Customs” da una settimana e aveva finito per snervare chiunque. I ragazzi avevano la costante sensazione che il colosso in giacca e cravatta li tenesse sott’occhio quasi fossero delinquenti pronti a compiere chissà quale crimine. Hito era arrivato molto vicino a perdere la sua proverbiale calma quando aveva scoperto che Hammond aveva messo a soqquadro il Sancta Sanctorum senza il minimo preavviso. Si era limitato a rivolgergli una breve frase in giapponese, inchinandosi rispettosamente, ma tutti erano convinti si trattasse di una qualche maledizione orientale che si auguravano riuscisse entro breve. A chi chiedeva conferma, Hito si limitava a rispondere serafico:
«Ho solo reso tributo alla sua persona, come si conviene in simili circostanze».
Patch aveva tradotto che l’avesse mandato a fare in culo.
Chi se la passava peggio però, era Charlotte. Thomas aveva chiesto di visionare i dossier societari per verificare la presenza delle certificazioni idonee a garantire la massima rapidità e correttezza formale dell’iter. Diceva di voler evitare ogni possibile intoppo o rallentamento, così lei viveva praticamente rinchiusa in ufficio, sotto lo sguardo cupo del tirapiedi. Non la mollava un secondo, la tartassava di richieste, le imponeva continue revisioni e approfondimenti di questo o quell’incartamento, restando in ufficio ben oltre il consueto orario di chiusura. Sandy sospettava che avesse dormito sul divanetto almeno un paio di volte. La poveretta non riusciva neppure a fare una pausa decente, tanto che il pranzo le veniva portato direttamente alla scrivania - sempre presidiata da Thomas che invece pareva campare d’aria - da Scorch o Maria Pilar.
Proprio quest’ultima stava strillando come un’ossessa sul ballatoio.
«Che succede, Maria?» chiese Niklas affacciandosi.
«“Che succede”?» domandò sorpresa la donna. «Estoy trayendo el gasto2» replicò innocente, mostrandogli le sporte di vimini.
Scorch fece per andare ad aiutarla, ma si accorse che sul pianerottolo sotto di loro era fermo Thomas. Capì subito che lo strepitare di poco prima era stato per lui. Rivolse uno sguardo di biasimo alla donna che, tutt’altro che intimorita, rispose imbronciandosi.
«Non lascia in pace la niña» sibilò poggiando a terra le ceste e piantando i pugni sui fianchi. «Está muy cansada3 y non ride più».
Scorch sospirò, grattandosi il mento.
«Maria, è solo un periodo complicato, credimi» la rassicurò, ma lei era di tutt’altro avviso.
«No es verdad. E tu lo sai, Nicolau» dichiarò aspra.    
No es verdad… certo che non è la verità, pensò avvilito. Questa cosa rischia di sfuggirmi di mano.
Uno strano senso di fastidio e rabbia si agitò dentro di lui, simile al lamento dello stomaco digiuno.
«Avviati, adesso arrivo» disse piano.
Appena la cuoca sparì oltre la porta della mensa, Niklas si rivolse a Thomas, che aveva ripreso a salire lentamente le scale. Pareva stesse valutando la capacità di ciascun gradino di sostenere il suo peso. Inutile fargli notare che avevano retto senza problemi Pancake per tutti quegli anni.
«Non è possibile allentare la morsa? Charlotte non è di ferro e la situazione è già abbastanza complicata senza che ci metti del tuo. E se non ricordo male, sei qui per aiutarla, non per farla dannare, o sbaglio?» ringhiò.
«I tempi sono stretti. È stata Vernet a ricordarcelo» ribatté piatto lo scagnozzo appoggiandosi alla balaustra.
L’ingegnere maledisse la solerzia con cui Clay la faceva controllare. Merito di Junior, che a due anni era quasi volato di sotto per colpa di un traverso allentato.
«Per te è la signorina Vernet» puntualizzò Niklas afferrandolo per il bavero. «E comunque, questo tuo atteggiamento è inammissibile».
«Ho ordini precisi a riguardo. E anche lei, se non erro» replicò liberandosi.
Lo sguardo del progettista si assottigliò. Sapeva che c’era dell’altro dietro le solite moine di Avelan, dietro la strana accondiscendenza di Goundoulakis. Così come sapeva che Thomas era più alto, più forte e più giovane di lui, ma quella mancanza di rispetto non gli andava giù.
«Fottiti, Tom» sputò seguendo Maria Pilar.
La trovò dietro la porta, con le ceste stracariche ancora in mano, una per parte. Inutile chiederle il motivo: aveva certamente origliato. Aveva l’aspetto di un bilanciere di stazionamento, di quelli nascosti nei retrotreni di alcune airship.
«Perché le porti così?» domandò, colpito dalla somiglianza.
Maria guardò i vimini traboccanti verdura e involti.
«¿Porqué? Porqué es conveniente, non mi stanco e non cado per terra» rispose titubante.
«Non cadi… per… terra?» balbettò.
«No».
Un enorme sorriso si allargò sul volto dell’uomo.
«Maria, mi amor!» gridò abbracciandola e schioccandole un bacio sulla guancia.
Agguantò le sporte, lanciandole letteralmente sul tavolo della mensa.
«Madre de Dios! Nicolau!» strillò lei inseguendo la spesa, pregando che le uova fossero ancora intere.
Corse in ufficio ululando come un pazzo, ignorando Sandy che aveva quasi travolto nella corsa. Gettò all’aria ogni cartelletta, rivista, quaderno, raccolta d’immagini e volume monografico di cui fosse in possesso, arrivando quasi a strappare le pagine per la foga, fin quando non trovò ciò che stava cercando.

***

«Ti ha dato di volta il cervello?» domandò Choncho, dondolando una grossa chiave inglese sulla spalla.
Inginocchiato sul pattino somigliava a Kutti, l’assistente rozzo e grufolante della saga di Tamior l’Avventuriero, di cui Bonnie aveva appena acquistato un nuovo volume.
«Quella?» sghignazzò Patch, controllando con un calibro se la fiancata accartocciata della Glorith α cominciava a staccarsi dalla scocca.
«Sai che in giro non se ne trovano più da almeno quindici anni?» bofonchiò il capofficina, impegnato a far leva con una sbarra lungo il profilo dell’abitacolo.
«Penso anch’io che non sia una grande idea» s’intromise Iron che, dal basso, spingeva con una seconda barra nella stessa direzione di Clayton.    
«Ti sei riattaccato alla bottiglia?» sghignazzò Choncho, strisciando sul pavimento per riposizionare l’attrezzo sull’enorme piastra ottagonale di serraggio che teneva in posizione la coppia di lamine laterali.
Niklas lasciò cadere le braccia, disgustato dall’assenza di reazioni positive.
Il metallo prese a cigolare, mandando clangori sordi man mano che alcuni bozzi si contorcevano e spanciavano di colpo all’esterno. Un angolo schizzò in avanti all’improvviso, mancando di poco il naso di Patch. Poi il pannello cadde a terra raschiano e vibrando, spargendo intorno ruggine, sporcizia e brandelli di vecchie saldature e il fracasso riecheggiò per diversi secondi nell’officina. La struttura sottostante era gravemente danneggiata e corrosa.
Approfittando dell’attimo di calma, Niklas riprese.
«Ascoltatemi! Il bilanciamento dei contrappesi, l’aerodinamica, la disposizione dei propulsori… sono quelli che ci servono per anticipare i tempi» esclamò convinto, additando il quaderno che aveva con sé. «Quanto alla potenza, la Grönhagen K.I.J. possedeva uno dei motori più avanguardistici e flessibili dell’epoca, insuperato a tutt’oggi».
«Il primo motore a pescaggio geotermico» mormorò Clay, asciugandosi il sudore nella canottiera con il Bull Terrier. «Avrebbe rivoluzionato il mercato delle airship, liberandole da combustibile e condensatori».
«Però nessuno aveva interesse a produrre qualcosa che andasse contro l’industria del legno. Conosco la storia, ma non c’interessa» dichiarò Scorch.
Si avvicinò ad una Noal che avevano portato per un problema alle luci e batté sulla carrozzeria.
«No Way?» chiamò.
Gli diede a malapena cinque minuti per svegliarsi e sporgere gli occhi fuori dell’abitacolo prima di sbattergli in faccia il quaderno dov’erano appiccicati diversi ritagli. Pezzi di cavi gli erano rimasti impigliati fra i riccioli.
«Tu sai dove possiamo trovarla, non è così?»
Jack strizzò gli occhi per non dare a vedere quanto la richiesta l’avesse mandato nel panico. Scrutò l’immagine in testa all’articoletto sgualcito.
«Forse» sbadigliò massaggiando la testa da sopra il berretto. «Cioè, non so se... non credo. Insomma… è un casino».
«Tu ce la puoi fare».
«Scorch, davvero io…» attaccò, mordicchiando il manico di una pinza in cerca di una scusa.
Potevano chiedergli qualunque cosa, ma portare lì quella Grönhagen era un colpo al cuore. E non solo a quello, ne era certo.
Scorch lo afferrò per le spalle, scuotendolo un poco.
«Tu ce la porterai, Jack. So che puoi farlo» dichiarò il progettista.
La sua faccia non solo non ammetteva repliche: era la quintessenza del risolutezza e della fiducia.
Il meccanico tornò a guardare la fotografia. Suo padre e Lyoas “Negus” Iasù, trionfatori a pari punti del campionato di diciassette anni prima, posavano accanto ad una Grönhagen K.I.J. bianca, fresca di concessionaria. E seduti al posto di guida, c’erano due ragazzini. Lui e Vivian.
La Grönhagen era stata l’unica muscleship acquistata da suo zio con i proventi delle corse e dubitava con ogni fibra del suo essere che sua cugina sarebbe stata tanto magnanima da prestargliela per modificarla. Soprattutto considerando che non aveva la minima idea delle condizioni in cui versasse: Vivian l’aveva rubata più volte a suo padre durante l’adolescenza, imbarcandosi in corse clandestine cui, peraltro, aveva occasionalmente preso parte lo stesso Jack. Ricordava un paio di incidenti di poco conto, con ammaccature e qualche danno agli stabilizzatori, nulla di serio; ma chi poteva dire come fosse ridotta dopo tutto quel tempo?
La ma coperà4, disse tra sé, percependo un brivido attraversargli la schiena.

***

Aggad si avvicinò all’albero scrollando le spalle. Cominciava ad averne abbastanza di quelle ridicole scenate.
«Finiscila di piangere. Tra pochi mesi sarai adulto, non puoi continuare a comportarti da bambino» disse appoggiandosi al tronco del salice.
«Lasciami stare» piagnucolò Lisian con la fronte poggiata sulle ginocchia.
Di fronte a loro si snodavano le sponde del fiume, luccicanti nel sole di luglio. Qualche piccola imbarcazione colma di gitanti solcava le acque diretta al porticciolo del City Garden, lasciandosi dietro una scia di risate e schiamazzi. I bambini additavano gli Andull a terra facendo versacci e smorfie.
«Perché non vuoi capire? Lei non è per noi. Non farà mai parte della nostra gente» cercò di spiegargli per l’ennesima volta.
«I Bàtari non l’hanno ancora detto» singhiozzò il ragazzino, raggomitolandosi ancor di più. «Forse dicono che va bene, che può…»
«È una retch» tagliò corto Aggad, risentito.
«Non è vero! Charlotte non è quella roba! Lei… lei…»
La vocina già strozzata andò definitivamente in pezzi sotto le ciocche bianche e arruffate.
«Cosa? Ama Odrin?» domandò il fratello maggiore, con tono sbrigativo quanto indulgente.
Era il cavallo di battaglia di Lisian: il presunto legame che avrebbe unito Odrin alla segretaria della “Legendary” diventava la dimostrazione che lei fosse degna di diventare una Andull, perché diversamente non avrebbe potuto nascere nulla. Quel che Aggad aveva tentato di chiarire invano, era stata l’inconsistenza di quel sentimento.
«Sì. E io…» proseguì il ragazzino con la voce tremula.
«Cosa?»
Lisian strinse l’erba nei pugni.
«Voglio un’altra mamma» bisbigliò.
Aggad tirò indietro i capelli per osservarlo meglio. Lisian si era allontanato da casa quando aveva circa sette anni ed era l’ultimo dei suoi fratelli, quello che aveva potuto godere meno della presenza della figura materna. Quante volte gli aveva sentito esprimere quel desiderio? Decine, centinaia. Eppure gli avevano spiegato in ogni modo come non fosse accettabile scegliere una derigi per quel ruolo. Le leggi non lo permettevano: potevano entrare a far parte delle Tilaq – gruppi di esuli volontari inseriti nelle comunità “civili” -, sposare un Andull, avere dei figli con lui, ma mai e poi mai avrebbero potuto sostituire una madre. Soprattutto la loro, che era ancora viva nelle terre della famiglia. Anche se non l’avrebbero rivista mai più, lei c’era e ci sarebbe sempre stata. Non avevano bisogno di un surrogato dalla pelle bianca e senza cuore.
«Non sarà lei, Lisian. Mettitelo in testa» lo sgridò senza alzare la voce. «Se anche i Bàtari decidessero che non è una retch…»
«Smettila di dire quella parola!» gridò lui balzando in piedi.
Tremava di rabbia e aveva il volto umido di lacrime. Aggad attese qualche istante prima di riprendere, voleva essere certo che l’ascoltasse.
«Se anche decidessero che non è quella cosa, non è detto che la accettino o ammettano la sua presenza tra noi. Il quesito che gli è stato sottoposto non è dei più semplici».
«È colpa vostra» ringhiò Lisian dandogli uno spintone. «Tua e di Odrin, che non capisce niente!»
Lo schiaffo lo colpì rapido, tanto che non si rese conto subito del dolore che s’irradiava dall’impronta della mano di Aggad sulla sua guancia.
«Smettila Lisian. Non credi che Odrin sia già abbastanza provato da questa situazione? Ha perso la testa per qualcuno che non sapeva davvero chi fosse, che gli ha nascosto cose importanti del suo passato per poterlo avvicinare e si è presa gioco di lui e delle nostre tradizioni» sibilò incrociando le braccia. «Quando è riuscito ad aprire gli occhi ha capito che non avrebbe potuto esserci nulla tra loro, che si trattava solo di un’infatuazione dovuta al mistero di cui si ammantava quella donna e al suo interesse per le nostre usanze. Non c’era niente a legarli davvero. L’avevo messo in guardia dalle derigi e dai loro inganni, ed è arrivato a comprendere quanto avessi ragione nel peggiore dei modi. Eri lì quando me l’ha detto e l’ho riabbracciato come il più orgoglioso dei fratelli. Ho perdonato il suo errore di giudizio. Tu però ti sei intestardito e sei andato a raccontare ogni cosa ai Bàtari. Odrin si fidava di noi! Di te! Era venuto in cerca del nostro aiuto e consiglio, e ora guarda! Guarda!» esclamò prendendogli la testa fra le mani e obbligandolo a girarla.
L’intera comunità era radunata come ogni domenica. Figure nere dai capelli candidi se ne stavano sul prato in piccoli gruppi. Odrin sedeva in disparte, sotto il sole, i piedi nell’acqua del fiume e le mani avvolte in bende verdi. Erano segno dell’essere stato posto sotto il giudizio dei Bàtari, i membri più eminenti della Tilaq. Diversi Andull stavano sotto gli alberi: alcuni avevano vistosi bendaggi, altri erano palesemente preda di qualche malattia. Una coppia di dulu si affaccendava tra questi, ma da soli non bastavano a elargire rimedi sufficienti.
«Odrin non può parlare a nessuno, nemmeno a noi che siamo la sua famiglia. Lo hai reso un pianné, un Invisibile, e potrebbe restarlo a vita se i Bàtari decidono che ha attirato su di noi qualche sventura. Io sono sospeso dall’esercizio delle funzioni di guaritore fino al giudizio dei Bàtari. Molta gente che ha bisogno di cure sta soffrendo grazie al tuo colpo di testa e non posso fare nulla per aiutarli! Se c’è un colpevole in tutta questa storia, sei tu».
Rimasero a fronteggiarsi per qualche istante, mentre un’altra barca scivolava lungo la corrente carica di baccano e allegria.
«Voi non capite. Non capite niente» singhiozzò, tornando a raggomitolarsi fra le radici.


1 Triple Pin: piercing simile al Monroe, praticato tra il labbro superiore e il naso, a destra o sinistra, con tre barrette a testina sferica all’esterno, disposte a triangolo e unite all’interno da un dischetto metallico.
2 Estoy trayendo el gasto: in spagnolo “sto portando la spesa”
3 Está muy cansada: in spagnolo “è tanto stanca”.
4 La ma coperà: in dialetto bergamasco “mi ammazzerà”.


Writer's Corner
Rieccomi con il nuovo capitolo. E la nuova formattazione. Fatemi sapere cosa ve ne pare!
Sia chiaro: il Triple Pin è una mia invenzione, credo che nessuno studio di piercing l'abbia ancora realizzato. Lo prendo come un favore personale se evitate di farvelo: non volevo lanciare una nuova moda.
Grazie come sempre a tutti i lettori e recensori che hanno la pazienza di tener dietro alle mie lungaggini: Shade Owl, pheiyu, Wild_Demigods, Akainu magma, blood_mary95, maddampini, Ernesto507, LibertyStyle, Heven Elphas, tortuga1, vita17, TheWhiteDoll, AleGritti92, VersoLUniverso, John Spangler, Aurelianus, windshade, MorphineJ, Niki12, Nana Punk e Mizzy.
   
 
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