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Autore: E m m e _    25/04/2014    3 recensioni
In un mondo dove gli Angeli hanno preso il sopravvento, costringendo il genere umano alla schiavitù, o peggio alla morte, Allison si risveglia all’interno di una delle stanze del Paradisum, unità operativa dei nuovi sovrani del Pianeta Terra, con l’unico ricordo di cadere da un edificio e una voce che la chiama.
Non conosce la sua identità ma sa che, probabilmente, è già morta, caduta vittima degli Angeli.
Ad attenderla al suo risveglio, però, Caliel, un Angelo in attesa che Aniel, la sua compagna di vita, si risvegli dal suo sonno nel corpo mortale di Allison.
Ma ciò non accade.
Lei sa di essere in pericolo, così come ogni essere umano rimasto sul Pianeta, ma non può scappare.
Il suo destino è segnato: diventare una schiava o morire.
E lei non può permetterlo.
Genere: Azione, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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3.
Vita.

 
 
Quella mattina mi risvegliai in un letto gelido e bianco, simile a quelli all’interno dei vecchi ospedali, dove io e altri Ribelli, durante la Grande Guerra, ci eravamo rifugiati, certi che, in ogni caso, avremmo avuto le medicine necessarie per curarci.
Battei più volte le ciglia, chiedendomi quando e com’ero arrivata in quelle lenzuola chiare, che profumavano di fresco, di aria, come se fossero stati ad asciugare al sole, come faceva mia madre prima del finimondo.
«Bentornata tra noi, Aniel…», la voce di Caliel mi riempì di due emozioni contrastanti, felicità di sentire una voce a me familiare e, al tempo stesso, terrore, sapendo che, dietro i suoi magnetici occhi scuri, si nascondeva il più terribile dei nemici.
Un Angelo.
Nessuno seppe bene come gli Angeli entrarono a far parte della nostra vita.
La violenza con cui i ricordi m’invasero mi lasciò quasi senza fiato, come un pugno in pieno petto.
Successe tutto così rapidamente che, ormai, erano diventati parte integrante delle nostre vite, senza nemmeno il tempo di accorgercene.
Era cominciato tutto con brevi attacchi a cittadine sperdute nel mondo, poche decine di vittime, tra l’Africa e l’Asia, poi la “malattia”, così la chiamava mio padre, si era sparsa in tutta Europa, in America e nel resto del mondo, fino a raggiungerci.
Prima della fine del mese eravamo già sotto assedio in una guerra impossibile da vincere.
Le prime vittime furono gli anziani, centinaia di corpi, compresi quelli dei miei nonni materni, bruciarono all’interno della Piazza Grande, a pochi isolati da casa mia, davanti alla grande statua dell’Angelo d’oro, dove, da bambina, andavo a giocare ogni giorno con i miei compagni, tra cui Beatrice Thomas, la mia migliore amica.
Lei morì poco dopo, a causa di una malattia che le fu fatale, e che la portò via da me dopo due lunghe settimane d’immenso dolore, che mi fecero apprendere a pieno quanto fosse importante, per me, la sua presenza al mio fianco.
Ma, infondo, è, ed è sempre stato, così: ci accorgiamo di quanto le cose siano importanti ad un passo dal perderle.
Quando gli Angeli scoprirono il nostro rifugio, il giorno stesso della sua morte, io e un altro gruppo di Ribelli decidemmo di andar via, di rifugiarci presso uno dei vecchi ospedali della città dove, secondo la voce di un ragazzo, i Nemici erano già passati e avevano già distrutto le tecnologie che, fino a qualche tempo prima, erano state necessarie per le richieste d’aiuto.
Non avemmo nemmeno il tempo di sotterrarla, di darle una sepoltura degna della brava persona che era.
In poche settimane gli Angeli mi avevano portato via tutto ciò che avevo sempre amato, i miei nonni, la mia migliore amica, la mia città, e si accingevano, pian piano, a portar via tutto il resto, come le scuole, le librerie, le mense per i poveri e tutto il resto.
Rimanevamo solo io, la mia famiglia, insieme a quella di Beatrice, e il resto dei Ribelli.
Pian piano, durante i mesi, ci furono portati via i bambini, creature dai primi giorni di nascita ai quattordici anni, e non sapemmo mai quale atrocità gli Angeli avessero potuto commettere contro di loro, poi iniziarono a sparire delle persone.
Una mattina, davanti all’ospedale, trovammo un uomo impiccato a un lampione fuori-stante, ancora acceso.
Era il padre di Beatrice.
Fu il primo a cedere, durante la battaglia.
Secondo sua moglie non aveva retto il dolore della perdita della sua unica e amata bambina, che non riuscisse a reggere tutto il male che ci stavano causando.
E riuscii a capirlo; per un attimo non mi ero chiesta se anch’io, come lui, non avrei retto tutto questo, se anch’io, come il padre di Beatrice, mi sarei tolta la vita, da lì in poi, senza lasciar nulla detto a nessuno, senza far sapere alle persone che amavo quanto gli volessi bene.
Mi ero chiesta se sarei morta anch’io senza nessuno al mio fianco, come lui, senza sapere se ne sarebbe valsa la pena, poi, morire così.
Eravamo umani, tutti noi dovevamo completare un circolo.
Un circolo vizioso, a quanto pare, ed era per questo che eravamo stati puniti, forse.
Eravamo umani, l’unica direzione davvero giusta da prendere, alla fine, sarebbe stata la morte.
Per raggiungere un posto migliore, forse.
Un posto dove un Lui aveva deciso di punirci tutti, dal primo all’ultimo, senza una vera spiegazione, senza un logico perché che ci tormentava ogni giorno senza fine.
I miei genitori, e il resto dei Ribelli, l’avevano chiamata la Grande Guerra, ma non riuscii mai a capire il perché: non avevamo avuto né tempo né la forza di controbattere il loro attacco e, probabilmente, anche se l’avessimo fatto, la nostra sarebbe stata ugualmente una morte certa.
Il padre di Beatrice non fu l’unico a farla finita di sua spontanea volontà: quando le portarono via suo figlio, anche la madre della mia migliore amica fu ritrovata morta, a causa di un mix letale di medicine, seguita poi da tanti altri ancora, alcuni avevano persino la mia età.
Mio padre mi fece promettere che, se l’idea mi fosse venuta in mente, così, anche per sbaglio, avrei dovuto reprimerla, pensando che, nonostante tutto, avevo ancora loro e che, durante la guerra o meno, non li avrei persi mai.
La mattina dopo avermi fatto quel discorso, i miei genitori partirono, mano nella mano.
Mi avevano dato un bacio sulla fronte, entrambi, prima di partire, pensando forse che stessi dormendo, e mi avevano detto quanto mi amavano e che avrebbero fatto di tutto pur di salvarmi.
Mia madre aveva pianto per tutto il tempo.
Il giorno dopo ancora, alla radio, un nostro soldato ci riferì che una coppia si era fatta esplodere nel centro esatto della piazza, dove molti Angeli erano rimasti accampati.
Non c’era stato alcun dubbio per me.
Erano morti.
Morti per mantenermi in vita.
L’idea mi aveva consumata nel tempo, ma non mi permisi lacrime, tanto da distruggermi, alla fine, facendomi rimanere semplicemente un mucchio di pensieri e di respiri forzati.
Il giorno in cui gli Angeli attaccarono l’edificio che era ormai il nostro rifugio, distrussero tutto, medicine, computer, scaffali pieni di attrezzatura medica.
Pochi riuscirono a scappare, solo i più veloci.
Il resto, tra cui anche me, fu affidato a un gruppo di Angeli armati che ci condussero sul tetto dell’edificio.
Il sole ci batteva sulle teste, facendo quasi male, ma nessuno provò a lamentarsi.
Sarebbe stato inutile quando uno dei loro proiettili ci sarebbe finito nel centro esatto della fronte.
Mio padre mi aveva chiesto di reprimere il pensiero della mia morte, ma sarebbe bastato poi, quando la consapevolezza di farla finita era ormai così imminente?
Me ne sarei fatta qualcosa, del loro amore, quando quei proiettili ci avrebbero trivellato le membra?
Un ricordo lontano mi aveva attraversato la mente, il pensiero di essere un Angelo, quando ero solo una bambina, un essere privo di peccato dalle candide ali dorate.
Avrei dovuto desiderare lo stesso, in quel momento?
Essere un Angelo, l’anima priva di peccato ma le mani sporche di sangue d’innocenti?
Ricordai il mio corpo spingersi in una corsa disperata, verso il cornicione, con le punte dei piedi nudi contro il nulla, il mio sguardo perso nell’oscurità.
Uno di loro mi aveva ordinato di scendere, ma non l’ascoltai.
Sarebbe cambiato qualcosa, tanto? Sarei morta ugualmente.
Ma non sarei mai stata una pedina nelle loro mani.
Suicidarsi è peccato, avevo pensato. Alla fine, però, avrebbe fatto differenza?
Che senso aveva avuto la mia vita, nonostante fosse così breve? Nessuna.
Non avevo potuto evitare che la guerra ci distruggesse, non avevo potuto evitare la morte di Beatrice, o del rapimento di suo fratello, né il suicidio di suo padre.
Non avevo potuto evitare che i miei genitori si togliessero inutilmente la vita per me.
E allora che senso aveva continuare a vivere?
Dal cornicione il vento aveva portato con sé l’odore di margherite di campo e di erba appena tagliata.
E avevo fatto un ultimo respiro.
E il mio corpo era caduto giù, trascinato dalla forza di gravità, spinto dalla mia volontà, o forse dalle mani di qualche Angelo impaziente di vedermi spiaccicata sull’asfalto.
Diventare schiavo o morire.
Ed io avevo scelto la seconda opzione.
 
Suicidarsi è peccato.
Ma vivere lo sarebbe stato ugualmente.
 
«Aniel…», la voce di Caliel mi riportò bruscamente alla realtà, mentre le mie membra erano scosse da brividi leggeri, mentre le mie lacrime venivano giù, come pesanti gocce di pioggia da un cielo grigio, «Stavi piangendo…», sussurrò a bassa voce sedendosi al mio fianco.
Mi strinse a sé ma, nonostante avvertissi verso di lui solamente disgusto, non riuscii a separarmi da quel suo abbraccio.
«Stavi sognando a occhi aperti?», chiese e lo sentii sorridere mentre il mio viso si scontrava con la sua maglietta scura, bagnandolo di lacrime.
Immagini di visi a me conosciuti, da quello di Beatrice a quello di mio padre che mi faceva promettere di vivere, scossero i miei pensieri, senza permettermi di smettere di piangere.
Vivere.
Quella parola mi pareva così astratta, in quel momento.
Che cosa voleva dire vivere quando ero rinchiusa lì dentro come una bestia feroce?
Ma loro mi credevano dalla loro parte, mi credevano Aniel e questo giocava a mio favore.
Mi permetteva di vivere, così come avevo promesso a mio padre, nonostante io stessa avessi  attentato alla mia vita pur di non diventare di loro proprietà.
«Sì», bisbigliai piano contro il tessuto della maglietta di Caliel, «Stavo sognando». 


 
Angolo autrice:
Uhhh! Davvero, come ha detto la mia amica Alice, è stato un PARTO!

Ci ho messo ore per cominciare ma alla fine eccolo qui e ne sono davvero orgogliosa *-*
Tra la canzone del film Never Let Me Go e la struggente storia di Allison, spero che il capitolo vi sia piaciuto tanto quanto a me è piaciuto scriverlo!
Spero vi vada anche di lasciarmi un vostro parere, specialmente in questo capitolo che, francamente, dall'inizio è quello che più mi piace (nonostante sia solo il terzo capitolo di questa storia che spero di continuare al più presto)!

Passiamo ai ringraziamenti:

Grazie a:
-Fredlove; MockinGleek_; Mani_Tu_52; Drachen e Sxds per le vostre recensioni!
Spero che anche questo capitolo vi piaccia :*

Alla prossima -Miri
   
 
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