Between the hungry
Il tunnel dell'orrore .
Correvo
veloce,nonostante di tanto in tanto avvertissi le gambe cedere. Sentivo
l’aria
spostarmi i capelli e colpirmi il viso delicatamente. Il sangue pompava
veloce
nelle vene,mentre invano mi guardavo attorno,nervosamente,cercando una
via di
uscita. Era New York quella? Il cielo tetro,nascosto sotto uno strato
di nuvole
spesso e angosciante,si rispecchiava sulle vie di quella
città immensa,che
aveva un qualcosa di spettrale e profondamente scoraggiante. Ero sola.
Il vento
trasportava pezzi di carta che svolazzavano qua e là,simili
a degli uccelli
goffi ed incapaci. Camminavo tra le strade grigie e
malconce,infilandomi tra le
macchine abbandonate in strada. Mi inseguivano e non avevo neppure una
misera
arma con me,niente…ero sola e abbandonata ad un unico
destino. Niente voci,né il
suono dello scorrere delle macchine o quello del traffico che una
città come
quella avrebbe dovuto avere. L’unico rumore che mi inseguiva
rompendo quel silenzio
che sapeva di morte,era quello degli affamati. D’un tratto
smisi di correre e
mi fermai davanti un grattacielo,pronta a voltarmi per rendermi conto
di quanti
ne avessi dietro. Mi girai e fermai l’impulso di chiudere gli
occhi. Ce n’erano
a decine. Ero pronta per tornare a correre,perché fuggire
era l’unica cosa che
potessi fare,ma qualcosa mi bloccò. Sentii un peso violento
sullo stomaco e una
scarica di pugni mi si scatenò sul petto,fermandomi per
qualche secondo il
respiro. In prima fila scorsi delle ciocche rosse su un viso
irriconoscibile : bianco cadaverico,con un pezzo di zigomo mancante. Ma
era lei :
era Mandy. La osservavo con gli occhi sgranati per il terrore,come se
il mio
cervello avesse già deciso che sarei morta per mano sua. Si
avvicinava,ed io
pietrificata continuavo ad osservarla,con la speranza che quella
ragazza
simpatica e solare,che avevo conosciuto durante il primo giorno di
lavoro,sarebbe tornata in sé. Ma lei mi guardava non come
un’amica avrebbe dovuto
fare,no…lei mi guardava e vedeva davanti a sé una
sola cosa : cibo.
Mi svegliai
di soprassalto col fiatone,immersa in un bagno di lacrime. Mi guardai
attorno e
grazie al cielo capii di trovarmi nell’abitacolo del
fuoristrada. Me ne stavo
buttata a peso morto sul sedile,e quando provai a staccare la schiena
da
lì,avvertii un dolore alla spalla e uno altrettanto
fastidioso al collo.
Dio,sarebbe stato meglio dormire sull’asfalto…quel
sonno malsano mi aveva resa
una specie di catorcio. Mi girai per dare un’occhiata dietro
: Lucas dormiva profondamente
con la testa appoggiata alla spalla della signora Puckerman. Sorrisi e
poi,ancora stordita dal sonno e turbata da quello schifosissimo
sogno,aprii lo
sportello dell’auto e uscii fuori. Mi stiracchiai e lasciai
andare i ricordi di quella realtà distorta in uno
sbadiglio. Il sole spezzava
l’oscurità della notte e si levava lento nel
cielo. Forse erano le sei,forse
le sei e qualcosa.
«Buongiorno»
mi disse Noah con un sorriso dal tettuccio della vettura.
Se ne stava
seduto con le gambe incrociate ed il fucile poco distante da lui,sulla
superficie metallica nera.
«Dio,hai
un
aspetto terribile!» esclamai osservando le occhiaie bluastre
sul suo viso.
«Oh,ti
ringrazio…anche tu sembri una rosa questa mattina»
rispose ridacchiando.
Scossi la testa
sorridendo.
«Tra
massimo
una mezz’ora ripartiremo,» mi informò il
ragazzo «così finalmente potrò
chiudere un po’ gli occhi».
Annuii. Non
doveva essere stato piacevole passare un’intera notte
sveglio,con un
fucile tra le mani,e il sonno come nemico. Da lì fino a New
York avrei guidato
io,era scontato.
«Ne
hai
vista qualcuna di quelle cose?» chiesi,issandomi sul cofano
della vettura per
raggiungerlo.
«Tre o
quattro,ma erano soli…li ho fatti fuori con il
coltello».
Mi sedetti
al suo fianco e notai qualche cadavere al lato della strada. Noah mi
guardò,con
ancora un briciolo di apprensione sul viso,ed io continuai a guardare
il
sole,cercando di ignorare i suoi occhi che continuavano a ricordarmi
quel che
era successo il giorno prima.
«Come
facevi
a sapere che era un attacco di panico,ieri?» ruppi il
silenzio.
Sentii il
suo sospiro,e così mi voltai. Aveva lo sguardo basso,e
sembrava essersi
rattristato. Poi gettò gli occhi verso il bosco che si
diradava ai lati della
strada,e tornò di nuovo ad osservare la vettura sotto di
sé.
«Quando
passi un anno dentro,impari tante cose che non vorresti
imparare…» si limitò a dire con un
mezzo sorriso amaro.
Ricordai
cos’aveva detto la sera prima,quando mi aveva urlato contro ;
aveva detto di
essere stato in prigione,e soltanto allora mi tornava in mente quel
fatto.
«Perché
ci
sei finito?» domandai,improvvisamente curiosa.
Lui mi
guardò e scosse la testa,come se avesse voluto cancellare
qualche brutto
ricordo.
«Furto
d’auto» rispose,toccandosi la nuca rasata
«e anche perché sono un
coglione…»
Dedussi dal
suo tono di voce che non doveva essere stata una bella esperienza. Il
buon
senso mi imponeva di chiudere la bocca,ma la curiosità
prendeva il sopravvento.
Parlare mi distraeva,ed era proprio quello di cui avevo
bisogno.
«Hai…hai
avuto degli attacchi di panico lì dentro?»
Noah scosse
la testa «non io,il mio compagno di cella. Era un
incubo.» disse ormai perso
nei ricordi pieni di immagini «Ogni notte si svegliava
all’improvviso e
cominciava ad urlare di volere che sua madre lo
perdonasse…ne soffriva ed era
un miracolo se riuscivo a chiudere gli occhi per più di tre
ore».
«Cos’aveva
fatto?»
I suoi occhi
divennero ancora più bui.
«Aveva
picchiato sua madre fino a mandarla in coma».
Rabbrividii
e poi tornò il silenzio. Eravamo soltanto io,Noah,ed i
nostri pensieri.
Qualcosa all’orizzonte destò la mia attenzione.
«Lì
giù»
dissi a Puckerman indicando l’affamato con un dito.
Noah
annuì,si sfilò il coltello dalla cintura dei
jeans e fece per saltare giù dalla
macchina.
«Fermo!»
esclamai afferrandolo per un lembo della maglia «Ci penso
io».
Lui mi
guardò interdetto,sorpreso,con la fronte aggrottata e
solcata da qualche ruga
«sicura?»
Annuii
decisa.
Presi il
coltello e scesi dalla macchina con un balzo. Avevo le ossa
doloranti…ero tutta
dolorante. Sentivo ancora una debolezza indescrivibile,ma sapevo che
era
necessario avere sangue freddo ed avere quanta più
esperienza nell’affrontare
quelle cose,per cui era giusto che lo uccidessi io. Mi incamminai
piano,aspettando quasi che si avvicinasse. Era orrendo come tutti gli
altri. Impugnai il coltello saldamente e feci qualche altro passo in
avanti. Lo tenevo
d’occhio come una tigre pronta a saltare addosso alla sua
preda. Era mio,era
tutto mio. I muscoli del braccio destro si irrigidivano e poi tornavano
a rilassarsi
in maniera quasi ritmica. Era inquietante da dire,ma morivo dalla
voglia di
ammazzarlo.
«Figlio
di
puttana» bofonchiai tra me e me.
Lo stavo
aspettando,ero pronta. I versi di quel mostro erano sempre
più rumorosi e
vicini.
«Avvicinati,andiamo..»
Feci un
altro passo avanti e gli afferrai un lembo della camicia logora
all’altezza del
petto,lo guardai dritto in quegli occhi morti,e piantai il coltello nel
cranio
con quanta più forza avessi. Gli schizzi di quel sangue
denso e disgustoso mi
finirono sul viso e sulla mano. L’affamato cadde a terra
privo di vita,e con
tutte e due le mani tirai fuori la punta metallica dal suo cervello. Mi
voltai
a guardare Noah e lui mi fece un gran sorriso,mostrandomi il pollice
alzato.
*
C'eravamo
quasi,New York era vicina. Guidavo da ormai quattro ore buone,ed avevo
fatto
solamente due soste dall’inizio del viaggio. La prima era
stata per
un’esigenza "fisiologica",la seconda per riposare un
po’ la testa e riempire lo
stomaco con del pane e burro di arachidi. Noah dormiva
profondamente,come tutti
gli altri,e le uniche cose a riempire l’abitacolo di quella
grossa e imponente
macchina erano i miei pensieri ed il silenzio. Non avevamo incontrato
morti
durante il tragitto,né avevamo avuto problemi con la
strada,ma l’angoscia,la
mia angoscia,era forte e vivida come un pugno dritto in pieno viso. Il
silenzio
e la macchina,che faceva il suo lavoro quasi automaticamente,avevano
dato uno
spazio ampio ed indesiderato ai miei pensieri. Fluttuavano
liberi,intrecciandosi,mischiandosi in astratti ed oscuri disegni,e
rendevano
l’aria irrespirabile. Cosa ne sarebbe stato di noi?Era giusto
andare in una
città grande come New York?Perché Noah aveva
deciso di rischiare tutto per
andare da un suo amico?Cos’erano quelle cose?Sarebbero
arrivati dei soccorsi a
staccarci dalla melma scura e appiccicosa nella quale eravamo
impantanati?Pensavo ad ogni singola domanda ; la formulavo,la
riformulavo,allontanavo le parole e le affiancavo nuovamente dando loro
un
altro senso,ma quella era l’unica cosa che potessi fare. Mi
concentravo sulle
domande perché non avevo risposte,e quella grossa mancanza
era colmata dal
vorticare delle mille parole assieme ad altrettanti punti
interrogativi. Era
strano,ma per la prima volta da quando quell’incubo era
iniziato,sentivo un
briciolo di forza tornarmi indietro,come un boomerang lanciato
goffamente.
Tornai a guardare la strada,pur non avendo spostando gli occhi per un
secondo
dall’asfalto,e mi balenò un ultimo pensiero in
mente : New York = meta.
«Siamo
vicini» avvisai Noah in un sussurro.
Lui mi
guardò ancora stordito,con gli occhi socchiusi per il
sonno,e poi annuì.
«Come
ci
muoveremo in una città come quella?E’
grande,dispersiva…non stiamo parlando di
Lima e dei suoi quarantamila abitanti. Penso che New York
sarà un bel casino»
affermai,voltandomi verso di lui.
Forse avevo
parlato un po’ troppo in fretta,perché mi pareva
che a malapena avesse capito
quel che avevo detto. Era troppo frastornato per rispondermi,e uno
sbadiglio
gli sfuggì improvvisamente. Si stropicciò gli
occhi come un bambino fa appena sveglio,poi sbatté
qualche volta le palpebre e rimase a guardarmi. Stavo
aspettando una risposta.
«Ce la
caveremo,tranquilla. Sarà impossibile muoverci con la
macchina,e il casino in
strada ci rallenterebbe. Ci muoveremo a piedi ; saremo veloci e
silenziosi».
Chissà
perché quel suo discorso,intriso di una speranza quasi
forzata,mi aveva tirato
fuori un grosso sospiro. Troppa incertezza. Sguazzavamo nel dubbio e
nella
forza innaturale che un pizzico di speranza ci concedeva,ma per me non
era
sufficiente. Continuai a guardare la strada perché sapevo
che se mi fossi
concessa la libertà di parlare,sarei finita con lo scatenare
un’altra lite.
Nell’ultimo
tratto di strada Puckerman aveva deciso di darmi il
cambio,perché si era detto
che insonnolito com’era non sarebbe stato di alcun aiuto tra
le strade della
grande mela. Guidare avrebbe forzato la sua concentrazione e si sarebbe
ripreso
da quella sorta di trance che lo teneva stretto in una morsa a dir poco
asfissiante. Io
non avevo opposto resistenza : avevo fermato la macchina,avevo
abbandonato il
posto del guidatore,e mi ero seduta alla sua destra. Avrei impiegato
quegli
ultimi minuti ad osservare il cielo oscurarsi sopra le nostre teste,ed
avrei
recitato silenziosamente una qualche preghiera,pur sapendo che nessun
Dio ci
avrebbe mai aiutati. Il problema dell’avvicinarsi ad una
città grande e caotica
come New York,era che avevamo abbandonato definitivamente i boschi che
ci avevano
accompagnato dolcemente sino a poco prima,e avevamo cominciato a vedere
all’orizzonte
una fila infinita di macchine ferme. Come immaginavo,la strada era
impraticabile.
«Che
si fa?»
domandai a Noah,che aveva rallentato sino quasi a fermarsi.
Il suo viso
era contratto ed i suoi occhi studiavano quel che gli si trovava
davanti. La
fronte corrugata non si rilassò nemmeno per un
istante,nemmeno quando i miei
occhi si soffermarono per lunghi secondi sulle pieghe di pelle che
rendevano il
suo viso simile ad un pezzo di carta accartocciato e poi riaperto.
«Non
ne ho
idea» rispose debolmente,con gli occhi sgranati.
«Potremmo
abbandonare la macchina qui e proseguire a piedi,ma sarebbe da
incoscienti.
Oppure potremmo proseguire nell’altra corsia fino a che la
strada ce lo
permetta».
«No,»
disse
scuotendo la testa «non lasceremo la macchina qui. Non se ne
parla. Saranno più
di dieci chilometri e impiegheremmo troppo tempo camminando.
E’ troppo
rischioso e mia madre non ce la farebbe».
«Parla
per
te!» rispose la donna tempestivamente,sentitasi offesa.
Io e Noah
sorridemmo.
«Fino
a che
possiamo,procederemo nell’altra corsia,»
continuò subito dopo «poi ci penso io.
Cominciate a scaldarvi i muscoli delle gambe,ci aspetta un bel
casino».
Sentii una
vampata di agitazione scatenarmisi nel petto ed agitarmi lo stomaco in
un vortice
pieno di preoccupazione. Respirai profondamente,chiusi gli occhi,e
cercai di
azzittire le domande in merito a quel “ci penso io”.
*
«Vedi
a che
serve saper rubare una macchina,mamma?» disse il ragazzo con
un mezzo
sorriso,sfregando di nuovo i fili elettrici tra di loro.
«Ma
guarda
tu che delinquente di un figlio che mi è toccato!»
rispose la donna con tono
ironico,osservando il figlio all’opera.
«Un
delinquente che sa essere utile» ribatté il
ragazzo,facendole teatralmente
l’occhiolino.
Avevamo
proseguito per qualche altro chilometro nell’altra corsia
senza avere
problemi,poi,però,eravamo rimasti bloccati in un ingorgo che
chiudeva
completamente la strada. Eravamo scesi,ci eravamo messi sulle spalle i
tre
zaini colmi di beni primari,ed avevamo impugnato le nostre armi.
Avevamo
abbandonato la macchina,ma non era nostra intenzione raggiungere la
città con
la sola forza delle nostre gambe. Avevamo seguito la fila della corsia
di ritorno
(l’unica che poteva esser definita praticabile),sino a che
non avevamo trovato
una fine a quel susseguirsi di vetture polverose,sul quale metallo si
rispecchiavano i nostri riflessi luminosi. Durante quella corsa
angosciante e
silenziosa avevamo incontrato ben cinque mostri che gironzolavano in
strada in
cerca di cibo,per non parlare di tutti quelli che erano rimasti
bloccati nelle
auto,tenuti a freno solamente da delle cinture di sicurezza. Stupidi. Non avevano la
capacità di
movimento necessaria per liberarsi e se ne stavano sui
sedili,lamentandosi,agitando le braccia cadaveriche,con quel pezzo di
stoffa
nera che li teneva lontani da noi. Giunti in capo alla fila,dopo aver
percorso diverse
centinaia di metri,Noah aveva adocchiato una bmw nera e luccicante,che
pareva
esser perfetta per noi. Lo sportello dalla parte del guidatore era
spalancato e
quindi non era stato necessario neppure spaccare il finestrino.
«Non
è il
mio genere,ma andrà più che bene»
affermò Noah con un sorrisetto soddisfatto
non appena partì il motore.
«Sta’
zitto,che sennò ti do un ceffone!» lo
rimproverò la madre, con una finta
occhiataccia e gli angoli della bocca piegati
all’insù.
Era bello
sapere che in quella brutta situazione c’era ancora un motivo
per ridere o
sorridere,ma non c’era tempo da perdere. Salimmo tutti in
macchina,Puckerman al
posto del guidatore ed io al suo fianco,come sempre. Non era facile
guidare in
quel disastro : perdevamo tempo a superare vetture lasciate in mezzo
alla
strada,e di tanto in tanto gli affamati spuntavano dal nulla e noi li
osservavamo attraverso il vetro scuro dell’automobile. Non
erano un pericolo
finché la macchina era in movimento,ed era quello il vero
problema : evitare che si
fermasse.
«Tutto
ok,Lucas?» chiesi a mio fratello,voltandomi verso di lui.
Aveva ancora
la fasciatura improvvisata a sorreggergli il braccio,ma il dolore
andava
diminuendo con il passare del tempo. La fronte era velata dal sudore
che
quell’aria umida e calda creava con facilità. Gli
occhi verde scuro erano seri
e leggermente socchiusi,i capelli corti e ricci incorniciavano quel
viso
dall’espressione rigida,quasi severa. Restai per un attimo a
guardarlo : Dio,in
quel modo sembrava un uomo,non un ragazzo. Lui ricambiò il
mio sguardo,accennò
un debole sorriso e sospirò.
«Tutto
ok»
disse con voce ferma.
Analizzai
per un istante la sua espressione,i piccoli movimenti del volto,e
decisi che
forse non stava mentendo. Era tutto ok,per quanto potesse
esserlo…
«Ci
siamo
quasi,ma c’è un problema»
avvisò Noah,costringendomi a voltarmi davanti.
Guardai
dritto di fronte a me. Sì,c’era un problema.
Dall’Holland Tunnel traboccava un
groviglio di macchine che non ci avrebbe permesso di proseguire. Chiusi
gli
occhi ed inspirai ; quell’immagine aveva aumentato
consistentemente l’angoscia
che avevo provato per l’ultima parte del viaggio.
«Che
si fa?»
Puckerman
storse la bocca e mi guardò. Aveva in mente qualcosa,ma
dalla sua espressione
dedussi che non dovesse essere la cosa più sicura del mondo.
«Andiamo
a
dare un’occhiata io e te,a piedi. Lasciamo l’auto
qui e vediamo se è possibile
fare la stessa cosa di prima. Ci stai?» mi chiese
deciso,guardandomi negli
occhi.
Avevo forse
scelta?
Scesi dalla
vettura con il coltello in mano e la stessa cosa fece Noah ; lasciammo
il
fucile a sua madre. Ci incamminammo nel tunnel,ed immediatamente
avvertii il
panico salire dallo stomaco fino ad espandersi alle gambe,le braccia,le
mani,e
poi salire su fino a prendere il possesso dell’elemento
più importante : la
testa. Tremavo un po'. Io e Puckerman camminammo per qualche metro
sull’asfalto
buio,toccando con il busto le macchine per la quale ci trovavamo
lì,in quel
momento. Le luci della galleria erano spente e l’unico
bagliore che entrava era
quello all'inizio e alla fine di quella lunga costruzione di cemento.
«Se
sono nei
dintorni dovre…»
«Shhh!»
mi
azzittì Noah,portandosi un dito sulla bocca.
Tenevo il
coltello saldamente,il braccio teso e pronto ad ogni tipo di scatto
rapido ed
improvviso,e l’immancabile adrenalina a farmi compagnia. Sangue freddo,mi ripetei cercando di
scorgere nel buio che si
faceva a mano a mano sempre più fitto. Sentivo il respiro
affannoso di Noah
davanti a me e intravedevo le sue spalle e la sua nuca che erano
illuminate dal
debole riflesso della luce del giorno. Era pericoloso ; non riuscivo a
togliermi quella parola dalla testa. Pericoloso. Pericoloso.
Pericoloso.
«Cazzo!»
sbottò Noah,sussultando.
Un lamento
si scatenò da sotto una delle vetture affianco alla quale
era Puckerman. Il mio
cuore aveva preso a battere con la stessa velocità dello
sbattere delle ali di
un uccellino,e il respiro si era fatto corto,se non quasi inesistente.
«Questo
stronzo se ne stava in silenzio e mi ha afferrato la
caviglia».
I lamenti si
levavano e riempivano quel silenzio che misto al buio creava
un’atmosfera a dir
poco lugubre. Strinsi la presa sul coltello e mi chinai affianco alla
vettura.
«Ci
pensi
tu?» chiese Noah,osservando le braccia che si agitavano
innaturalmente.
«Sì!»
Riempii i
polmoni d’aria,e lasciai che i muscoli già tesi
del braccio, entrassero in
funzione. Aspettavano solo quello ; erano rapidi e pronti ad eseguire
un gesto
che stranamente sentivo già familiare. La converse sul petto
dell’affamato,poi
un altro respiro,un altro ancora,trattenni il fiato ed infilai il
coltello in
un occhio del mostro.
«Gli
ho
preso un occhio…che schifo!»
Ci fu di
nuovo silenzio.
«Se
pensi
che quell’occhio gli sarebbe servito per guardarci e farci a
pezzi,forse
proveresti un senso di soddisfazione maggiore,mmh?» disse
sarcastico in un sussurro.
«Fa
ugualmente schifo!»
Qualche
altro metro e la vista divenne un senso decisamente inutile in quel
buio pesto.
La cosa mi spaventava davvero. E se c’erano dei mostri che
non avrebbero
emesso alcun lamento?Saremmo potuti essere sbranati da un momento
all’altro. Continuavamo
a camminare,ignorando la nostra paura,ignorando la voce della
sopravvivenza che
ci ordinava di tornare indietro,e mano a mano ci addentravamo sempre di
più in
quel tunnel infinito. Eravamo alla ricerca della macchina
all’inizio della
fila,ma se la fila non fosse finita lì,ma chilometri
più avanti?Un altro
pensiero che si presentava costantemente nella mia testa era quello di
Lucas e
la signora Puckerman soli in quella macchina. E se fossimo stati noi
quelli al
sicuro,e loro quelli in pericolo?No,quella situazione non mi piaceva.
«Troveremo
un altro modo,dai. Torniamo indietro» dissi a Noah un
po’ troppo ad alta voce.
«Forse
è il
caso».
Giusto il
tempo di voltarci e poi...
«Hai
sentito?» chiese Noah in un sussurro.
Persino il
mio respiro si fece meno rumoroso ; mi immobilizzai e tesi le orecchie
ad
ascoltare. Dei lamenti improvvisi e rumorosi si scatenarono
all’unisono,tutti
con lo stesso tono denso e graffiante a riempire le pareti nella quale
eravamo
intrappolati. Socchiusi gli occhi nel tentativo di scorgere nel buio,ma
non
vedevo nulla. Senza che me ne fossi resa conto,ero tornata a sentire il
suono
del mio respiro e quello di Noah.
«Via,via!»
esclamò Puckerman,cominciando a correre.
Seguivamo il
sentiero immaginario che i nostri occhi creavano
nell’oscurità. Il passo era veloce,simile
ad una corsa che si muniva di un unico senso : il tatto. Sfioravo le
macchine
con i palmi delle mani e sentivo la polvere incollarsi sulla mia pelle
sudata.
I versi erano presenti,ma mano a mano sempre più lontani.
Quando la luce tornò
ad illuminarci,sentii i miei polmoni tornare a riempirsi. Non mi ero
accorta
che stessi trattenendo il fiato. Strizzai gli occhi per un
po’ ; la luce solare
mi dava fastidio. Il suono di quelle creature non era cessato e
continuava ad
avvicinarsi,spingendoci a correre di nuovo,in direzione della macchina.
«Dobbiamo
andare via!» urlai a Noah,quando la prima di quelle teste
cadaveriche spuntò
fuori dal tunnel.
Prima
una,poi la seconda,poi la terza,la quinta,la decima,la…persi
il conto. Ce ne
erano a decine e il mio sguardo si perdeva sui loro corpi in
movimento,mentre
il cuore cominciava a battere all’impazzata. Forse era la mia
impressione,ma
per un momento mi sembrò che il loro passo cominciasse ad
aumentare. Forse non
era la mia impressione e le loro gambe avevano preso ad accelerare
perché
finalmente avevano trovato qualcosa per cui valesse la pena camminare :
cibo.
Quando Noah aprì lo sportello e
s’infilò dentro la macchina,io ancora stavo
addosso al metallo freddo della bmw ad osservare la scena. Non era la
prima
volta che mi fermavo nella speranza che il tempo si fermasse ; era come
se la
mia mente ed ogni fibra del mio corpo avesse il bisogno di accertarsi
che la
vista non si stesse sbagliando. Non sarebbero scomparsi
improvvisamente,eppure
continuavo a guardarli,restando meravigliata ad ogni loro movimento del
fatto
che quell’incubo fosse reale.
«Muoviti,entra!»
mi gridò Puckerman.
Mi distolsi
da quella sorta di trance e filai dentro la vettura,spostando gli occhi
da
quella massa goffa e mostruosa che si faceva sempre più
vicina.
«Rigiriamo
ed andiamo via» suggerii al ragazzo con la voce piena di
panico.
Lui scosse
la testa «non c’è spazio per fare
manovra. Siamo circondati».
Quando
osservai attraverso i vetri scuri,capii che aveva ragione. Noah fece
retromarcia velocemente e guadagnammo una decina di metri,che piano
piano
venivano strappati dal nostro possesso. Eravamo in trappola.
«Continua
la
retromarcia!» urlò mio fratello.
Il viso
preoccupato di Puckerman si fece ancora più serio e rigido.
L’auto indietreggio
di un paio di metri,e poi il suo piede affondò
sull’acceleratore. Il tonfo dei
corpi sotto alla vettura mi fecero sussultare di volta in volta e allo
stesso
tempo tirare un sospiro di sollievo. Ma erano troppi e nel momento in
cui la
macchina cercò di farsi spazio sull’asfalto,quelli
cominciarono a picchiare sui
finestrini e sul cofano,assordendoci con i loro lamenti soffocanti. Il
viso
sfigurato di una creatura si incollò al vetro scuro alla mia
destra,e così
fecero altri tre che mi scrutavano con quel loro sguardo famelico.
Forse erano
venti,forse di più o anche di meno. L’unica cosa
che ero in grado di vedere era
la nostra fine che si presentava imminente,picchiando su una bmw rubata.
«Romperanno
i vetri!» gridai con il cuore in gola.
Mi voltai
verso Noah e notai qualcosa di diverso nel suo viso : si era arreso.
Non aveva
più quel pizzico di determinazione che non l’aveva
mai abbandonato dal momento
del nostro incontro,né il barlume di speranza misto alla
tristezza che aveva
accompagnato da sempre il suo sguardo. Scuoteva semplicemente la
testa,con il
piede fermo sul pedale,e stringeva i denti come se qualcuno stesse
attuando una
tortura interiore su di lui. Mi voltai verso Lucas e strinsi la sua
mano
tremolante nella mia che non trovava la forza per avvolgerla a dovere.
Accarezzai il dorso di questa con il pollice,e sussurrai un
«andrà tutto
bene»,pur sapendo che fosse una bugia.
«Stiamo
per
morire,non è così?» mi chiese mio
fratello mentre una lacrima scendeva giù.
Scossi la
testa. Come potevo mentire,se il parabrezza della vettura si frantumava
lentamente sotto i colpi di quei mostri?Come potevo mentirgli se a poco
meno di
un metro una creatura urlava la sua fame pretendendoci?Volevo che la
sua
speranza non sarebbe morta con lui,e che lui non sarebbe morto privo di
speranza. Eravamo sopravvissuti tre giorni,giorni in cui avevamo pianto
e
convissuto con la nostra sofferenza che aveva avuto il sapore delle
lacrime.
Giorni che non erano bastati a colmare quella che sarebbe dovuta essere
una
vita intera,giorni che non potevano cancellare il rimpianto del
vissuto.
L’amaro sulla lingua assieme al salato,la mente persa nei
ricordi e nelle
immagini fatte di fantasia che alimentavano le ferite nel petto. Ma
tutto
quello,tutto quello non poteva finire così miseramente.
Saremmo stati i tanti
fatti a pezzi da quell’incubo,ma non saremmo stati fatti a
pezzi senza aver
desiderato di continuare a vivere. Io volevo continuare a vivere,anche
se mi
ero ripetuta che non c’era più vita che valesse la
pena di respirare. Avevo ancora
bisogno di lottare per un qualcosa,avevo bisogno di vedere mio fratello
tornare
a sorridere.
«Ehi,basta
piangere.» sussurrai sul viso bagnato e contratto di Lucas
«Me lo fai un
sorriso,mmh?»
Mio fratello
mi guardò sorpreso «ma come..»
«Shh»
lo
interruppi «fammi solo un sorriso,per favore».
Quando
quelle labbra scure si schiusero a forza,le mie lacrime cominciarono a
scendere
ininterrottamente. Mi voltai prima che Lucas potesse vedere
un’altra lacrima
gocciare a terra,e prima che la mia espressione si perdesse nel dolore
che
provavo in quel momento.
«Mamma,il
fucile» disse Noah,continuando a guardare i pugni che si
infrangevano contro il
vetro.
«Che
vuoi
fare?» chiese la donna con un filo di voce.
Noah
sospirò,ma
nemmeno il suo sospiro colmo di disperazione sarebbe stato in grado di
sovrastare i lamenti dei mostri lì fuori.
«E’
arrivato
il momento» disse semplicemente,con una finta calma.
Sgranai gli
occhi. Avevo capito.
«Non
se ne
parla!» esclamai immediatamente.
Un altro
pugno aumentò la crepa sul vetro.
Noah si
girò
e mi guardò con le lacrime agli occhi «non
sarò divorato mentre sono ancora
vivo!Non gli permetterò di torturarmi lentamente!Non lo
farò!»
Un’altra
lacrima mi colò lungo lo zigomo,fino a carezzarmi la
mascella. Che cosa potevo
fare?
«No…»
biascicai disperata.
Qualcosa
distolse all’improvviso il mio sguardo dagli occhi di
Puckerman. Un rumore : il
rumore di uno sportello aprirsi.
«Ferma!»
strillò Lucas con la voce così piena di panico da
non sembrare nemmeno la sua.
«Mamma!»
gridò Noah con gli occhi talmente sgranati,da assomigliare a
due biglie di
vetro dalla forma perfettamente rotonda.
La donna era
già fuori,sull’asfalto,sovrastata da quelle decine
di esseri che la divoravano
e le facevano esplodere le più terribili urla dalla gola.
«No!No!No!Mamma!»
strillò Puckerman in lacrime,disperato,colpendo il volante
ripetutamente.
Ero
scioccata. Era successo tutto così velocemente,che nemmeno
sembrava reale. Era
tutto così assurdo,che persino i più terribili
incubi fatti in vita
mia,sembravano l’immagine del più dolce paradiso.
La donna si era sacrificata
per noi. Continuavo a ripetermelo,eppure non riuscivo a metabolizzare
l’accaduto o a smuovermi da quella paralisi che presto mi
avrebbe potuta
portare alla morte.
«Dobbiamo
uscire dalla macchina e andarcene!»
Noah non si
muoveva.
«Dobbiamo
andarcene!» urlai di nuovo,scuotendolo per un braccio.
«No…»
biascicò lui.
«Vuoi
che
tua madre si sia sacrificata per niente?!Vuoi che abbia rinunciato alla
sua
vita per vederti morire straziato?!»
Scosse
un’ultima volta la testa,tra le lacrime,poi aprì
lo sportello ed io lo
seguì,così come lo seguì Lucas che non
proferiva più parola. Gli affamati erano
tutti sul cadavere della signora Puckerman e di fronte a noi tornava ad
esserci
quel tunnel scuro,questa volta vuoto.
Io e
Lucas,che impugnava il fucile,correvamo per immergerci
nell’oscurità,ma Noah
camminava con lo sguardo vuoto.
«Tieni»
disse mio fratello porgendo l’arma al ragazzo.
Lui la prese silenziosamente,ed in un attimo fummo inglobati da quelle mura claustrofobiche e chissà quanto infinitamente lunghe. Mentre il buio mi si appiccicava sulla pelle con prepotenza,una domanda si fece spazio nella mia mente,acquisendo una priorità assoluta. La domanda era : fin dove possiamo spingerci per proteggere le persone che amiamo? Posi una mano sulla spalla di Lucas,e lui mi circondò con un braccio. La mia risposta era : lontano,molto lontano. Avrei fatto di tutto per proteggerlo,avrei fatto di tutto per proteggere quella che ormai era la mia nuova famiglia.
Salve gente!Ed eccoci qui con un nuovo ed intenso capitolo. Comincio innanzitutto ringraziandovi,ringraziando tutti coloro che hanno deciso di seguire la storia e di recensirla. Davvero,la vostra fiducia in me è una cosa che mi rende particolarmente entusiasta e felice. Poi,passo a commentare brevemente questo capitolo che probabilmente è il più lungo che abbia mai pubblicato sino ad ora.
Si sa che prima che il sole sorga,il cielo è avvolto dall'oscurità. Il tunnel dell'orrore , è la nostra oscurità. Quando per i nostri tre protagonisti le cose sembrano mettersi per il meglio,si scatena una catastrofe. La povera signora Puckerman ha dato la sua vita per salvare suo figlio e i fratelli Lopez,e questo le fa onore. Povera...
Comunque vi avviso : il prossimo capitolo sarà davvero,ma davvero lungo ed impegnativo. Mi si è fuso il cervello nello scriverlo,ed è "quel capitolo". Non so se avete capito cosa intendo...beh,spero di si.
Dunque,con la speranza che abbiate gradito questa mia piccola creazione,vi aspetto nelle recensioni per rispondere a delle vostre eventuali domande,o per leggere semplicemente i vostri pareri. Ditemi tutto,non aspetto altro!
Alla prossima,gente!E quella "prossima" sarà ricca di novità...