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Autore: VandasGirls    25/04/2014    2 recensioni
«Ti ho tenuto nascoste molte cose, bambina mia», disse addolorata Lucia Marcelli, portandosi una mano al viso. «Ma ora è giusto che tu abbia una vita migliore. Questa è l’eredità di tuo padre.»
«Io sto bene qui.»
Violante guardò la chiave che sua madre le stava porgendo, senza far nulla per afferrarla. Tutto stava avvenendo troppo rapidamente, senza preavviso alcuno; si sentiva spaventata, stranita. Non voleva saperne nulla.
«Non andrò con Messer d’Alviano da nessuna parte.»

Cinque Assassini figli di Caino, cinque destini mescolati tra loro per raggiungere lo stesso obiettivo.
Genere: Azione, Generale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bartolomeo d'Alviano, Ezio Auditore, Niccolò Machiavelli, Nuovo personaggio, Volpe
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il destino di Qayin

Capitolo undicesimo




Nella camerata maschile, l’aria risultava più pesante del solito. Chi se ne stava seduto sui letti, chi girava per la stanza, chi parlava concitato con un altro. Nessuno dei ragazzi, però, poteva dirsi tranquillo. L’avevano combinata grossa e se, come diceva sempre Ezio, dovevano operare come una squadra, allora non erano solo Bengiamino e Chiara, ad essere nei guai.
«Far fare a due ragazzini il lavoro di un uomo, ecco la causa», disse Spallaci, sbracciandosi per la stanza. «Perché diavolo ti hanno tenuta qui, fiorentina? Non sei nemmeno capace di allacciarti le scarpe!»
Violante si sporse dalla finestra, guardando il Tevere sotto di sé e trovandolo attraente. Forse poteva lanciarsi ed evitare di sentire ancora Spallaci dare addosso ad un suo compagno, o Machiavelli sbraitare. Per giusta misura si tirò indietro, appoggiandosi con i fianchi al muro, accanto a Cristiano.
Il biondo la guardò, senza scostarsi dalla sua posizione che lo vedeva addossato a una sbarra del letto con le braccia conserte.
«Non ti crucciare», commentò, sottovoce. «Era ovvio, che prima o poi uno sgarro sarebbe capitato.» Fece per aggiungere qualcos’altro, ma la porta della camerata si aprì di scatto.
Machiavelli entrò con passo deciso, seguito con più riluttanza da Maria che, per una volta, in faccia non aveva un’espressione di rabbia ma di preoccupazione.
Chissà di che avevano parlato.
«Il guaritore se ne sta andando», annunciò la donna, facendosi avanti fino a raggiungere il centro della stanza. «Se qualcuno ha da farsi ricucire qualche ferita, è questo il momento di andare.» Aspettò una manciata di secondi per dare il tempo a chi di dovere di alzarsi. «Nessuno?», incalzò dopo un istante. «Molto bene.»
Camminò spedita fino a Bengiamino, in piedi accanto a una delle finestre, e si fermò un istante a guardarlo negli occhi.
Il rumore dello schiaffo che gli piazzò su una guancia risuonò talmente secco che, per un istante, fu l’unico suono a rompere il silenzio della stanza.
Poi Chiara si alzò.
«Non fargli del male!», protestò, raggiungendo il suo compagno a passo spedito. «È stata tutta colpa mia!»
Maria si voltò, furibonda.
«Oh, ma lo so bene!», commentò. Lo schiaffo che riservò alla fiorentina fu così forte da voltarle la faccia. «Io ho finito», riprese poi, tornando accanto a Machiavelli mentre si tastava il palmo aperto della mano. «Lascio a te le parole, Niccolò.»
Per la prima volta, Violante si trovò in completo accordo con la modenese.
Quei due avevano rovinato tutto, con quella scenata. Se non si fosse messo in mezzo Bengiamino, sicuramente Chiara avrebbe comunque preso uno schiaffo, ma l’intera operazione si sarebbe salvata. Ora i Templari conoscevano i volti della maggior parte di loro.
«Siete in assoluto la cricca di idioti più grande con cui io abbia mai avuto il dispiacere di avere a che fare», decretò a denti stretti Machiavelli, quasi ringhiando quelle parole di puro disprezzo. «Siete riusciti non solo a farvi scoprire, ma anche a scatenare le ire dei Borgia.» Il suo sguardo si soffermò su Chiara. «Spero che vi trovino, a questo punto. Saprebbero punirvi meglio di me e io mi libererei di pesi morti.»
Nessuno si azzardò a fiatare.
Erano tutti talmente intimoriti che nemmeno Chiara osò lasciarsi sfuggire un singhiozzo, nonostante i suoi occhi scuri fossero rossi e pieni di lacrime.
«Ezio sarà costretto a letto per almeno una settimana», continuò Machiavelli, portandosi una mano alla fronte per massaggiarsi le tempie. «E spero vivamente che ognuno di voi si senta sollevato dalla cosa. Se quel fendente non fosse arrivato a lui, di certo a quest’ora avremmo avuto un Assassino in meno. Sempre che voi possiate essere chiamati tali.» Prese un grosso respiro, ritornando composto con le braccia dietro la schiena. «Per tutto il tempo in cui il vostro Mentore sarà a riposo, consideratevi sollevati da ogni incarico. Le acque devono calmarsi e le guardie devono dimenticare i volti di chi di voi è stato così stupido da affrontarle senza ucciderle. Non voglio vedere nessuno, e sottolineo, nessuno azzardarsi a lasciare il Covo sotto mia specifica approvazione. Nessun allenamento fuori dai confini dell’Isola, nessuna serata in quella lurida topaia dove Corella vi ha insegnato ad ubriacarvi e soprattutto nessuna stupida sfida che vi faccia sembrare gli inetti debosciati che siete. Sono stato chiaro?»
Ci furono solo mormorii di assenso.
Maria sospirò a lungo, prima di prendere la parola per un istante.
«Chiederò a Bartolomeo d’Alviano di insegnarvi qualcosa con la spada, così da non rendere del tutto futili questi giorni di fermo obbligato. Magari lui e Volpe riusciranno a farvi entrare qualcosa in testa.»
«Mi sembra un’idea saggia», ne convenne il consigliere, prima di riprendere parola. «Ora, prima di spedirvi a calci a letto senza desinare – cosa che non vi siete meritati – dobbiamo affrontare una questione che troppo a lungo si è rimandata. Qui, fra noi, vi è una spia.» L’assenza di reazione parve indispettirlo ulteriormente. «Ma voi, ovviamente, lo sapete già!»
Spallaci scoppiò a ridere.
«E ve ne accorgete adesso?», gridò, puntando il dito contro Corella. «Mai notato che lui e il sicario di quel cane di Borgia portano lo stesso cognome? No? Forse non siamo noi gli idioti, qui.»
Il forlivese scattò in piedi, alzando le braccia in segno di resa.
«Non ho niente a che fare con le scelte di mio fratello», si difese, pacato. «Io e Michelotto ci incontriamo una volta al mese e ceniamo assieme, è vero, ma mai per i fini di cui mi accusate. Ci guardiamo bene dal nominare i nostri Ordini.» Si voltò verso Machiavelli, tirando su col naso. «Michelotto non è santo, ma resta mio fratello. E non c’è fazione che possa farmi dimenticare questo fatto.»
Maria parve appoggiarlo. Annuì vistosamente, guardando con la cosa dell’occhio Machiavelli, prima di prendere parola.
«Credo che le parole di Corella siano giuste e piene di sentimento; non possiamo di certo impedirgli di vedere la sua famiglia.»
«Non possiamo però escludere che qualche informazione trapeli, da questi incontri», disse Machiavelli, mentre Spallaci sorrideva vittorioso. «Che sia per stupidità o intenzione, dobbiamo arginare la cosa. Spedire Corella a Venezia forse è una soluzione …»
Alessandro impallidì, ma ci pensò Cristiano appoggiato da Bengiamino a far cambiare idea a Machiavelli.
«Non possiamo rinunciare a nessuno, ormai siamo rimasti in dieci. Se parte anche lui, sarà una grossa perdita.»
«Senza contare che non va punito chi stasera ha eseguito gli ordini alla lettera.»
Corella sorrise, grato, mentre Spallaci si sedeva scontento accanto a Paola.
Fu lei a prendere la parola.
«Come fate a dire che sia uno di noi e non qualcuno che è partito per la Serenissima?»
«Cesare ha fatto i nomi di alcuni di voi», rispose prontamente Machiavelli. «Perciò, il traditore è ancora tra noi. In questa stanza, ad essere esatti.»
Una serie di sguardi diffidenti prese a girare tra i ragazzi.
Ormai, chiunque poteva dirsi nemico di chiunque.
Maria alzò gli occhi al cielo, muovendo un passo avanti.
«Quello che Niccolò sta cercando di dire», precisò, sospirando. «È che ora più che mai abbiamo bisogno di fare gioco di squadra. Non possiamo più permetterci di stare l’uno contro l’altro. Da questo comportamento immaturo, la spia trarrà soltanto vantaggi.»
«Resta il fatto che potrebbe essere chiunque», puntualizzò Laura, affranta. «Io, Bengiamino, persino Violante! Non abbiamo alibi per toglierci dalla lista dei sospetti.»
«Nessuno ha scusanti», la appoggiò la bolognese, incrociando le braccia sotto al seno. «Per tenere monitorati gli spostamenti, dovremmo sempre dire precisamente dove stiamo andando e perché. Si dovrebbe tenere un registro, con gli orari e il giorno, così da definire chi sa cosa e quando.»
«Sembra un buon piano», acconsentì Corella. «Ma chiunque può dire qualsiasi cosa e in mille differenti modi. Secondo me, noi non dovremmo sapere più nulla di nulla. Addestramenti e basta, non deve importarci di altro.»
«Io non voglio venir tagliato fuori», si infuriò Spallaci. «Non sono un maratoneta da far allenare; io sono un Assassino!»
«Chi poteva sollevare obiezioni se non tu, Augusto?», domandò affabile Cristiano, non cogliendo lo sguardo sospettoso di Bengiamino.
Spallaci fulminò il ferrare con lo sguardo.
«Insinui qualcosa, Principe?», rispose.
Machiavelli sospirò pesantemente.
«Basta così», sentenziò, alzando la voce quel poco che bastava per farsi udire sopra i toni accesi dei ragazzi. «Farete ciò che vi verrà detto e lo farete in silenzio. Nel caso non vi fosse ancora chiaro, un Assassino sa anche eseguire gli ordini senza mettere becco nelle decisioni di chi gli è superiore di grado.» Fece una breve pausa, voltando le spalle alla stanza per poi avvicinarsi alla porta. «E adesso tutti a dormire. Ragazze nella vostra camerata entro due minuti. E lo rendo chiaro fin da ora: se stanotte sentirò ruotare il pomello di una delle vostre porte, sarà mia premura darvi personalmente in pasto alle guardie dei Borgia.»
E detto questo se ne andò, lasciando dietro di sé una fila di borbottii incomprensibili.
Maria lo seguì subito dopo, premurandosi prima di lanciare uno sguardo infastidito a Bengiamino e Chiara, come a sottolineare la sua indisposizione verso di loro ancora una volta.
«Direi che è andata bene», commentò sarcasticamente Corella, ricevendo, come ricompensa, uno schiaffo sulla nuca da parte di Laura.
La milanese si alzò in piedi, seguendo con lo sguardo Paola e Chiara che uscivano a testa bassa dalla stanza.
«Poteva davvero andare peggio», si ritrovò ad asserire, prima di chinarsi per lasciare un bacio sulla fronte di suo fratello. «Riposa, anche se domani non abbiamo nulla da fare sarà meglio scendere a tirare un po’ con l’arco. Hai mancato Borgia.»
«Buonanotte», la salutò lui, non commentando.
Era lampante come quell’errore lo tormentasse più dello schiaffo di Maria.













Intitolò la sua prima raccolta “Sonetti per un cavaliere”, ispirandosi forse un po’ troppo al San Gimignano che aveva studiato presso il precetto.
Con la sua fuga, avvenuta solo una settimana prima, Marcello aveva guadagnato qualcosa di prezioso. Oltre a una ventina di frustate che l’avevo letteralmente piegato in due, il Conte di Ladispoli aveva provveduto a fornire alla torre una guardia più anziana, più armata ma decisamente meno incline al sopportare le lamentele del prigioniero.
A Marcello era bastato lagnarsi per un giorno o due ed ecco che aveva visto carta e calamaio sbucare dallo scrittoio sul corridoio.
Nella noia della sua reclusione, si era improvvisato poeta.
“Sonetti per un cavaliere” venne così scritto di getto in pochi giorni, quando la luce che filtrava dai lucernari era sufficiente per permettergli di rileggere il suo elaborato. Avrebbe di certo continuato la produzione anche di notte, quando l’insonnia lo costringeva a rannicchiarsi in un angolo del suo giaciglio, ma non disponeva né di candele né di lumi. Su quel punto, la guardia era stata irremovibile.
Così, di nuovo prigioniero ma ora dotato di vena artistica, Marcello Donà trascorreva le ore nel nulla più buio, camminando quei pochi passi che la sua stretta cella gli permetteva di fare e rigirandosi di continuo nel pagliericcio che gli era rimasto come letto.
Il Conte gli faceva visita sempre più di rado e, con ogni giorno che passava, si faceva sempre più irascibile. Parlottava con il suo secondo in comando e malediceva un colpo Cesare Borgia, un colpo la nobiltà romana, un colpo l’Assassino di non si era ben capito dove. Alla risposta di Francesco Donà alla richiesta di riscatto, comunque, non faceva mai menzione.
Ormai, Marcello cominciava seriamente a dubitare che sarebbe mai arrivata, la missiva che avrebbe concordato la sua liberazione.
Dopotutto a Venezia avevano fatto così tanto, per spedirlo a Roma, che di certo non si sarebbero scomodati per farlo tornare.
Non suo padre, quanto meno.
Sua madre avrebbe di certo mosso mari e monti per riabbracciarlo, ma non aveva modo di accedere alla corrispondenza ufficiale, perciò come poteva sapere?
Marcello aveva provato così tante volte a corrompere una guardia per fare da messo che ormai aveva perso le speranze.
E allora se ne stava lì, solo nel suo pagliericcio, a scrivere stupidi sonetti ispirati dagli spifferi gelidi della torre.
Mentre la voglia di riprendere in mano la sua vita cominciava ad abbandonarlo lentamente, Marcello aspettava una giornata abbastanza fredda per ammalarsi, un rancio avvelenato o una guardia sufficientemente violenta da picchiarlo a morte al primo insulto.
Piangeva nel sonno, di giorno non si azzardava a fare altro che restare disteso a terra, attaccando – senza troppo successo – bottone con la nuova guardia.
Arrivò presto al punto in cui l’unica convinzione che gli era rimasta era che c’era un solo modo per abbandonare quelle celle: in una cassa da morto. Poco importava, come ci sarebbe entrato; l’unica via per lasciarsi alle spalle la torre era quella verso il Creatore.
Realizzarlo lo distrusse, lo lasciò senza la speranza che fino a quel momento l’aveva fatto tirare avanti.
All’improvviso, non riuscì più tenere il conto dei giorni che passavano.
Era tutto un estenuante susseguirsi di passi, di lamentele gridate dal corridoio, di ranci improponibili e della guardia che glieli ficcava in bocca a forza per non farlo morire di fame.
Raggiunse il limite durante una notte di tempesta, quando l’acqua che gocciolava dal soffitto gli colpì per l’ennesima volta la fronte lasciata scoperta dai riccioli castani.
Quasi senza rendersene conto, perse completamente il controllo.
Sporco, fradicio e infreddolito, buttò quelle poche energie che gli erano rimaste in un pianto disperato che scoppiò all’improvviso, come un temporale in una giornata di sole, e che obbligò la guardia ad avvicinarsi alla cella per dare quantomeno un’occhiata.
Sarebbe stato così facile, strattonarla sulle sbarre e tramortirla con un colpo ben assestato, ma Marcello non aveva più la forza neanche per pensare a un tentativo di fuga.
Tutto ciò che voleva era mettere fine a quell’esistenza che da triste era diventata a dir poco insostenibile.
«Voglio andare a casa!», gridò, quando il gendarme si piegò sulle ginocchia con fare preoccupato. «Uccidetemi adesso e date il mio cadavere ai cani! Non ce la faccio più!»
L’uomo dall’altra parte delle sbarre sospirò. Mentre Marcello piangeva, sfilò dalla cinta un coltellaccio da macellaio dall’aria usurata e lo depose tra il fieno della cella.
«Questo apparteneva a un  ragazzino in vena di scherzi», spiegò, atono. Nonostante tutto, però, Marcello udì nella sua voce un po’ di commiserazione. «Nessuno finirà dei guai, se dovessero trovartelo addosso.»
Lo stivale della guardia spinse il coltello sotto le sbarre, lasciandolo dinanzi ai piedi di Marcello.
Lui abbassò lo sguardo, sconfortato.
«Credevo sareste stato voi, ad uccidermi», commentò.
La guardia rise.
«Non mi azzarderei mai a far fuori uno dei prigionieri Cimaglia!», rispose a voce alta. «Quando gli salterà in testa di toglierti di mezzo, proverà il più immenso dei godimenti, nel farlo. Di certo non voglio essere la causa del suo dispiacere quando ti troverà morto!»
Marcello corrugò la fronte, ma non controbatté.
«Ah, e poi», continuò l’uomo sul corridoio. «Se fossi così gentile da aspettare il cambio della guardia, te ne sarei davvero grato. Un favore per averti procurato il coltello.» E gli sorrise con disinvoltura, allontanandosi rapidamente per tornare alla scrivania.
Marcello sospirò mestamente, raccogliendo l’arma tra le mani.
Al contatto con la lama gelida, un brivido gli percorse le braccia e gli fu chiaro come il sole il fatto che non sarebbe mai riuscito a suicidarsi.
Forse era pronto per accettare la morte, ma conficcarsi un coltello nel petto era tutto un altro paio di maniche.
Abbattuto, buttò l’arma a terra, lasciandosi scivolare sul pavimento mentre gli occhi gli si riempivano delle lacrime che l’arrivo della guardia aveva scacciato.
Non se ne sarebbe mai andato.
Affondando il viso nella paglia lercia della cella, non poté far altro che abbandonarsi al pianto.






   
 
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