Il destino di Qayin
Nella
camerata maschile, l’aria risultava più pesante
del
solito. Chi se ne stava seduto sui letti, chi girava per la stanza, chi
parlava concitato con un altro. Nessuno dei ragazzi, però,
poteva dirsi tranquillo. L’avevano combinata grossa e se,
come
diceva sempre Ezio, dovevano operare come una squadra, allora non erano
solo Bengiamino e Chiara, ad essere nei guai.
«Far fare a due ragazzini il lavoro di un uomo, ecco la
causa», disse Spallaci, sbracciandosi per la stanza.
«Perché diavolo ti hanno tenuta qui, fiorentina?
Non sei
nemmeno capace di allacciarti le scarpe!»
Violante si sporse dalla finestra, guardando il Tevere sotto di
sé e trovandolo attraente. Forse poteva lanciarsi ed evitare
di
sentire ancora Spallaci dare addosso ad un suo compagno, o Machiavelli
sbraitare. Per giusta misura si tirò indietro, appoggiandosi
con
i fianchi al muro, accanto a Cristiano.
Il biondo la guardò, senza scostarsi dalla sua posizione che
lo
vedeva addossato a una sbarra del letto con le braccia conserte.
«Non ti crucciare», commentò, sottovoce.
«Era
ovvio, che prima o poi uno sgarro sarebbe capitato.» Fece per
aggiungere qualcos’altro, ma la porta della camerata si
aprì di scatto.
Machiavelli entrò con passo deciso, seguito con
più
riluttanza da Maria che, per una volta, in faccia non aveva
un’espressione di rabbia ma di preoccupazione.
Chissà di che avevano parlato.
«Il guaritore se ne sta andando»,
annunciò la donna,
facendosi avanti fino a raggiungere il centro della stanza.
«Se
qualcuno ha da farsi ricucire qualche ferita, è questo il
momento di andare.» Aspettò una manciata di
secondi per
dare il tempo a chi di dovere di alzarsi.
«Nessuno?»,
incalzò dopo un istante. «Molto bene.»
Camminò spedita fino a Bengiamino, in piedi accanto a una
delle
finestre, e si fermò un istante a guardarlo negli occhi.
Il rumore dello schiaffo che gli piazzò su una guancia
risuonò talmente secco che, per un istante, fu
l’unico
suono a rompere il silenzio della stanza.
Poi Chiara si alzò.
«Non fargli del male!», protestò,
raggiungendo il
suo compagno a passo spedito. «È stata tutta colpa
mia!»
Maria si voltò, furibonda.
«Oh, ma lo so bene!», commentò. Lo
schiaffo che
riservò alla fiorentina fu così forte da voltarle
la
faccia. «Io ho finito», riprese poi, tornando
accanto a
Machiavelli mentre si tastava il palmo aperto della mano.
«Lascio
a te le parole, Niccolò.»
Per la prima volta, Violante si trovò in completo accordo
con la modenese.
Quei due avevano rovinato tutto, con quella scenata. Se non si fosse
messo in mezzo Bengiamino, sicuramente Chiara avrebbe comunque preso
uno schiaffo, ma l’intera operazione si sarebbe salvata. Ora
i
Templari conoscevano i volti della maggior parte di loro.
«Siete in assoluto la cricca di idioti più grande
con cui
io abbia mai avuto il dispiacere di avere a che fare»,
decretò a denti stretti Machiavelli, quasi ringhiando quelle
parole di puro disprezzo. «Siete riusciti non solo a farvi
scoprire, ma anche a scatenare le ire dei Borgia.» Il suo
sguardo
si soffermò su Chiara. «Spero che vi trovino, a
questo
punto. Saprebbero punirvi meglio di me e io mi libererei di pesi
morti.»
Nessuno si azzardò a fiatare.
Erano tutti talmente intimoriti che nemmeno Chiara osò
lasciarsi
sfuggire un singhiozzo, nonostante i suoi occhi scuri fossero rossi e
pieni di lacrime.
«Ezio sarà costretto a letto per almeno una
settimana», continuò Machiavelli, portandosi una
mano alla
fronte per massaggiarsi le tempie. «E spero vivamente che
ognuno
di voi si senta sollevato dalla cosa. Se quel fendente non fosse
arrivato a lui, di certo a quest’ora avremmo avuto un
Assassino
in meno. Sempre che voi possiate essere chiamati tali.» Prese
un
grosso respiro, ritornando composto con le braccia dietro la schiena.
«Per tutto il tempo in cui il vostro Mentore sarà
a
riposo, consideratevi sollevati da ogni incarico. Le acque devono
calmarsi e le guardie devono dimenticare i volti di chi di voi
è
stato così stupido da affrontarle senza ucciderle. Non
voglio
vedere nessuno, e sottolineo, nessuno azzardarsi a lasciare il Covo
sotto mia specifica approvazione. Nessun allenamento fuori dai confini
dell’Isola, nessuna serata in quella lurida topaia dove
Corella
vi ha insegnato ad ubriacarvi e soprattutto nessuna stupida sfida che
vi faccia sembrare gli inetti debosciati che siete. Sono stato
chiaro?»
Ci furono solo mormorii di assenso.
Maria sospirò a lungo, prima di prendere la parola per un
istante.
«Chiederò a Bartolomeo d’Alviano di
insegnarvi
qualcosa con la spada, così da non rendere del tutto futili
questi giorni di fermo obbligato. Magari lui e Volpe riusciranno a
farvi entrare qualcosa in testa.»
«Mi sembra un’idea saggia», ne convenne
il
consigliere, prima di riprendere parola. «Ora, prima di
spedirvi
a calci a letto senza desinare – cosa che non vi siete
meritati
– dobbiamo affrontare una questione che troppo a lungo si
è rimandata. Qui, fra noi, vi è una
spia.»
L’assenza di reazione parve indispettirlo ulteriormente.
«Ma voi, ovviamente,
lo sapete già!»
Spallaci scoppiò a ridere.
«E ve ne accorgete adesso?», gridò,
puntando il dito
contro Corella. «Mai notato che lui e il sicario di quel cane
di
Borgia portano lo stesso cognome? No? Forse non siamo noi gli idioti,
qui.»
Il forlivese scattò in piedi, alzando le braccia in segno di
resa.
«Non ho niente a che fare con le scelte di mio
fratello»,
si difese, pacato. «Io e Michelotto ci incontriamo una volta
al
mese e ceniamo assieme, è vero, ma mai per i fini di cui mi
accusate. Ci guardiamo bene dal nominare i nostri Ordini.» Si
voltò verso Machiavelli, tirando su col naso.
«Michelotto
non è santo, ma resta mio fratello. E non
c’è
fazione che possa farmi dimenticare questo fatto.»
Maria parve appoggiarlo. Annuì vistosamente, guardando con
la
cosa dell’occhio Machiavelli, prima di prendere parola.
«Credo che le parole di Corella siano giuste e piene di
sentimento; non possiamo di certo impedirgli di vedere la sua
famiglia.»
«Non possiamo però escludere che qualche
informazione
trapeli, da questi incontri», disse Machiavelli, mentre
Spallaci
sorrideva vittorioso. «Che sia per stupidità o
intenzione,
dobbiamo arginare la cosa. Spedire Corella a Venezia forse è
una
soluzione …»
Alessandro impallidì, ma ci pensò Cristiano
appoggiato da Bengiamino a far cambiare idea a Machiavelli.
«Non possiamo rinunciare a nessuno, ormai siamo rimasti in
dieci.
Se parte anche lui, sarà una grossa perdita.»
«Senza contare che non va punito chi stasera ha eseguito gli
ordini alla lettera.»
Corella sorrise, grato, mentre Spallaci si sedeva scontento accanto a
Paola.
Fu lei a prendere la parola.
«Come fate a dire che sia uno di noi e non qualcuno che
è partito per la Serenissima?»
«Cesare ha fatto i nomi di alcuni di voi», rispose
prontamente Machiavelli. «Perciò, il traditore
è
ancora tra noi. In questa stanza, ad essere esatti.»
Una serie di sguardi diffidenti prese a girare tra i ragazzi.
Ormai, chiunque poteva dirsi nemico di chiunque.
Maria alzò gli occhi al cielo, muovendo un passo avanti.
«Quello che Niccolò sta cercando di
dire»,
precisò, sospirando. «È che ora
più che mai
abbiamo bisogno di fare gioco di squadra. Non possiamo più
permetterci di stare l’uno contro l’altro. Da
questo
comportamento immaturo, la spia trarrà soltanto
vantaggi.»
«Resta il fatto che potrebbe essere chiunque»,
puntualizzò Laura, affranta. «Io, Bengiamino,
persino
Violante! Non abbiamo alibi per toglierci dalla lista dei
sospetti.»
«Nessuno ha scusanti», la appoggiò la
bolognese,
incrociando le braccia sotto al seno. «Per tenere monitorati
gli
spostamenti, dovremmo sempre dire precisamente dove stiamo andando e
perché. Si dovrebbe tenere un registro, con gli orari e il
giorno, così da definire chi sa cosa e quando.»
«Sembra un buon piano», acconsentì
Corella.
«Ma chiunque può dire qualsiasi cosa e in mille
differenti
modi. Secondo me, noi non dovremmo sapere più nulla di
nulla.
Addestramenti e basta, non deve importarci di altro.»
«Io non voglio venir tagliato fuori», si
infuriò
Spallaci. «Non sono un maratoneta da far allenare; io sono un
Assassino!»
«Chi poteva sollevare obiezioni se non tu,
Augusto?»,
domandò affabile Cristiano, non cogliendo lo sguardo
sospettoso
di Bengiamino.
Spallaci fulminò il ferrare con lo sguardo.
«Insinui qualcosa, Principe?», rispose.
Machiavelli sospirò pesantemente.
«Basta così», sentenziò,
alzando la voce quel
poco che bastava per farsi udire sopra i toni accesi dei ragazzi.
«Farete ciò che vi verrà detto e lo
farete in
silenzio. Nel caso non vi fosse ancora chiaro, un Assassino sa anche
eseguire gli ordini senza mettere becco nelle decisioni di chi gli
è superiore di grado.» Fece una breve pausa,
voltando le
spalle alla stanza per poi avvicinarsi alla porta. «E adesso
tutti a dormire. Ragazze nella vostra camerata entro due minuti. E lo
rendo chiaro fin da ora: se stanotte sentirò ruotare il
pomello
di una delle vostre porte, sarà mia premura darvi
personalmente
in pasto alle guardie dei Borgia.»
E detto questo se ne andò, lasciando dietro di sé
una fila di borbottii incomprensibili.
Maria lo seguì subito dopo, premurandosi prima di lanciare
uno
sguardo infastidito a Bengiamino e Chiara, come a sottolineare la sua
indisposizione verso di loro ancora una volta.
«Direi che è andata bene»,
commentò
sarcasticamente Corella, ricevendo, come ricompensa, uno schiaffo sulla
nuca da parte di Laura.
La milanese si alzò in piedi, seguendo con lo sguardo Paola
e Chiara che uscivano a testa bassa dalla stanza.
«Poteva davvero andare peggio», si
ritrovò ad
asserire, prima di chinarsi per lasciare un bacio sulla fronte di suo
fratello. «Riposa, anche se domani non abbiamo nulla da fare
sarà meglio scendere a tirare un po’ con
l’arco. Hai
mancato Borgia.»
«Buonanotte», la salutò lui, non
commentando.
Era lampante come quell’errore lo tormentasse più
dello schiaffo di Maria.
Intitolò
la sua prima raccolta “Sonetti per un cavaliere”,
ispirandosi forse un po’ troppo al San Gimignano che aveva
studiato presso il precetto.
Con la sua fuga, avvenuta solo una settimana prima, Marcello aveva
guadagnato qualcosa di prezioso. Oltre a una ventina di frustate che
l’avevo letteralmente piegato in due, il Conte di Ladispoli
aveva
provveduto a fornire alla torre una guardia più anziana,
più armata ma decisamente meno incline al sopportare le
lamentele del prigioniero.
A Marcello era bastato lagnarsi per un giorno o due ed ecco che aveva
visto carta e calamaio sbucare dallo scrittoio sul corridoio.
Nella noia della sua reclusione, si era improvvisato poeta.
“Sonetti per un cavaliere” venne così
scritto di
getto in pochi giorni, quando la luce che filtrava dai lucernari era
sufficiente per permettergli di rileggere il suo elaborato. Avrebbe di
certo continuato la produzione anche di notte, quando
l’insonnia
lo costringeva a rannicchiarsi in un angolo del suo giaciglio, ma non
disponeva né di candele né di lumi. Su quel
punto, la
guardia era stata irremovibile.
Così, di nuovo prigioniero ma ora dotato di vena artistica,
Marcello Donà trascorreva le ore nel nulla più
buio,
camminando quei pochi passi che la sua stretta cella gli permetteva di
fare e rigirandosi di continuo nel pagliericcio che gli era rimasto
come letto.
Il Conte gli faceva visita sempre più di rado e, con ogni
giorno
che passava, si faceva sempre più irascibile. Parlottava con
il
suo secondo in comando e malediceva un colpo Cesare Borgia, un colpo la
nobiltà romana, un colpo l’Assassino di non si era
ben
capito dove. Alla risposta di Francesco Donà alla richiesta
di
riscatto, comunque, non faceva mai menzione.
Ormai, Marcello cominciava seriamente a dubitare che sarebbe mai
arrivata, la missiva che avrebbe concordato la sua liberazione.
Dopotutto a Venezia avevano fatto così tanto, per spedirlo a
Roma, che di certo non si sarebbero scomodati per farlo tornare.
Non suo padre, quanto meno.
Sua madre avrebbe di certo mosso mari e monti per riabbracciarlo, ma
non aveva modo di accedere alla corrispondenza ufficiale,
perciò
come poteva sapere?
Marcello aveva provato così tante volte a corrompere una
guardia per fare da messo che ormai aveva perso le speranze.
E allora se ne stava lì, solo nel suo pagliericcio, a
scrivere
stupidi sonetti ispirati dagli spifferi gelidi della torre.
Mentre la voglia di riprendere in mano la sua vita cominciava ad
abbandonarlo lentamente, Marcello aspettava una giornata abbastanza
fredda per ammalarsi, un rancio avvelenato o una guardia
sufficientemente violenta da picchiarlo a morte al primo insulto.
Piangeva nel sonno, di giorno non si azzardava a fare altro che restare
disteso a terra, attaccando – senza troppo successo
–
bottone con la nuova guardia.
Arrivò presto al punto in cui l’unica convinzione
che gli
era rimasta era che c’era un solo modo per abbandonare quelle
celle: in una cassa da morto. Poco importava, come ci sarebbe entrato;
l’unica via per lasciarsi alle spalle la torre era quella
verso
il Creatore.
Realizzarlo lo distrusse, lo lasciò senza la speranza che
fino a quel momento l’aveva fatto tirare avanti.
All’improvviso, non riuscì più tenere
il conto dei giorni che passavano.
Era tutto un estenuante susseguirsi di passi, di lamentele gridate dal
corridoio, di ranci improponibili e della guardia che glieli ficcava in
bocca a forza per non farlo morire di fame.
Raggiunse il limite durante una notte di tempesta, quando
l’acqua
che gocciolava dal soffitto gli colpì per
l’ennesima volta
la fronte lasciata scoperta dai riccioli castani.
Quasi senza rendersene conto, perse completamente il controllo.
Sporco, fradicio e infreddolito, buttò quelle poche energie
che
gli erano rimaste in un pianto disperato che scoppiò
all’improvviso, come un temporale in una giornata di sole, e
che
obbligò la guardia ad avvicinarsi alla cella per dare
quantomeno
un’occhiata.
Sarebbe stato così facile, strattonarla sulle sbarre e
tramortirla con un colpo ben assestato, ma Marcello non aveva
più la forza neanche per pensare a un tentativo di fuga.
Tutto ciò che voleva era mettere fine a
quell’esistenza che da triste era diventata a dir poco
insostenibile.
«Voglio andare a casa!», gridò, quando
il gendarme
si piegò sulle ginocchia con fare preoccupato.
«Uccidetemi
adesso e date il mio cadavere ai cani! Non ce la faccio
più!»
L’uomo dall’altra parte delle sbarre
sospirò. Mentre
Marcello piangeva, sfilò dalla cinta un coltellaccio da
macellaio dall’aria usurata e lo depose tra il fieno della
cella.
«Questo apparteneva a un ragazzino in vena di
scherzi», spiegò, atono. Nonostante tutto,
però,
Marcello udì nella sua voce un po’ di
commiserazione.
«Nessuno finirà dei guai, se dovessero trovartelo
addosso.»
Lo stivale della guardia spinse il coltello sotto le sbarre,
lasciandolo dinanzi ai piedi di Marcello.
Lui abbassò lo sguardo, sconfortato.
«Credevo sareste stato voi, ad uccidermi»,
commentò.
La guardia rise.
«Non mi azzarderei mai a far fuori uno dei prigionieri
Cimaglia!», rispose a voce alta. «Quando gli
salterà
in testa di toglierti di mezzo, proverà il più
immenso
dei godimenti, nel farlo. Di certo non voglio essere la causa del suo
dispiacere quando ti troverà morto!»
Marcello corrugò la fronte, ma non controbatté.
«Ah, e poi», continuò l’uomo
sul corridoio.
«Se fossi così gentile da aspettare il cambio
della
guardia, te ne sarei davvero grato. Un favore per averti procurato il
coltello.» E gli sorrise con disinvoltura, allontanandosi
rapidamente per tornare alla scrivania.
Marcello sospirò mestamente, raccogliendo l’arma
tra le mani.
Al contatto con la lama gelida, un brivido gli percorse le braccia e
gli fu chiaro come il sole il fatto che non sarebbe mai riuscito a
suicidarsi.
Forse era pronto per accettare la morte, ma conficcarsi un coltello nel
petto era tutto un altro paio di maniche.
Abbattuto, buttò l’arma a terra, lasciandosi
scivolare sul
pavimento mentre gli occhi gli si riempivano delle lacrime che
l’arrivo della guardia aveva scacciato.
Non se ne sarebbe mai andato.
Affondando il viso nella paglia lercia della cella, non poté
far altro che abbandonarsi al pianto.