Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Rota    28/04/2014    3 recensioni
Bertholt ha una nuova luce negli occhi quando sul suo palmo vede, finalmente, un battente con una sola estremità ancora tonda. Lo stringe di nuovo, portandosi anche la mano al petto, con il cuore che riconosce dopo tanto tempo la sensazione dell'aspettativa.
Cammina verso l'altrove, allontanandosi da tutto quel buio.
Trova, sempre nel medesimo posto, quella grancassa abbandonata sul pavimento, distesa per lungo e con il ventre di pelle esposto. La alza e la sorregge, con un piede e un braccio, e i suoi polpastrelli la accarezzano abbastanza da sentire la perfezione di una superficie ancora liscia e levigata.
Non sa perché si trovi in quel luogo, abbandonata come tutti i combattenti troppo anziani come lui, né come mai sia stata lasciata proprio lì, a loro disposizione. Forse nessuno ha mai pensato che il silenzio della morte potesse essere spezzato dal suono grave e forte della più imponente delle percussioni, con quel suono che emerge dalle viscere di un interno troppo intimo e profondo per non scuotere animo, corpo e tutto l'universo.

[Seconda classificata al contest "Cerco un centro di gravità permanente", indetto da darllenwr/valutato da Reine_De Poiters]
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Berthold Huber, Reiner Braun, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti
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*Autore: Rota
*Titolo: The sun hasn't died
*Fandom: Shingeki no Kyojin
*Personaggi: Reiner Braun, Bertholt Hubert, Un po' tutti
*Genere: Introspettivo, Angst, Sentimentale
*Rating: Arancione
*Avvertimenti: AU, (sparuto) Shonen ai, Non per stomaci delicati, Death Character
*Prompt: Coltello – Forte perdita di sangue
*Credits: Lyrics del titolo e dei capitoli prese da “Radioactive”, de Imagine Dragons
*Note: Au che ha come base di idealizzazione e realizzazione il video e la canzone “Radioactive”. Questo per dire che c'è un ring, c'è un mostro che combatte e c'è un aguzzino – ovviamente condito con altri elementi che lo adattano a mie esigenze di trama, tra cui ovviamente un'introspezione psicologica notevole.
Questa volta ho preso in esame il personaggio di Reiner, e sono consapevole della difficoltà che la mia scelta implica. Lo reputo però un personaggio davvero interessante, che merita amore e attenzione. Molto del mio ragionamento verte sulla dicotomia guerriero/soldato che divide la stessa psicologia di lui. Qui, ovviamente, Reiner viene rappresentato come il soldato, che combatte per un'ordine. Bertholt, come sempre, sarà il legame tra lui e la sua parte del “guerriero”.
Spero di aver fatto comunque un buon lavoro, con questo ragazzone che mi piace tanto.
Niente, buona lettura (L)





Quarta classificata al contest "Angst a tutto spiano", indetto sul forum di EFP da AoKise 92 e valutato da AmahyP
Seconda classificata al contest "Cerco un centro di gravità permanente", indetto sul forum di EFP da darllenwr e valutato da Reine_De Poiters




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*Prologo*

I'm waking up to ash and dust

 

 

 

Bertholt tossisce, nel tentativo di liberare i polmoni almeno un poco della polvere che ha aderito alle loro pareti molli e fredde. Si sente stringere il petto e per qualche secondo la gola è ostruita da una spessa cappa che gli blocca il respiro all'inizio della trachea e lo rimanda indietro, a intossicare i bronchi già provati.
Solo una ferma volontà gli impedisce di cadere preda di una crisi di panico – sarebbe la terza in poche ore, e non vuole ritrovarsi ancora a terra a graffiare il pavimento con le proprie unghie sporche, rotte e nere. Ha già scavato abbastanza nel cemento freddo, strisciando i propri polpastrelli sui suoi grumi deformi e lasciando tracce irregolari del proprio sangue rosso senza ottenere soddisfazione alcuna, ma solo un dolore più acre, fatto di carne corrosa.
Fissa il vuoto e cerca un ordine, un qualsiasi ordine, nella propria testa, che possa dargli quel minimo appiglio a cui aggrapparsi, nei secondi necessari perché volontà e organismo ritrovino il giusto equilibrio.
Non funziona con la conta dei teschi che lo circondano, non funziona il ricordo dei loro nomi e delle loro voci. Non funziona neanche il rumore di un gocciolare lontano, persistente e regolare, di una qualche perdita che dal soffitto si riversa sul pavimento, come un metronomo che non ha mai abbandonato lo trascorrere dei suoi giorni, da quando la sua memoria lo ha posto in quel luogo.
Bertholt allunga il braccio, verso quell'aria lurida di marcio e di grigio stantio, e distende le dita della mano tra qualche spasmo e una vecchia ferita che si apre, tra l'indice e il medio e percorrendo tutto il dorso. La poca luce dell'atmosfera si raccoglie tutta nel lucido perlaceo delle cicatrici che percorrono la superficie della sue pelle: le guarda a partire dal polso, lungo una linea ben dritta che gli arriva ingrossandosi fino al gomito per poi diramarsi e salire, salire fino alla spalla, dove va a nascondersi sotto quel che rimane dei cenci di abiti che furono. Ricordarsi le ragioni di quella come delle cento altre cicatrici che gli deformano la linea dei muscoli sodi e compatti e delle dita forti – una alla volta, una dopo l'altra – gli impreziosisce lo sguardo di una sfumatura tipica della risolutezza e placa l'ansia del suo petto, che torna a gonfiarsi con regolarità e a catturare e rilasciare il poco ossigeno necessario per poter respirare. La cappa che gli blocca i polmoni si dissolve in un'altra, scura, nuvola di polvere, che viene sputata dal naso e dalle labbra come vomito inconsistente.
Lui chiude la mano a pugno e fa emergere dalla pelle i tendini tesi, che rivelano così di più i segni di lotte non tanto lontane e ne danno una consistenza ancora più deformata. Lì c'è la ragione della sua libertà morale, lì c'è la ragione della sua prigionia fisica.
Riesce, alla fine, nel proprio intento di rimettersi in piedi, e la posizione retta gli dona una visione più completa del luogo che ormai conosce bene e che lo circonda tutto.
Quelle segrete hanno assunto l'aspetto di un labirinto nei giorni in cui la pazzi ha privato della giusta ragione i suoi occhi, così che il buio, il disorientamento e l'abbandono più crudele partorissero immagini tutte mentali di mostri terrificanti e colpe materiali senza nome. Poi, quando si è ripreso, ha visto cadaveri dall'aspetto ben peggiore dei propri più cupi terrori, ma non ha saputo rinunciare alla propria ragionevolezza per qualche ora di sonno in più, nel freddo di una dimora che riusciva a offrire come unica coperta polvere smossa e sporco ormai putrido.
Bertholt fa qualche passo in avanti e il sangue torna a scorrergli in modo regolare nelle vene – pulsa qui e là, dove ferite fresche gli aprono un poco la pelle e lo sporcano di nero. Non vede chiaramente dove si sta dirigendo, ma ha il passo sicuro e nella memoria la giusta direzione da prendere.
Non guarda troppo le ossa allungate sul pavimento e i resti raggomitolati negli angoli di stracci e carne, non vuole donare altra pietà al proprio cuore né altra angoscia alla propria mente.
Si è ricordato, quella mattina, di un particolare a cui non ha mai dato attenzione prima, e ora che ha la coscienza al posto giusto vuole solo porre rimedio a un errore già troppo protratto nel tempo.
Arriva nell'ala sud delle segrete, lì dove un muro forma un angolo cieco che finisce contro una parete spessa, e aguzza la vista nel buio, alla ricerca del suo tesoro. Non senza un certo timore, allunga nell'ombra la mano, e prima che fantasmi e parassiti lo agguantino e lo trascinino con sé riesce a afferrare quanto desiderato e a ritirarsi in fretta.
Bertholt ha una nuova luce negli occhi quando sul suo palmo vede, finalmente, un battente con una sola estremità ancora tonda. Lo stringe di nuovo, portandosi anche la mano al petto, con il cuore che riconosce dopo tanto tempo la sensazione dell'aspettativa.
Cammina verso l'altrove, allontanandosi da tutto quel buio.
Trova, sempre nel medesimo posto, quella grancassa abbandonata sul pavimento, distesa per lungo e con il ventre di pelle esposto. La alza e la sorregge, con un piede e un braccio, e i suoi polpastrelli la accarezzano abbastanza da sentire la perfezione di una superficie ancora liscia e levigata.
Non sa perché si trovi in quel luogo, abbandonata come tutti i combattenti troppo anziani come lui, né come mai sia stata lasciata proprio lì, a loro disposizione. Forse nessuno ha mai pensato che il silenzio della morte potesse essere spezzato dal suono grave e forte della più imponente delle percussioni, con quel suono che emerge dalle viscere di un interno troppo intimo e profondo per non scuotere animo, corpo e tutto l'universo.
Lo tocca la prima volta con reverenza e timore, e si sente vibrare assieme alla pelle del tamburo. Il secondo colpo è più forte e deciso, e viene seguito dal suo urlo: c'è vita, ancora.
Il sole non è ancora morto.

   
 
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