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Autore: Laylath    24/04/2014    4 recensioni
Eppure a guardare più da vicino i ragazzi di quella realtà, ci si sarebbe accorti che le loro esistenze non erano così scontate: i piccoli grandi problemi dell’infanzia e dell’adolescenza a volte andavano ad intrecciarsi con situazioni difficili, dove spesso il legame con un amico fidato era la cosa migliore per poter andare avanti.
E spesso le persone più impensabili stringevano un forte legame tra di loro per uno strano susseguirsi di eventi, all’apparenza così normali… anche se poi viverli era tutt’altra cosa.
Genere: Generale, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Team Mustang
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Un anno per crescere'
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Capitolo 56. Come recuperare un'amicizia. Prima parte: pressioni esterne.


 
In genere quando si è piccoli, specie alle elementari, è normale fare delle feste per il proprio compleanno: si invitano gli amici a casa, si spengono le candeline sulla torta, si ricevono dei regali. Di norma si aspetta con ansia questo giorno, allo stesso modo del natale.
Per Heymans non era così: il suo compleanno non era mai un giorno lieto, anzi meno se ne faceva accenno meglio era. Forse nei primi anni di vita sua madre aveva fatto di quel giorno qualcosa di speciale, ma tutto scivolava via nella quotidianità e nell’amore che lei gli dava. Quando poi aveva iniziato ad andare a scuola, la sua condizione di figlio concepito prima del matrimonio l’aveva estromesso da tutte queste occasioni e, considerata la situazione a casa, non c’era mai stata la possibilità materiale di fare delle feste. Inoltre il suo compleanno cadeva in estate e dunque era lontano anche dal periodo scolastico e dalla quotidianità con i propri compagni che, oggettivamente, non sarebbero mai venuti.
Un altro motivo per cui Heymans non aveva un buon rapporto con il suo compleanno era la grande disparità di trattamento che Gregor aveva riservato ai due figli. Per il secondogenito c’era sempre un regalo speciale, dei grandi sorrisi, un pranzo fatto apposta per l’occasione. Un conto era vedere le cose da ragazzino ormai consapevole della realtà familiare e dunque farsi scivolare anche questo sulle spalle, ma per tutte le elementari il giorno del suo compleanno, al momento di andare a letto, si era sempre ritrovato a soffocare i singhiozzi sul cuscino, non trovando una risposta a quell’indifferenza che aveva caratterizzato anche per quell’anno quello che in teoria doveva essere un giorno bellissimo.
Era per questo strano senso di amarezza derivante dal passato che il ragazzo preferiva far passare in sordina il suo compleanno: a volte Jean aveva cercato di convincerlo a festeggiare a casa sua, ma lui si era sempre rifiutato. A partecipare alle feste di lui e Janet non aveva problemi, ma gli era rimasta una profonda tristezza di fondo per il suo giorno di nascita.
Per cui fu colto di sorpresa quando Laura entrò in camera sua quel pomeriggio.
“Ciao, Heymans, che cosa fai?”
“Uno schema per i compiti delle vacanze sia mio che di Henry – rispose lui, chino sulla scrivania – controllo i programmi così possiamo organizzarci anche per le sue lezioni di recupero: a inizio settembre ha quelle verifiche in tutte le materie e voglio che arrivi preparato.”
“Capisco – annuì la donna, sedendosi nel letto – senti, puoi lasciare un attimo il tuo lavoro e venire accanto a me?”
A quella richiesta il ragazzo si girò con occhi perplessi, ma poi annuì e andò a sedersi accanto a lei. Una volta che lo ebbe vicino, Laura lo guardò attentamente, notando i lineamenti così simili a Gregor, eppure così diversi nell’espressione seria e responsabile, dolce. E la sfumatura rossa dei capelli identica a quella di Henry, così come gli occhi. I due nemici convivevano così tanto in quel ragazzo.
“Mamma?” la chiamò lui.
“Pensavo a quanto sei cresciuto in quest’anno, amore – sorrise lei, accarezzandogli la guancia – e sei così bello, non ne hai idea.”
“Bello – lui arrossì e poi fece un sorrisino imbarazzato – non credo di esserlo, suvvia.”
“Lo sei, fidati. Cielo, quasi quindici anni: è passato davvero così tanto da quando ti ho preso tra le braccia ed il mio mondo è cambiato per sempre?”
A quelle parole il ragazzo la abbracciò, nascondendo il viso sulla sua spalla. Per uno strano trauma emotivo avvertiva sempre un tuffo al cuore quando sentiva parlare della sua nascita come un evento felice. Niente odio o rancore, sua madre aveva provato solo amore per lui in quei primi momenti, quando altre persone avrebbero voluto saperlo morto o lo vedevano come una catena. E questo amore lo faceva stare bene, protetto contro tutto il mondo esterno che l’aveva messo in difficoltà sin dal primo giorno di vita.
In un gesto spontaneo alzò il viso e la baciò sulla guancia.
“Ma non commuoverti, va bene?” mormorò, staccandosi da lei e sorridendole, questa volta identico a suo zio, con quello sguardo malizioso e tenero allo stesso tempo.
“Ma no – scosse il capo lei, ricacciando indietro le lacrime – senti, quasi quindicenne, ti vorrei domandare una cosa molto importante.”
“Dimmi pure.” annuì lui, mettendosi a gambe incrociate sul letto.
“Tra otto giorni è il tuo compleanno e mi chiedevo se volessi fare una festa qui a casa.”
Gli occhi grigi si sgranarono ed il viso assunse un’aria incredula.
“Festa?”
“Sì: da mangiare, una torta, i tuoi amici, Andrew ed Ellie, mh?”
Un altro ragazzino avrebbe fatto salti di gioia e sarebbe corso a preparare una lista delle cose che voleva da mangiare, oppure si sarebbe fiondato fuori ad invitare i suoi amici. Invece lui rimase a guardarla ancora per qualche secondo, prima di abbassare gli occhi sul lenzuolo, le mani, posate sulle caviglie, che tremavano leggermente.
“Non lo so…” ammise.
“Eppure ai compleanni di Jean ti sei sempre divertito… e a quello di Vato a gennaio ancora di più: eravate tutti assieme – Laura gli accarezzò i ciuffi rossi – Non ti piacerebbe?”
“E’ che – lui arrossì leggermente – oramai sono abituato a non… mamma, ti ricordi quando… quando piangevo ogni sera del mio compleanno? E tu venivi sempre, anche se io facevo meno rumore possibile, e ti sdraiavi assieme a me e mi cantavi le filastrocche degli animaletti del bosco…”
“E come potrei dimenticarmelo? Ti stringevi a me e ti accarezzavo i capelli fino a quando non ti addormentavi… piccolo mio, non sai quanto mi sentivo lacerata nel vederti così triste in quello che doveva essere il tuo giorno speciale.”
“Era l’unico momento bello e poi la mattina dopo sotto il cuscino trovavo sempre un regalino da parte tua, ed è strano pensare che iniziava sempre con me che piangevo…”
“Ogni volta mi dicevo che il prossimo anno sarebbe stato differente, ma poi…”
Ma poi ogni anno c’era sempre Gregor che impediva qualsiasi cosa ed era meglio non rischiare di indisporlo: avrebbe potuto rovinare in maniera davvero traumatica qualsiasi tentativo di festeggiamento.
Heymans scosse il capo con violenza, cercando di allontanare quei ricordi: essere tristi per quegli avvenimenti voleva dire che suo padre in qualche modo lo condizionava ancora. A vederla sotto questo punto di vista era indispensabile cambiare le cose.
“Sai – disse infine – in fondo l’idea della festa non mi dispiace. E se davvero a te non disturba troppo mi farebbe piacere che i miei amici venissero a casa.”
E scoprì che gli avrebbe fatto davvero piacere.
Festeggiare il mio compleanno... una festa solo per me.
“Allora affare fatto, signor festeggiato – sorrise Laura, arruffandogli i capelli – dopo cena armati di quaderno e penna che dobbiamo fare un elenco di tutto quello che vuoi.”
“Agli ordini, mamma – ridacchiò lui, prima di abbracciarla di nuovo – e grazie, sul serio.”
“E di che, tesoro mio – lo baciò Laura – il tuo compleanno è un evento che merita di essere festeggiato.”
E sarebbe stato un giorno speciale che niente e nessuno avrebbe rovinato.
 
Una delle potenziali minacce alla buona riuscita del compleanno di Heymans stava legando la stampella di Kain al telaio della sua bicicletta, mentre una preoccupatissima Ellie teneva in braccio il bambino per aiutarlo a sistemarsi nel sellino: infatti, non si capiva ancora come, la donna si era lasciata convincere a far scendere il figlio in paese assieme a Roy. L’idea era stata del ragazzo, ovviamente, ma era stato l’entusiasmo di Kain all’idea di poter finalmente muoversi un po’ che aveva convinto l’ansiosa madre.
Roy colse l’ennesima occhiata preoccupata della donna e sorrise.
“Oh, suvvia, faccio attenzione. Si fidi di me, signora: le ho dato ampia dimostrazione di essere responsabile…”
“Come durante la fuga clandestina?”
“… se mi lasciava finire la frase avrei detto essere responsabile quando si tratta di suo figlio.”
“Come quando l’hai convinto a scavalcare il davanzale della finestra e salire sull’albero?”
“Andiamo, quanta sfiducia – fece il broncio lui – giuro che vado piano e poi per il ritorno lo affido a suo marito, va bene? Guido piano e andiamo sani e lontano.” citò, storpiando il proverbio per l’occasione.
“Tranquilla, mammina – Kain strinse le braccia al collo della madre, sentendola tesa – fidati di Roy: non mi farà cadere e per cena sarò di ritorno con papà.”
“Mi raccomando…” sospirò lei, mentre il ragazzo grande faceva loro cenno di avvicinarsi. Aiutò il bambino a sistemarsi nel sellino e a stringere le braccia alla vita del compagno.
“Pronto gnomo?”
“Prontissimo!” esclamò Kain con un brivido d’eccitazione.
“E allora via!” e con una forte spinta sui pedali, Roy si catapultò verso il sentiero, le promesse di andare piano completamente dimenticate. Ma l’urlo deliziato lanciato da Kain nascose completamente quello terrorizzato di Ellie e nell’arco di una decina di secondi la strada era tutta loro.
Era come se l’energia del bambino fosse contagiosa: Roy sentiva scariche di adrenalina in tutto il corpo, come se quella discesa in bici fosse un’esperienza del tutto nuova anche per lui. Le luci, i suoni ed i colori danzavano davanti alla sua persona in un miscuglio inebriante che lo faceva sentire vivo come mai era successo. Vivo e libero, senza nessun ostacolo che potesse frapporsi tra lui e la felicità che stava assaporando e condividendo con il suo piccolo amico.
Fu dunque con dispiacere che dopo una decina di minuti giunsero al paese, l’andatura che rallentava forzatamente per via delle diverse persone nelle strade. Riprendendosi da quella strana estasi, Roy recuperò il controllo e girò con abilità nella stradina laterale che li avrebbe condotti a casa di Riza.
“Grazie, Roy – mormorò Kain, posando la testa contro la sua schiena – ho sognato così tanto di sentire di nuovo tutte queste sensazioni. E credevo di dover aspettare ancora due mesi per poterle provare… scusa, ma mi stanno anche lacrimando gli occhi.”
“Oh, gnometto – sorrise Roy, fermandosi davanti alla villetta degli Hawkeye – ne avevi bisogno di stare fuori, eh? Coraggio, adesso aggrappati a me che ti aiuto a scendere, forza, un bel paio di respiri profondi: adesso chiediamo a Riza un bicchiere d’acqua, va bene?”
“Sì – annuì lui, rifiutandosi di lasciarlo – scusa… non so che mi prende.”
“Tranquillo, Kain – continuò a tenerlo in braccio – è solo una bella scarica di energia a cui non eri preparato, tutto qui. Ehi, ciao Hayate! Hai visto chi ti ho portato?”
Nell’arco di un poco tempo i tre ragazzi si sistemarono nella parte del cortile davanti alla cucina, dove alcuni salici li riparavano dal sole troppo forte di luglio: Kain era comodamente seduto nell’erba e accarezzava il cagnolino che gli si era accoccolato sulla gamba sana.
“Non vedo l’ora di poter correre assieme a lui – mormorò – prima era troppo piccolo e poi è successo tutto il disastro dell’incidente. Ma molto presto mi leverò questo tutore e non avrò più bisogno della stampella.”
Roy sorrise nel sentire quell’entusiasmo e guardò con affetto Riza che abbracciava il loro piccolo amico.
Si sentiva decisamente bene: era come se il ritorno di Kain avesse rimesso a posto dei meccanismi della sua vita che avevano iniziato a funzionare male. Quel ragazzino era un vero toccasana ed era facile capire perché Riza gli fosse così legata.
“A proposito – disse Kain, girandosi verso Roy – non ti ho ancora chiesto come ti sei fatto quel livido sulla tempia. Si vede poco perché i capelli lo coprono in parte, ma c’è. Cosa è successo?”
“Oh questo? – il moro si toccò con imbarazzo il segno che, a onor del vero, non gli dava più nessun fastidio – Tranquillo è acqua passata… è che mi è caduto un libro in testa, pensa che distratto. Era nel ripiano più alto della libreria e non ho fatto molta attenzione come l’ho preso.”
“Che dolore! Chissà se una cosa del genere è successa anche a Vato con tutti i libri che ha.”
A sentire pronunciare quel nome Roy si irrigidì, ma un’occhiataccia di Riza gli ricordò di fare buon viso a cattivo gioco: Kain non sapeva niente di quel litigio e doveva restare nell’ignoranza. Così fu costretto ad ingoiare le parole roventi che aveva in bocca e ad alzare le spalle.
Tuttavia il discorso era ormai avviato ed il malumore si ripresentò più in fretta del previsto.
“Ora che ci penso non ho ancora visto Vato in questi giorni – ammise Kain, girandosi verso Riza – non è venuto alla stazione quando siamo tornati e, al contrario di tutti voi, non è passato a casa. E’ per caso offeso con me?”
“No, ma che dici! Che motivo avrebbe di avercela con te? E’ che non si sente molto bene, tutto qui.” spiegò Riza, sperando che la discussione finisse lì.
“Cosa? – gli occhi scuri del bambino si sgranarono – Ma perché non me l’avete detto? Nemmeno Elisa ne ha fatto parola. Roy, mi accompagni a casa sua? Se sta male mi piacerebbe fargli visita e…”
“Non è in condizioni di vedere nessuno.” lo interruppe lui con voce piatta.
“Uh – il bambino si ritrasse, intuendo una lieve sfumatura irritata in quella dichiarazione. Tuttavia, preoccupato per l’amico, insistette – però potresti accompagnarmi da suo padre, così chiedo a lui. Se avessi saputo…”
“Finiscila di parlare di lui! – sbottò Roy – Sta male, va bene? Come guarisce lo rivedi, punto e basta. Non sono venuto a prenderti in bici per parlare di lui, capito?”
“Roy!” Riza lo guardò con rimprovero, mentre Hayate si alzava con aria preoccupata, intuendo la tensione tra i suoi amici.
“Non… non volevo…” mormorò Kain, abbassando lo sguardo con un’espressione così mogia che subito Roy si pentì di aver avuto quello scatto d’ira.
Tutto il suo buonumore era passato: per diversi giorni di fila, da quando era tornato il piccolo, era riuscito a non pensare al suo litigio con Vato e ora era tutto tornato a galla. Il livido, come per magia, riprese a dargli fastidio e sentì che la compagnia dei suoi amici non andava più bene: era meglio evitare ulteriori scenate proprio davanti a Kain.
“Scusate, mi sono ricordato di avere un impegno. Riza, poi accompagnalo tu da suo padre, tanto è in paese, doveva andare a trovare la madre di Heymans.”
Non diede loro tempo di reagire. Si alzò in piedi e con passo deciso si avviò fuori dal cortile, salendo abilmente in sella alla bicicletta e pedalando verso il locale di sua zia. Sperava solo che Riza sbrogliasse la situazione e che Kain si dimenticasse di Vato il più in fretta possibile.
Idiota di un Falman, quando mai potresti raggiungere il livello di Maes?
 
L’idiota di un Falman circa mezz’ora dopo sedeva al tavolo di cucina, aspettando che sua madre finisse di preparare le mele cotte che avrebbero costituito la sua merenda. Provò a mettere a fuoco il bicchiere che stava davanti a lui e annuì soddisfatto: anche l’occhio ferito faceva il suo dovere ed ormai tenerlo aperto non costituiva più alcun problema. Certo, c’era ancora un bell’alone giallognolo attorno ad esso, ma sarebbe sparito nei prossimi giorni. Anche il resto dei lividi era in via di guarigione e le emicranie l’avevano abbandonato quasi del tutto, così come la nausea.
Stava decisamente meglio e anche la letargia era sparita: dormiva profondamente sia durante la notte che dopo pranzo, ma per il resto era desto e vigile e aveva persino ripreso a leggere. Tutto sommato era felice di questi miglioramenti: si era reso conto della forte preoccupazione che aveva destato nei suoi genitori, soprattutto in sua madre e si era sentito in colpa.
Se non posso essere un miglior amico, almeno posso essere un bravo figlio e un bravo fidanzato.
L’idea lo sfiorava più volte al giorno e gli faceva discretamente male: era passata una settimana, se non di più dal suo litigio con Roy ed il ragazzo non si era ripresentato a casa. Questo voleva dire che non mentiva quando aveva dichiarato che non lo voleva più come amico e Vato sapeva che il moro poteva essere molto drastico nelle sue decisioni.
E’ una nuova lezione di vita – si disse con filosofia – dovevo capire subito la situazione. Sapevo bene che lui e Maes erano migliori amici e avrei dovuto tenere maggiormente le distanze da Roy, sin dalle prime volte.
“Perché non esci uno di questi giorni?” chiese all’improvviso Rosie.
“Come?”
“Sono belle giornate e un po’ d’aria ti farebbe bene: oramai sei guarito abbastanza, no? Fare una passeggiata con Elisa non sarebbe male: a furia di stare a casa state perdendo questo bellissimo periodo.”
“Ci penserò.” acconsentì lui, anche se uscire voleva dire incontrare gli altri ragazzi.
Non sapeva il perché, ma aveva la pessima sensazione di essere nel torto marcio e che dunque ora ce l’avessero con lui, specie Heymans e Jean. Un’ulteriore conferma di quanto fosse meglio tornare al suo esclusivo rapporto con Elisa e con i libri. Del resto al piccolo stagno non correva il rischio di incontrare qualcuno di loro e…
“Bussano alla porta, vai tu, Vato? Con il fornello acceso non posso allontanarmi.”
“Tranquilla, mamma.” annuì, alzandosi in piedi con i calzoncini corti e la maglietta che costituivano la sua tenuta casalinga estiva. Probabilmente era Elisa che passava a vedere come stava.
“Ciao, Vato!” esclamò Kain, come aprì la porta.
“Kain? Oh, ciao Riza.”
“Voleva passare a trovarti – sorrise la ragazzina – ti dispiace?”
“No, dai entrate.”
Solo come i due si fecero avanti notò il tutore alla gamba di Kain e la stampella e provò una fitta al cuore, i pensieri che correvano al suo primo incontro con quel timido bambino. Si rimproverò mentalmente per non aver pensato a lui in questi giorni: sarebbe dovuto andare a trovarlo o fargli sapere in qualche modo che era felice del suo ritorno a casa.
“Come ti senti?” chiese il piccolo.
“Bene, ma dovrei chiederlo a te. Come va la gamba? Forza, venite in cucina, così ci sediamo. Mia madre è lì a prepararmi la merenda.”
Si accomodarono nel tavolo, accolti con un gran sorriso da Rosie e accettarono volentieri le mele cotte che vennero loro offerte. Anche se era cibo che in genere si mangia da malati, la donna ci aggiunse una spruzzata di zucchero che contribuì a migliorare il sapore.
Vato scambiò un’occhiata con Riza, come a chiederle quanto Kain sapesse della situazione tra lui e Roy, ma lei fece un gesto di diniego. Tuttavia era chiaro che quell’occhio nero parlava da solo: non era certo una malattia quella che l’aveva ridotto a letto.
E Kain poteva essere ingenuo su molte cose, ma fu rapido a collegare la sfuriata di Roy e il suo livido alla tempia con l’occhio nero di Vato.
“Ma perché? – mormorò perplesso – Tu e Roy siete così amici.”
A quella dichiarazione così sincera Vato abbassò lo sguardo e anche Riza si sentì profondamente imbarazzata. Non aveva mai detto niente in merito alla questione, limitandosi a stare accanto al furente Roy, proprio come Elisa faceva con Vato, ma non riusciva a capacitarsi della fine di quel legame così forte.
E io che mi ero preoccupata di essere un rimpiazzo, non oso immaginare quello che deve aver provato Vato.
Perché ovviamente lei ed Elisa ne avevano discusso e la situazione del ragazzo più grande appariva abbastanza chiara e, oggettivamente, non se la sentivano di dare la colpa esclusivamente a lui.
“Oh, stai tranquillo, Kain – disse l’altro, sforzandosi di sorridere – io e te siamo sempre amici, così come tu e Roy: non devi preoccuparti.”
“Ma non è bello. Non potete fare pace come per il tuo compleanno?”
“Kain – Riza gli accarezzò i capelli – è stato un litigio diverso, capisci? E ci vuole del tempo.”
“Effettivamente Roy sembrava molto arrabbiato: è andato via così in fretta.”
“Davvero?” Vato fece quella domanda del tutto involontaria e in cuor suo si sentì profondamente ferito da quell’ostilità che non accennava a diminuire. Fu di estremo conforto sentire le braccia di sua madre che gli stringevano le spalle e le sue labbra posate sulla chioma bicolore.
“Vedrete che tutto si risolverà, ragazzi – sorrise con dolcezza Rosie – bisogna solo avere pazienza.”
“Comunque mi dispiace davvero di non essere passato a trovarti – disse Vato per cambiare argomento – ti va di raccontarmi qualcosa di East City? Ho saputo che hai avuto occasione di visitarla un po’ e mi farebbe davvero piacere sentire come è fatta… specie dell’Università.”
Kain si fece dirottare docilmente verso quell’argomento, lieto di vedere l’amico sorridere, ma in cuor suo non credeva possibile che un litigio potesse degenerare in questo modo. Così, quando un’oretta dopo lui e Riza si congedarono, chiese perplesso:
“Perché si litiga sull’amicizia?”
“E’ una questione di gelosia, presumo.”
“Non credo che Roy odi Vato: insomma, sono stati insieme per tutto questo tempo. Che senso avrebbe? Se una persona mi dice che mi considera il suo miglior amico ne sarei felice, tu no?”
“E se un giorno tu mi dicessi che un’altra ragazzina ti considera come un fratello?”
“Che? Oh no, Riza – quasi gli cadde la stampella mentre la abbracciava – tu sei unica, non potrei avere altre sorelle all’infuori di te. Sei tu quella speciale, credimi.”
“Ti credo, piccolo mio – sorrise lei tranquillizzandolo – era solo per farti capire anche l’altro punto di vista. E’ come se qualcuno andasse da Heymans e gli dicesse che vuole essere il suo miglior amico, ma lui ha già Jean: non potrebbe mai preferire l’altro.”
“Sì, lo capisco… però non è giusto. Scommetto che Vato è un ottimo miglior amico.”
“Non lo metto in dubbio.”
“Sai, a volte mi sono chiesto se io avevo un miglior amico tra di voi, ma poi ho capito che preferisco di no. Tu sei mia sorella ormai e a te vorrò sempre bene in un modo tutto speciale, ma per quanto riguarda gli altri… ecco anche loro saranno speciali, ciascuno a modo suo. Capisci? Diversi eppure uguali e io ci sarò sempre per tutti loro.”
“E’ un bel ragionamento, molto altruista.”
“Siete così buoni con me – sorrise lui – ed io sono felice. Sai, dopo che per tanto tempo nessuno voleva stare con me ora mi sento così amato ed è una sensazione bellissima. Ah, eccoci a casa di Heymans, non entri pure tu?”
“No, devo tornare a casa e poi andare a fare la spesa – ammise Riza – mi mancano alcune cose per la cena di stasera e ne approfitto per fare alcune commissioni. Ma domani mattina passo a casa tua alle dieci, va bene?”
“Perfetto, lo dirò alla mamma. Buona serata, Riza.”
La ragazzina arruffò per l’ultima volta i capelli neri di Kain, lasciandolo solo a bussare alla porta.
Di conseguenza il bambino fu estremamente impreparato e privo di sostegno quando ad aprirgli fu Henry.
Era la prima volta che si vedevano dopo il fatidico lancio della penna e fu come se ciascuno vedesse un fantasma. La mano di Kain si serrò sulla stampella allo stesso modo in cui quella di Henry lo fece sulla maniglia. Rimasero così per una ventina di secondi, non sapendo cosa dirsi.
“Ciao.” mormorò infine Henry.
“Ciao.” rispose Kain, con voce leggermente ansiosa.
“La tua gamba…”
“Oh va bene – disse subito lui, come a giustificarsi – sta guarendo, sai. Eh… c’è per caso mio padre?”
“Sì, è in cucina con mia madre – annuì il rosso, esitando qualche secondo prima di fargli cenno di entrare – ti serve una mano?”
“No, ce la faccio da solo e… oh un micio!”
Carota scese le scale e si fermò perplesso a guardare Kain con la sua stampella ed il suo tutore. Henry lo prese in braccio e gli accarezzò il collo, facendo tintinnare il sonaglino.
“Si chiama Carota.”
“Posso accarezzarlo?”
“Mh – annuì lui – ma lo tengo in braccio, forse la stampella lo spaventa.”
Kain allungò la mano e accarezzò la testolina pelosa, provocando fusa di soddisfazione.
I due ragazzini poi tornarono a guardarsi, l’imbarazzo che tornava tra di loro.
“Senti – mormorò infine Henry – mi dispiace per l’incidente che hai avuto. Non volevo che succedesse, sul serio. Ma quel giorno proprio non ero in me.”
“Oh ma non fa niente, tanto mi riprendo del tutto.”
Il rosso annuì e gli fece strada verso la cucina: aprì la porta e lo fece entrare per poi dileguarsi verso le scale ancora con il gatto in braccio.
“Ehilà, figliolo – lo salutò Andrew – che ci fai qui?”
“Ciao, papà. Signora Laura. Sono sceso in paese con Roy, sulla sua bicicletta. Poi io e Riza siamo andati a trovare Vato ed infine lei mi ha accompagnato sino a qui: ho detto alla mamma che sarei tornato assieme a te.”
“Davvero? – sorrise l’uomo, prendendolo e sistemandoselo sulle ginocchia – Ottimo, allora tra una mezz’oretta andiamo.”
Laura stava per aggiungere altro, ma in quel momento entrò Heymans.
“Ciao, Kain – salutò, andandogli accanto e arruffandogli i capelli – non pensavo di trovarti qui, ma capiti proprio a fagiolo.”
“Ah sì?”
“Certo. Torno adesso da casa di Jean perché dovevo dirgli una cosa importante e ora ne approfitto per dirla a te: il 22 luglio è il mio compleanno.”
“Davvero? Grandioso, tra otto giorni!”
“Esatto e faccio una festa a casa: ovviamente tu e i tuoi siete invitati. Jean mi ha già detto che lui e la sua famiglia verranno di sicuro e prima ho incontrato anche Riza e pure lei ha detto che verrà.”
“Conta pure anche noi, allora. Vero, papà?”
“Assolutamente sì.”
Il rosso annuì con un gran sorriso, dimostrandosi entusiasta come raramente succedeva. Poi si fece serio in volto e rifletté ad alta voce:
“Ovviamente vorrei invitare Vato ed i suoi genitori e anche Elisa, ma lo stesso vorrei fare con Roy.”
Ne aveva parlato con Jean fino a poco prima, ma purtroppo non avevano trovato nessuna soluzione: invitare uno all’insaputa dell’altro poteva creare dei problemi, specie per Roy e, oggettivamente, Heymans non se la sentiva di rovinare quel giorno che aveva scoperto di attendere con impazienza.
Gli avrebbe fatto veramente piacere avere tutti i suoi amici attorno a sé, tuttavia non poteva imporre una sgradita presenza a qualcuno di loro.
Anzi, a questo proposito…
“Ci sarà anche mio fratello – fece, rivolgendosi a Kain – ti crea molti problemi?”
“Cosa? Ma no, assolutamente! – scosse il capo lui – Ci ho anche parlato poco fa, mi ha fatto accarezzare il vostro gatto. Sul serio, non mi dà alcun fastidio la sua presenza e poi è ovvio che lui ci deve essere, è tuo fratello.”
“Grazie, nanetto, tu sì che sei una persona con cui si può parlare senza problemi.”
“Tutto tace dai due fronti, vero?” chiese Laura.
“Sono stato da Vato prima – ammise Kain – e pare che non si parlino proprio. E Roy, quando gli ho accennato la cosa, si è molto arrabbiato ed è andato via. Non è come l’altra volta che hanno fatto pace subito.”
Heymans annuì, dando pienamente ragione al piccolo del gruppo.
 “Abbiamo ancora otto giorni di tempo per fargli fare pace.” disse Kain.
“Roy non farà pace, fidati di me. Questa volta non ascolterà nessuno di noi.”
“E allora ci parlerò io – disse Andrew con calma – che dici, Heymans, proviamo a salvare la tua festa di compleanno?”
“Sarebbe fantastico, signore – sorrise il ragazzo, totalmente fiducioso nelle capacità di quell’uomo – forse dopo il capitano Falman lei è l’unico che Roy ascolterà.”
 
“Capitano, per caso mio nipote si è beccato una nuova punizione?” chiese Madame Christmas quando Vincent entrò nel locale.
“No, non da parte mia – rispose l’uomo accostandosi al bancone – e penso di essere l’unico in grado di domare un pochino quel furfante. Perché? Che cosa è successo?”
La donna scoppiò a ridere sentendo il tono vagamente rassegnato.
“E’ tornato al locale circa due ore fa con una faccia che era tutta un programma. Sembrava quasi di vedere i fulmini ed i nuvoloni neri sopra la sua testa e le uniche volte che l’ho visto così amareggiato è stato dopo qualche litigio con lei.”
“Mi dispiace, ma questa volta non sono io l’artefice dei malumori di suo nipote. Posso salire a parlarci?”
“A suo rischio e pericolo, signore – indicò le scale – la strada la conosce fin troppo bene, ormai.”
Vincent sospirò e con un cenno della testa si avviò verso la tana del leone: sperava che il ragazzo fosse ormai uscito da questi momenti di depressione nera, ma a quanto sembrava non era ancora soddisfatto. E il capitano aveva scoperto che gli dava estremamente fastidio vederlo in simili atteggiamenti: Roy era fatto per combinare guai, essere sarcastico, vitale, non doveva starsene rinchiuso in una roccaforte di cattivi pensieri.
Quello l’ha già fatto per tutta la sua prima infanzia.
Arrivò alla porta e bussò.
“Roy, sono io.” chiamò.
Non ottenne nessuna risposta. Provò ad abbassare la maniglia, ma scoprì che il ragazzo si era chiuso a chiave.
“Roy – chiamò di nuovo – andiamo, voglio solo parlare. Cerca di comportarti da adulto.”
“Proprio io che dovrei godermi la mia adolescenza? – la voce del ragazzo, nonostante fosse attutita dalla porta trasudava acido – Mi lasci godere il mio momento di infantilismo!”
“Questo sarcasmo non ti aiuta sai…”
“Mia zia ha qualche cucchiaio di legno in cucina, se lo faccia prestare, ma io questa porta non la apro!”
“E quindi te ne stai chiuso in camera, manco fossi in castigo? – commentò Vincent – proprio una bella mossa, complimenti. Andiamo, possiamo parlarne come abbiamo fatto l’altra volta.”
“Non c’è niente di cui parlare – sentenziò Roy – sono di malumore, va bene? Vi decidete a lasciarmi in pace una buona volta? Vi crea così tanti problemi il fatto che voglia stare solo?”
“Sì, me li crea! – sospirò Vincent – scusa tanto se mi preoccupo per te. Cosa credi che mi faccia piacere saperti di malumore? E’ sempre per quel motivo, vero?”
Non ci fu nessuna risposta.
“Roy, non puoi continuare a tenere il broncio per sempre. Avete sbagliato entrambi, se ci pensi scoprirai che è vero, perché non fai uno sforzo?”
“Il suo parere non conta, capitano, non questa volta. Vato è suo figlio e non c’è l’imparzialità che mi aspetto… la colpa è di suo figlio, non mia. Posso essere lasciato in pace una buona volta?”
“Va bene, signorino, fai come credi – sbottò l’uomo – rimani chiuso nella tua roccaforte a rimuginare sul tuo prezioso orgoglio. Ribadisco il concetto che ti dissi tempo fa: devi ringraziare di non essere mio figlio, altrimenti ti farei il sedere nero dalla mattina alla sera.”
“Come se adesso si ponesse problemi!” sbottò Roy dall’altra parte, la voce più vicina, segno che si era accostato alla porta.
“Stai tranquillo che se fossi figlio mio la porta non oseresti chiuderla. Buona serata, Roy Mustang, goditi la tua solitudine.”
“Con vero piacere! E dica a tutti che la roccaforte è sigillata!”
“Non mancherò.”
Vincent girò sui tacchi e si avviò verso le scale, profondamente irritato da quell’atteggiamento.
Non era disposto a parlare con una porta tra lui e quel ragazzino testardo.
  
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