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Autore: MadAka    27/04/2014    1 recensioni
"Chiamano questo posto il Banco dei Sogni, perché è proprio questo che fa, compra sogni.
Le persone qui vendono ciò che hanno di più evanescente, ma anche di più profondo. Racchiudono la loro speranza all’ interno della loro firma, la scrivono su un foglio bianco candido, lo ripongono in una busta e vengono fin qui per farsela valutare, farsi valutare il prezzo della propria anima, come diceva mio padre."
Genere: Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sirens are screaming

But I can't hear a single sound.

And I'm feeling uneasy,

And I wait, and I wait for a change to come around.

 

 

 

Nell’ultimo periodo quasi nulla è cambiato, la città è rimasta grigia e silenziosa come lo è da sempre, il mio tempo continua a dividersi fra il lavoro, unico mezzo per campare, e gli incontri a casa di Vinny, ma dopo le novità delle settimane scorse la mia esistenza è entrata in una nuova e costante routine, anche se pur sempre più appassionante della precedente. In totale onestà non so cosa mi ero aspettato al termine del primo incontro con Vincent, non so cosa mi ero illuso di trovare; è inevitabile che un cambiamento ne generi un altro e poi un altro di conseguenza, ma dobbiamo essere noi a continuare questo processo, non possiamo attendere che tutto ci si stravolga intorno rendendo la nostra vita la più bella da vivere. L’unica certezza che ho è che io non ho fatto niente per assecondare il piccolo cambiamento che ha tentato timidamente di farsi strada intorno a me, non l’ho assolutamente spronato a crescere, a diventare qualcosa di così incredibile da portarmi la felicità.

Per tutto il mese sono rimasto accanto a Mark, l’ho fatto in silenzio, dandogli il mio sostegno quando ancora non si azzardava a sentire il suono della sua voce; ho parlato con lui quando ha cominciato a chiedermi le prime e banali cose, gli ho risposto come ho sempre fatto per ricordargli che fra di noi nulla è cambiato e ho riacquistato fiducia quando l’ho visto sorridere e passarsi il dorso della mano sulle labbra, in quel gesto che fa da quando è un ragazzino, facendomi capire che, sotto, lui è rimasto lo stesso. Ultimamente le cose per lui stanno lentamente tornando quelle di un tempo, più o meno, ma è ancora troppo presto per dire che tutto si è sistemato: il passato ci mette un solo secondo a riaffiorare e tantissimo tempo a tornare nel più profondo della nostra anima e la sofferenza che ci provoca in quel frangente è quasi più intensa di quella provata la prima volta. È per questo che prima di tornare a concentrarmi su di me, sulla mia vita, sulle mie paure, voglio finire di aiutare il mio migliore amico, vorrei davvero che Mark tornasse quello di sempre, perché se non dovesse succedere so già che ne soffrirei.

Le quattrodici sono passate da pochi minuti e appena esco dal palazzo in cui lavoro ad attendermi fuori, come succede ormai da due settimane, c’è Mark appoggiato al consueto palo e intento a fumare l’abituale sigaretta, l’unica che si concede in un giorno. Mi saluta con un cenno e mi si affianca mentre ci avviamo verso casa di Vinny.

È tutto così diverso rispetto al giorno in cui lo portai là la prima volta; quel giorno mi camminava dietro, distratto e silenzioso, ora, invece, anche se continua a non parlare molto, mi sta accanto e si osserva intorno, osserva la città che lo circonda, anche se è la cosa più brutta che possa esserci da ammirare.

«Com’è andata?» mi chiede all’improvviso, voltandosi verso di me senza rallentare il passo.

Alzo le spalle, pensando alla mia giornata lavorativa. In quell’ufficio mi sento un estraneo, eseguo gli incarichi, annuisco agli ordini, rispetto le regole, ma non faccio altro. Non mi intrattengo con i miei colleghi, non socializzo perché loro non me lo permettono, a malapena mi rivolgono la parola. Mi chiedo sempre dove sia la cosa sbagliata in me, o meglio, me lo chiedevo prima di incontrare Vincent, Jocelyn e Gabriel, ora quasi non mi importa saperlo.

«Le solite cose.» rispondo.

Annuisce con la testa, quel suo gesto semplice e sbrigativo che mi fa capire che non vuole sapere altro, perché sa già tutto.

Procediamo in silenzio per un po’, lui ha il tempo di finire la sigaretta e gettare il mozzicone lontano, riuscendo a vederlo un solo istante prima che la ruota di un’auto lo schiacci.

Un uomo ci viene incontro guardando in terra, è talmente assente che urta con la spalla il mio amico. In quel solo attimo riconosco il famigliare suono delle monete d’oro che tintinnano fra loro e, quando mi volto per osservarlo allontanarsi senza che proferisca alcuna parola, capisco dove è appena stato, capisco perché è così.

Alla mente mi torna il giorno in cui io ho corso il rischio di diventare come lui, il giorno in cui mi sono seduto in fila al Banco dei Sogni in attesa di essere svuotato.

Fortunatamente queste spiacevoli sensazioni vengono zittite da Mark:

«Tzè, stupidi pedoni.»

Scoppio a ridere praticamente subito. La sua frase, pronunciata con quel tono, è l’esempio migliore che possa cercare per convincermi che il mio amico è vicino a tornare quello che ho sempre conosciuto.

Mi erano mancate le sue uscite, quelle frasi quasi mormorate fra sé, quei pensieri pronunciati ad alta voce che non sono altro che una critica su ciò che lo circonda.

«Che c’è?» domanda guardandomi, abbastanza sorpreso.

«Niente, solo mi erano mancate queste cose.» rispondo, riprendendo il controllo di me.

Lui torna a guardare avanti e fra di noi scende nuovamente il silenzio. Tuttavia, stavolta, ho davvero la certezza che le cose si sistemeranno a breve e non riesco a trattenere un sorriso.

Arrivati al civico sette Mark mi precede lungo le scale, appena varca la soglia dell’appartamento le voci lo invadono con un coro di saluti, che si sposta su di me appena compaio dietro di lui nella stanza. Si ferma subito a fare conversazione con qualcuno, più cha altro a raccontare loro della sua ricerca di un nuovo lavoro, dopo essere stato licenziato dal precedente poiché non usciva più di casa. Mentre l’osservo, felice nel vedere che, giorno dopo giorno, lui continua a fare conoscenza con gli altri sempre di più, quasi provo un leggero lampo d’invidia. Mark è sempre stato più bravo di me nel trovare nuovi amici, nel conoscere nuove persone; ha l’incredibile capacità di essere simpatico a chiunque e di riuscire a dire la cosa giusta al momento giusto ogni volta.

«Ehi Steve.»

L’ormai famigliare Gabriel mi risveglia dai miei pensieri, lo fa suonando quell’accordo che dice essere il mio.

Mi volto e lo saluto con un cenno:

«Come va?» chiedo, mentre mi accomodo sulla sedia sempre vuota ormai riservata a me.

Alza le spalle e sorride, riprendendo a guardarsi intorno e soffermando maggiormente gli occhi su Mark.

«Allora, come sta?» omette il soggetto ma so perfettamente di chi parla.

«Meglio.»

«Ne sono contento. Vuoi dire che il mio presentimento era giusto?»

Sorrido, fra me. Il mese scorso non avrei pensato di dover ammettere che, sì, aveva ragione, ma ora non posso far altro che annuire.

Lo sento fare un veloce verso di approvazione per poi tornare a dedicarsi alla sua chitarra, cominciando a suonare qualcosa di nuovo sulle sue sei corde.

Io riprendo ad osservare il mio amico, quasi difronte a me. Parla con Jocelyn e con un’altra ragazza, anche con le donne ci ha sempre saputo fare meglio del sottoscritto, il fatto che stia ricominciando a rapportarsi con il sesso opposto credo sia positivo.

«Sembri un innamorato.» mi risveglia nuovamente il giovane dai miei pensieri.

«No è che… stavo solo pensando… Senti, ma secondo te è positivo che abbia ripreso a parlare con delle donne?» domando, in cerca di una conferma.

Lui rimane sorpreso un secondo prima di rispondermi:

«Oh, ma tu parli di Mark. Io credevo stessi guardando Jocelyn.»

Ora sono io a rimanere sorpreso, alzo gli occhi e li punto sulla donna, cominciando seriamente a chiedermi chi, fra lei e il mio amico, stessi osservando poco prima. Qualcuno suona il campanello e lei si avvia immediatamente verso l’ingresso, seguita dal mio sguardo. La vedo incupirsi non appena apre la porta e fa cenno di entrare a chiunque si sia presentato.

Entrano due persone, un ragazzo seguito da una ragazza, probabilmente poco più giovane di lui; camminano rapidamente seguendo Jocelyn verso l’ingresso della stanza di Vinny. Forse, quella sera, anche io e Mark siamo apparsi così alle persone che già erano presenti qui, forse abbiamo scatenato negli altri le stesse spiacevoli sensazioni che quei due giovani stanno scatenando in me ora.

Fermi ad aspettare che Jocelyn li lasci incontrare Vinny i due si guardano intorno e a Gabriel sfugge un leggero accordo che porta la ragazza a voltarsi verso di noi. Come ormai ho imparato a fare riesco a leggere l’ultima parte della sua storia in un solo attimo, riesco a vedere, nei suoi occhi spenti, l’ultimo folle gesto compiuto che l’ha portata fin qui. Lei distoglie immediatamente lo sguardo dal mio e mi sembra quasi di vederla arrossire: chissà se ci si ricorda del significato delle emozioni quando si esce dal Banco dei Sogni.

Entrano nella stanza e si richiudono la porta alle spalle, Gabriel riprende a suonare dopo un sospiro e io ricomincio a guardarmi intorno, notando, solo ora, che il posto è più affollato di quanto ricordassi.

«Sbaglio e c’è più gente del solito?» chiedo rivolto al ragazzo al mio fianco.

Lui smette di suonare e si guarda in giro:

«In che senso?»

«Nel senso vero e proprio del termine. C’è più gente di quanta ricordassi.»

Lo penso davvero e penso davvero di avere ragione. Ogni posto a sedere è occupato, i gruppi di persone che parlano sono sempre più vicini e numerosi, anche quelli che stanno in piedi a conversare sono di più.

Il giovane alza le spalle, rassegnato, ricominciando ancora una volta l’ennesima e differente canzone:

«Che ci vuoi fare? Ultimamente il costo della vita è aumentato ancora, temo che molti dei nuovi che dici di vedere siano solo persone che hanno dovuto trovare il modo di ottenere oro per continuare a vivere.»

Il tono con cui pronuncia quelle parole è una pugnalata al cuore, la realtà è una pugnalata al cuore.

«Dici che è per questo?» domando, continuando ad osservare i volti nuovi che non avevo mai notato prima.

«Sicuramente. Scommetto che alcuni di loro sono stati portati qui dai propri amici, o dai propri famigliari, come hai fatto tu con Mark. Ma penso di avere ragione, scommetto che alcuni di loro non avevano altra scelta.»

La sua chitarra si zittisce nuovamente sotto ordine del suo padrone, Gabriel si volta verso di me, in attesa di una mia reazione qualunque.

«Se tu avessi ragione, però, non sarebbe giusto. Insomma, perché una persona dovrebbe vendere il proprio sogno anche se non volesse farlo?»

Lui sospira: «Non lo so.» mormora e non lo so neanche io.

«Però.» Riprende a parlare quasi subito: «Se proprio vogliamo trovare una minuscola nota positiva in tutto questo, è aumentato anche il numero delle persone che viene qui in cerca di aiuto, no?»

Tento invano di sorridere, ma finisco per scuotere la testa:

«Per ogni persona che entra qui dentro almeno dieci rimangono là fuori a scomparire, ad ingrigire. Vinny non potrà mai risolvere la situazione, purtroppo. Sono sicuro che lo sa.»

«Sì che lo sa, ma non si arrende.»

«E ha tutta la mia stima per questo. Io gli devo molto.» concludo puntando lo sguardo su Mark.

«, Steve, comunque sia un pochino lo stai aiutando. Insomma, parli con le persone che ci sono qui, ascolti le loro storie, tenti di farli sentire meglio.»

«Forse potrei fare anche di più…»

Una piccola e stramba idea si affaccia all’improvviso nella mia mente, un lumino piccolo che, secondo dopo secondo, mi prega di lasciarlo diventare una fiamma.

«Di più tipo cosa?» mi chiede Gabriel, il tono di chi non sa cosa aspettarsi.

«Tu hai sempre detto che la musica serve ad unire le persone, giusto? Che è il linguaggio universale per risvegliare qualsiasi sentimento.»

«Sì, lo dico spesso. E allora?»

«E se noi due andassimo a suonare davanti al Banco dei Sogni

Inarca un sopracciglio, confuso.

«Dubito che quelli del Banco ce lo permetteranno.»

«Perché non dovrebbero? Suoniamo davanti, non dentro. Fuori è terreno pubblico e siamo liberi di fare quello che vogliamo.»

Gabriel sembra ancora profondamente confuso dalla mia trovata, tuttavia sono certo che l’idea di portare la sua bellissima musica in giro con la speranza di aiutare qualcuno, è una tentazione a cui non riuscirebbe mai a resistere.

«Ok, fin qui ti seguo. Ma a cosa servirebbe? Insomma, io non credo che la gente rinuncerebbe a vendere il proprio sogno solo perché davanti all’ingresso di quel posto ci sono due deficienti che suonano.»

«Sì, hai sicuramente ragione. Ma forse, con la tua musica, potremmo riuscire a ricordare a qualcuno, qualcuno che non vorrebbe fare ciò che sta per fare, che intorno a noi c’è anche tanta bellezza. Credimi, Gabriel, è stata la bellezza del mio iris ad impedirmi di sprofondare nel baratro che io stesso mi sono scavato, ed ora eccomi qui.»

Il giovane rimane a fissarmi, serio, sempre con quel suo sopracciglio inarcato.

Infine il suo volto si distende in un sorriso:

«Tu sei pazzo. Ci sto. Non credo servirà a qualcosa ma, nel caso, sentirò di aver fatto del bene, una volta tanto.»

Gli sorrido e lui fa lo stesso, ricominciando a far scorrere le sue dita lungo le corde della chitarra, intonando nuove canzoni, riempiendo di musica la stanza sovraccarica di voci.

Rimango insieme a lui almeno un altro paio di ore, decidiamo di mettere in atto la mia idea il giorno successivo e poi lui mi saluta per andare a trovare una persona che non vede da tempo. Io non so chi sia, non me l’ha detto e io non gliel’ho chiesto, ma gli faccio un cenno quando si alza e afferra la chitarra, lanciandomi uno sbrigativo:

«A domani.»

Passa pochissimo tempo dopo l’uscita di Gabriel perché si riapra finalmente la porta della stanza di Vinny, dentro la quale i due giovani comparsi nel pomeriggio erano ancora chiusi.

La ragazza è la prima ad uscire, osserva timidamente le persone che la circondano e rimane in attesa. Il suo amico, o forse il suo ragazzo, o magari suo fratello, chi può dirlo, le posa una mano sulla schiena e le sussurra qualcosa all’orecchio, puntando poi un dito nel vuoto accanto a me su cui, poco prima, sedeva Gabriel, infine torna a parlare con Vincent, comparso sulla soglia dopo di loro.

Lei si avvicina, titubante, mi pare alquanto spaventata e non può che farmi tenerezza, indica la sedia che ho accanto e con un filo di voce chiede:

«Posso?»

«Certo, siediti pure.» le rispondo, sorridendole.

Lei si sistema e comincia a tormentarsi le mani, osservando esclusivamente ciò che fa.

Apro bocca per parlare, per cercare di fare conversazione con lei, tentare di aiutarla, ma mi precede:

«Non… non c’è più quel ragazzo che suonava la chitarra?» chiede.

«No, è dovuto andare via prima del solito oggi.»

«Oh, peccato. È… è bravo.»

La guardo un momento mentre lei non smette di maltrattare le sue mani. Inevitabilmente comincio a domandarmi cosa l’abbia spinta ad andare al Banco dei Sogni, cosa l’abbia portata a privarsi della sua parte più profonda; mi chiedo che forza l’abbia spronata o, peggio, quale insicurezza l’abbia guidata. Non sembra una persona sola, forse solo incerta e, ora, sicuramente confusa. Ma ha cercato la bellezza, ha cercato la chitarra di Gabriel, le sue note, ha cercato qualcosa che potesse in un qualche modo ricordarle delle sensazioni che sa di aver vissuto e che, forse, erano legate al suo sogno.

La mia idea non è sbagliata, in fin dei conti, dobbiamo provare a portare la musica di Gabriel fuori da qui, provare a far in modo che essa aiuti qualcun altro oltre al ragazzo, a me e chi ci sta vicino.

Forse possiamo riuscirci davvero.

«Come ti chiami?»

La ragazza sussulta leggermente al suono della mia voce e si volta verso di me, le sue gote si fanno più rosee mentre le sorrido.

«Megan.» risponde, senza aggiungere altro.

«Io sono Steve.»

Le tendo la mano e lei la stringe dopo averla osservata attentamente, come per accertarsi che io non abbia nessuna cattiva intenzione. Infine si rilassa, mi sorride e mi permette di ascoltare la sua storia.

  
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