Sirens are screaming
But I can't
hear a single sound.
And I'm feeling uneasy,
And I wait, and I wait for a change to come around.
Nell’ultimo
periodo quasi nulla è cambiato, la città è rimasta grigia e silenziosa come lo
è da sempre, il mio tempo continua a dividersi fra il lavoro, unico mezzo per
campare, e gli incontri a casa di Vinny, ma dopo le novità delle settimane
scorse la mia esistenza è entrata in una nuova e costante routine, anche se pur
sempre più appassionante della precedente. In totale onestà non so cosa mi ero
aspettato al termine del primo incontro con Vincent, non so cosa mi ero illuso
di trovare; è inevitabile che un cambiamento ne generi un altro e poi un altro
di conseguenza, ma dobbiamo essere noi a continuare questo processo, non
possiamo attendere che tutto ci si stravolga intorno rendendo la nostra vita la
più bella da vivere. L’unica certezza che ho è che io non ho fatto niente per
assecondare il piccolo cambiamento che ha tentato timidamente di farsi strada intorno
a me, non l’ho assolutamente spronato a crescere, a diventare qualcosa di così
incredibile da portarmi la felicità.
Per
tutto il mese sono rimasto accanto a Mark, l’ho fatto in silenzio, dandogli il
mio sostegno quando ancora non si azzardava a sentire il suono della sua voce;
ho parlato con lui quando ha cominciato a chiedermi le prime e banali cose, gli
ho risposto come ho sempre fatto per ricordargli che fra di noi nulla è
cambiato e ho riacquistato fiducia quando l’ho visto sorridere e passarsi il
dorso della mano sulle labbra, in quel gesto che fa da quando è un ragazzino,
facendomi capire che, sotto, lui è rimasto lo stesso. Ultimamente le cose per lui
stanno lentamente tornando quelle di un tempo, più o meno, ma è ancora troppo
presto per dire che tutto si è sistemato: il passato ci mette un solo secondo a
riaffiorare e tantissimo tempo a tornare nel più profondo della nostra anima e
la sofferenza che ci provoca in quel frangente è quasi più intensa di quella
provata la prima volta. È per questo che prima di tornare a concentrarmi su di
me, sulla mia vita, sulle mie paure, voglio finire di aiutare il mio migliore
amico, vorrei davvero che Mark tornasse quello di sempre, perché se non dovesse
succedere so già che ne soffrirei.
Le
quattrodici sono passate da pochi minuti e appena esco dal palazzo in cui
lavoro ad attendermi fuori, come succede ormai da due settimane, c’è Mark
appoggiato al consueto palo e intento a fumare l’abituale sigaretta, l’unica
che si concede in un giorno. Mi saluta con un cenno e mi si affianca mentre ci
avviamo verso casa di Vinny.
È
tutto così diverso rispetto al giorno in cui lo portai là la prima volta; quel
giorno mi camminava dietro, distratto e silenzioso, ora, invece, anche se
continua a non parlare molto, mi sta accanto e si osserva intorno, osserva la
città che lo circonda, anche se è la cosa più brutta che possa esserci da
ammirare.
«Com’è
andata?» mi chiede all’improvviso, voltandosi verso di me senza rallentare il
passo.
Alzo
le spalle, pensando alla mia giornata lavorativa. In quell’ufficio mi sento un
estraneo, eseguo gli incarichi, annuisco agli ordini, rispetto le regole, ma
non faccio altro. Non mi intrattengo con i miei colleghi, non socializzo perché
loro non me lo permettono, a malapena mi rivolgono la parola. Mi chiedo sempre
dove sia la cosa sbagliata in me, o meglio, me lo chiedevo prima di incontrare
Vincent, Jocelyn e Gabriel, ora quasi non mi importa saperlo.
«Le
solite cose.» rispondo.
Annuisce
con la testa, quel suo gesto semplice e sbrigativo che mi fa capire che non
vuole sapere altro, perché sa già tutto.
Procediamo
in silenzio per un po’, lui ha il tempo di finire la sigaretta e gettare il
mozzicone lontano, riuscendo a vederlo un solo istante prima che la ruota di
un’auto lo schiacci.
Un
uomo ci viene incontro guardando in terra, è talmente assente che urta con la
spalla il mio amico. In quel solo attimo riconosco il famigliare suono delle
monete d’oro che tintinnano fra loro e, quando mi volto per osservarlo
allontanarsi senza che proferisca alcuna parola, capisco dove è appena stato, capisco perché è
così.
Alla
mente mi torna il giorno in cui io ho corso il rischio di diventare come lui,
il giorno in cui mi sono seduto in fila al Banco
dei Sogni in attesa di essere svuotato.
Fortunatamente
queste spiacevoli sensazioni vengono zittite da Mark:
«Tzè, stupidi
pedoni.»
Scoppio
a ridere praticamente subito. La sua frase, pronunciata con quel tono, è
l’esempio migliore che possa cercare per convincermi che il mio amico è vicino
a tornare quello che ho sempre conosciuto.
Mi
erano mancate le sue uscite, quelle frasi quasi mormorate fra sé, quei pensieri
pronunciati ad alta voce che non sono altro che una critica su ciò che lo
circonda.
«Che
c’è?» domanda guardandomi, abbastanza sorpreso.
«Niente,
solo mi erano mancate queste cose.» rispondo, riprendendo il controllo di me.
Lui
torna a guardare avanti e fra di noi scende nuovamente il silenzio. Tuttavia,
stavolta, ho davvero la certezza che le cose si sistemeranno a breve e non
riesco a trattenere un sorriso.
Arrivati
al civico sette Mark mi precede lungo le scale, appena varca la soglia
dell’appartamento le voci lo invadono con un coro di saluti, che si sposta su
di me appena compaio dietro di lui nella stanza. Si ferma subito a fare
conversazione con qualcuno, più cha altro a raccontare loro della sua ricerca
di un nuovo lavoro, dopo essere stato licenziato dal precedente poiché non
usciva più di casa. Mentre l’osservo, felice nel vedere che, giorno dopo
giorno, lui continua a fare conoscenza con gli altri sempre di più, quasi provo
un leggero lampo d’invidia. Mark è sempre stato più bravo di me nel trovare
nuovi amici, nel conoscere nuove persone; ha l’incredibile capacità di essere
simpatico a chiunque e di riuscire a dire la cosa giusta al momento giusto ogni
volta.
«Ehi Steve.»
L’ormai
famigliare Gabriel mi risveglia dai miei pensieri, lo fa suonando quell’accordo
che dice essere il mio.
Mi
volto e lo saluto con un cenno:
«Come
va?» chiedo, mentre mi accomodo sulla sedia sempre vuota ormai riservata a me.
Alza
le spalle e sorride, riprendendo a guardarsi intorno e soffermando maggiormente
gli occhi su Mark.
«Allora,
come sta?» omette il soggetto ma so perfettamente di chi parla.
«Meglio.»
«Ne
sono contento. Vuoi dire che il mio presentimento era giusto?»
Sorrido,
fra me. Il mese scorso non avrei pensato di dover ammettere che, sì, aveva
ragione, ma ora non posso far altro che annuire.
Lo
sento fare un veloce verso di approvazione per poi tornare a dedicarsi alla sua
chitarra, cominciando a suonare qualcosa di nuovo sulle sue sei corde.
Io
riprendo ad osservare il mio amico, quasi difronte a me. Parla con Jocelyn e
con un’altra ragazza, anche con le donne ci ha sempre saputo fare meglio del
sottoscritto, il fatto che stia ricominciando a rapportarsi con il sesso
opposto credo sia positivo.
«Sembri
un innamorato.» mi risveglia nuovamente il giovane dai miei pensieri.
«No
è che… stavo solo pensando… Senti, ma secondo te è positivo che abbia ripreso a
parlare con delle donne?» domando, in cerca di una conferma.
Lui
rimane sorpreso un secondo prima di rispondermi:
«Oh, ma tu parli di Mark. Io credevo
stessi guardando Jocelyn.»
Ora
sono io a rimanere sorpreso, alzo gli occhi e li punto sulla donna, cominciando
seriamente a chiedermi chi, fra lei e il mio amico, stessi osservando poco prima.
Qualcuno suona il campanello e lei si avvia immediatamente verso l’ingresso,
seguita dal mio sguardo. La vedo incupirsi non appena apre la porta e fa cenno
di entrare a chiunque si sia presentato.
Entrano
due persone, un ragazzo seguito da una ragazza, probabilmente poco più giovane
di lui; camminano rapidamente seguendo Jocelyn verso l’ingresso della stanza di
Vinny. Forse, quella sera, anche io e Mark siamo apparsi così alle persone che
già erano presenti qui, forse abbiamo scatenato negli altri le stesse
spiacevoli sensazioni che quei due giovani stanno scatenando in me ora.
Fermi
ad aspettare che Jocelyn li lasci incontrare Vinny i due si guardano intorno e
a Gabriel sfugge un leggero accordo che porta la ragazza a voltarsi verso di
noi. Come ormai ho imparato a fare riesco a leggere l’ultima parte della sua
storia in un solo attimo, riesco a vedere, nei suoi occhi spenti, l’ultimo
folle gesto compiuto che l’ha portata fin qui. Lei distoglie immediatamente lo
sguardo dal mio e mi sembra quasi di vederla arrossire: chissà se ci si ricorda
del significato delle emozioni quando si esce dal Banco dei Sogni.
Entrano
nella stanza e si richiudono la porta alle spalle, Gabriel riprende a suonare
dopo un sospiro e io ricomincio a guardarmi intorno, notando, solo ora, che il
posto è più affollato di quanto ricordassi.
«Sbaglio
e c’è più gente del solito?» chiedo rivolto al ragazzo al mio fianco.
Lui
smette di suonare e si guarda in giro:
«In
che senso?»
«Nel
senso vero e proprio del termine. C’è più gente di quanta ricordassi.»
Lo
penso davvero e penso davvero di avere ragione. Ogni posto a sedere è occupato,
i gruppi di persone che parlano sono sempre più vicini e numerosi, anche quelli
che stanno in piedi a conversare sono di più.
Il
giovane alza le spalle, rassegnato, ricominciando ancora una volta l’ennesima e
differente canzone:
«Che
ci vuoi fare? Ultimamente il costo della vita è aumentato ancora, temo che
molti dei nuovi che dici di vedere siano solo persone che hanno dovuto trovare
il modo di ottenere oro per continuare a vivere.»
Il
tono con cui pronuncia quelle parole è una pugnalata al cuore, la realtà è una
pugnalata al cuore.
«Dici
che è per questo?» domando, continuando ad osservare i volti nuovi che non
avevo mai notato prima.
«Sicuramente.
Scommetto che alcuni di loro sono stati portati qui dai propri amici, o dai
propri famigliari, come hai fatto tu con Mark. Ma penso di avere ragione,
scommetto che alcuni di loro non avevano altra scelta.»
La
sua chitarra si zittisce nuovamente sotto ordine del suo padrone, Gabriel si
volta verso di me, in attesa di una mia reazione qualunque.
«Se
tu avessi ragione, però, non sarebbe giusto. Insomma, perché una persona
dovrebbe vendere il proprio sogno anche se non volesse farlo?»
Lui
sospira: «Non lo so.» mormora e non lo so neanche io.
«Però.»
Riprende a parlare quasi subito: «Se proprio vogliamo trovare una minuscola
nota positiva in tutto questo, è aumentato anche il numero delle persone che viene
qui in cerca di aiuto, no?»
Tento
invano di sorridere, ma finisco per scuotere la testa:
«Per
ogni persona che entra qui dentro almeno dieci rimangono là fuori a scomparire,
ad ingrigire. Vinny non potrà mai risolvere la situazione, purtroppo. Sono
sicuro che lo sa.»
«Sì
che lo sa, ma non si arrende.»
«E
ha tutta la mia stima per questo. Io gli devo molto.» concludo puntando lo
sguardo su Mark.
«Bè, Steve, comunque sia un pochino lo
stai aiutando. Insomma, parli con le persone che ci sono qui, ascolti le loro
storie, tenti di farli sentire meglio.»
«Forse
potrei fare anche di più…»
Una
piccola e stramba idea si affaccia all’improvviso nella mia mente, un lumino piccolo
che, secondo dopo secondo, mi prega di lasciarlo diventare una fiamma.
«Di
più tipo cosa?» mi chiede Gabriel, il tono di chi non sa cosa aspettarsi.
«Tu
hai sempre detto che la musica serve ad unire le persone, giusto? Che è il
linguaggio universale per risvegliare qualsiasi sentimento.»
«Sì,
lo dico spesso. E allora?»
«E
se noi due andassimo a suonare davanti al Banco
dei Sogni?»
Inarca
un sopracciglio, confuso.
«Dubito
che quelli del Banco ce lo
permetteranno.»
«Perché
non dovrebbero? Suoniamo davanti, non
dentro. Fuori è terreno pubblico e siamo liberi di fare quello che vogliamo.»
Gabriel
sembra ancora profondamente confuso dalla mia trovata, tuttavia sono certo che l’idea
di portare la sua bellissima musica in giro con la speranza di aiutare qualcuno,
è una tentazione a cui non riuscirebbe mai a resistere.
«Ok,
fin qui ti seguo. Ma a cosa servirebbe? Insomma, io non credo che la gente
rinuncerebbe a vendere il proprio sogno solo perché davanti all’ingresso di
quel posto ci sono due deficienti che suonano.»
«Sì,
hai sicuramente ragione. Ma forse, con la tua musica, potremmo riuscire a
ricordare a qualcuno, qualcuno che non vorrebbe fare ciò che sta per fare, che
intorno a noi c’è anche tanta bellezza. Credimi, Gabriel, è stata la bellezza
del mio iris ad impedirmi di sprofondare nel baratro che io stesso mi sono
scavato, ed ora eccomi qui.»
Il
giovane rimane a fissarmi, serio, sempre con quel suo sopracciglio inarcato.
Infine
il suo volto si distende in un sorriso:
«Tu
sei pazzo. Ci sto. Non credo servirà a qualcosa ma, nel caso, sentirò di aver
fatto del bene, una volta tanto.»
Gli
sorrido e lui fa lo stesso, ricominciando a far scorrere le sue dita lungo le
corde della chitarra, intonando nuove canzoni, riempiendo di musica la stanza
sovraccarica di voci.
Rimango
insieme a lui almeno un altro paio di ore, decidiamo di mettere in atto la mia
idea il giorno successivo e poi lui mi saluta per andare a trovare una persona
che non vede da tempo. Io non so chi sia, non me l’ha detto e io non gliel’ho
chiesto, ma gli faccio un cenno quando si alza e afferra la chitarra,
lanciandomi uno sbrigativo:
«A
domani.»
Passa
pochissimo tempo dopo l’uscita di Gabriel perché si riapra finalmente la porta
della stanza di Vinny, dentro la quale i due giovani comparsi nel pomeriggio
erano ancora chiusi.
La
ragazza è la prima ad uscire, osserva timidamente le persone che la circondano
e rimane in attesa. Il suo amico, o forse il suo ragazzo, o magari suo
fratello, chi può dirlo, le posa una mano sulla schiena e le sussurra qualcosa
all’orecchio, puntando poi un dito nel vuoto accanto a me su cui, poco prima,
sedeva Gabriel, infine torna a parlare con Vincent, comparso sulla soglia dopo
di loro.
Lei
si avvicina, titubante, mi pare alquanto spaventata e non può che farmi tenerezza,
indica la sedia che ho accanto e con un filo di voce chiede:
«Posso?»
«Certo,
siediti pure.» le rispondo, sorridendole.
Lei
si sistema e comincia a tormentarsi le mani, osservando esclusivamente ciò che
fa.
Apro
bocca per parlare, per cercare di fare conversazione con lei, tentare di
aiutarla, ma mi precede:
«Non…
non c’è più quel ragazzo che suonava la chitarra?» chiede.
«No,
è dovuto andare via prima del solito oggi.»
«Oh, peccato. È… è bravo.»
La
guardo un momento mentre lei non smette di maltrattare le sue mani.
Inevitabilmente comincio a domandarmi cosa l’abbia spinta ad andare al Banco dei Sogni, cosa l’abbia portata a
privarsi della sua parte più profonda; mi chiedo che forza l’abbia spronata o,
peggio, quale insicurezza l’abbia guidata. Non sembra una persona sola, forse
solo incerta e, ora, sicuramente confusa. Ma ha cercato la bellezza, ha cercato
la chitarra di Gabriel, le sue note, ha cercato qualcosa che potesse in un
qualche modo ricordarle delle sensazioni che sa di aver vissuto e che, forse,
erano legate al suo sogno.
La
mia idea non è sbagliata, in fin dei conti, dobbiamo provare a portare la
musica di Gabriel fuori da qui, provare a far in modo che essa aiuti qualcun
altro oltre al ragazzo, a me e chi ci sta vicino.
Forse
possiamo riuscirci davvero.
«Come
ti chiami?»
La
ragazza sussulta leggermente al suono della mia voce e si volta verso di me, le
sue gote si fanno più rosee mentre le sorrido.
«Megan.»
risponde, senza aggiungere altro.
«Io
sono Steve.»
Le
tendo la mano e lei la stringe dopo averla osservata attentamente, come per
accertarsi che io non abbia nessuna cattiva intenzione. Infine si rilassa, mi
sorride e mi permette di ascoltare la sua storia.