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Autore: Eynieth    02/05/2014    1 recensioni
Il testo di una canzone, la vita di due persone... tutto si può intrecciare in una singola notte. In una singola strofa che descrive la storia di Kate.
[Canzone: "The A Team - Ed Sheeran ]
Genere: Malinconico, Romantico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno
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Mi guardo nuovamente allo specchio. Ormai è un'abitudine. Lo faccio ogni sera prima di uscire. Non che mi piaccia quello che vedo, non mi è mai piaciuto, e mai mi piacerà. Ma è come se fosse una sicurezza. Io, nonostante tutto quello che succede, sono lì, sempre la stessa. Sono l’ancora malferma della mia vita.
-Mi chiamo Kate.- dico allo specchio. L'immagine riflette la mia figura che parla, ma dalle sue labbra non esce alcun suono. Eppure, io ho bisogno solo di questo. Del mio nome. Dopo tutto, è l'unica certezza che ho. L’unica cosa che conosco. Il mio nome. Il resto mi è sconosciuto. Non conosco neanche la mia data di nascita. Così, potrei dire di avere all'incirca ventuno anni, ma non so quando sono nata. E per un po' potrebbe sembrare triste. Il momento in cui una persona nasce, è importante. Da segnare sul calendario. Ma io non conosco nessuno che mi farà mai gli auguri, o che mi rivolgerà un sorriso. Nessuno lo ha mai fatto. O se lo ha fatto, non lo ricordo. Avrò consumato così tanto quel ricordo,a forza di riviverlo, che non ne è rimasto niente, ma forse è meglio così. Così sono sola e conosco la strada che devo percorrere. Mi obbligo a percorrere quella strada. O almeno, vado avanti per inerzia. Vado avanti perchè non ho nient'altro. Vado avanti perchè se no, non saprei cosa fare. Guardando lo specchio, vedo la stessa immagine di ieri sera. E di quella prima, e di quella prima ancora. Il viso magro, gli zigomi alti, le labbra carnose, il piccolo naso dritto e gli occhi coperti da troppo trucco. Come se quello potesse nascondermi. E io so che non mi nasconde, ma forse agli altri basta, come scusa. Agli altri basta chiudere gli occhi. A me no. Io voglio vedere, capire. Far capire. Ma nessuno vuole ascoltarmi. I lunghi capelli ramati incorniciano arruffatamente il viso, creando un gioco di ombre sulla pelle chiara. Indosso una maglia di una taglia in più, nera, con dei piccoli buchi sulla schiena e sulla pancia e una gonna corta, sempre nera, aderente ma non troppo. Ai piedi porto delle decolleté nere con un cinturino stretto alla caviglia. Tutto quel nero esalta la mia pelle chiara, potrei quasi risplendere nella notte. Sembro uno spettro. E forse lo sono. Non faccio niente per me, faccio tutto per Meredith e anche contro voglia. E proprio lei mi chiama dal piccolo soggiorno. Scendo lentamente le scale. So camminare sui tacchi, ma preferisco non fare mosse azzardate, non vorrei rotolare giù dalle scale e rompermi qualcosa. Meredith mi aspetta seduta sulla poltrona scolorita. Lei lavora solo di giorno, in una pasticceria, quindi lascia il lavoro sporco a me. È cominciato tutto quando… meglio non ricordare. Meglio lasciare i ricordi del passato lì dove sono. Meredith, che ha corti capelli neri e occhi verdi e grandi, è magra, ma non troppo e minuta, sembra quasi un elfo. Peccato che non lo sia, visto che mi ricorda che devo guadagnarmi la pagnotta e mi manda fuori di casa. Fortunatamente è ancora settembre e non fa poi così freddo e, anche se l’aria fresca della sera mi sfiora con i suoi tentacoli freddi, è quasi piacevole, mi tiene sveglia. È venerdì sera, e potrei benissimo essere una qualsiasi ragazza ventunenne che va a una festa, o in discoteca, o al pub. Potrei essere una ragazza che sta aspettando delle amiche, o il suo ragazzo. Solo chi sa cosa cercare mi noterà e mi si avvicinerà. Solo chi sa cosa vuole. E io sorriderò maliziosa e lo porterò in quel vicolo, illuminato da quell’unico lampione solitario. E lui prenderà quello per cui è venuto e io riceverò il mio compenso. E poi tornerò sulla strada, ad aspettare qualcun’altro. Sono stata con uomini, ragazzi, padri di famiglia, ragazzi alla loro prima volta, con uomini che volevano solo dimenticare, con uomini che mi hanno chiamato con altri nomi, con uomini violenti e dolci. E oggi non è molto diverso dal solito, ci sono facce già viste e facce nuove. È tutto uguale al solito, quasi monotono. E come al solito, mi faccio scivolare tutto addosso, ormai sono diventata brava in questo. Sono già le dieci passate e, anche se manca ancora un bel po’ di tempo prima di andare a casa, sono stanca morta. Sto quasi per tornarmene a casa, fregandomene di Meredith e di quello che mi dirà e dei pochi soldi che ho guadagnato. Mi giro e faccio per tornare sulla via di casa, quando una mano mi stringe forte il braccio, mandandomi a sbattere contro il muro di un palazzo. Mi manca il respiro per un attimo e vedo tutte le lucine bianche davanti agli occhi. L’uomo, che non avrà più di trentacinque anni, mi tiene ferma facendomi male e si prende quello che vuole con urgenza, senza troppi complimenti. Grugnisce qualcosa, ma non riesco a capire cosa. Però sento il suo alito, puzza di alcol. Cerco di allontanarmi, ma l’uomo mi blocca stringendomi e mordendomi il collo. Non dovrei spaventarmi. È il mio lavoro, dovrei essere abituata. Ma mi prende il panico, vorrei piangere, sento già le lacrime agli angoli degli occhi. Non so cosa fare, sento il cuore battere all’impazzata. Intanto l’uomo, che non si cura minimamente di me, continua a toccarmi facendomi male, mi alza la maglietta e la gonna. Sento che sto per piangere, quando qualcosa mi stacca l’uomo di dosso, lui mi graffia, cercando di trattenermi, ma l’altro uomo, che adesso posso vedere, illuminato dal lampione, è più forte. Io cado a terra, scoppiando a piangere silenziosamente, il sangue che mi martella nelle orecchie. Mi rintano in un angolo buio e guardo i due uomini picchiarsi, vedo le loro ombre che si confondono nel buio, fino a diventare una sola figura mostruosa. Ad un certo punto, uno stramazza per terra pesantemente e l’altro si avvicina a me. Non riesco a vederlo accecata come sono dalle lacrime, ma mi alzo, per avere almeno una possibilità per scappare. Quando l’uomo arriva sotto al lampione, posso vederlo e, sollevata, scopro che non è quello ubriaco. È un uomo alto, con i capelli neri, degli occhi colgo solo un piccolo baluginio, e potrebbero essere benissimo o blu o verdi. E ha un labbro spaccato. È vestito in maniera più o meno elegante, anche se i vestiti si sono stropicciati per la rissa, e sulla camicia candida c’è qualche traccia di sangue, anche se non potrei dire se suo, caduto dal labbro, o dell’altro uomo. Mi appoggio al muro, cercando sostegno, senza sapere bene cosa fare. È un cliente? Solo un passante? E adesso cosa farà? Chiamerà la polizia e mi farà arrestare? Ma non faccio in tempo a dire o fare niente, perché in lontananza sento le sirene della polizia. Lo sconosciuto si guarda alle spalle e io non approfitto per scappare nel vicolo buio. Sono spaventata, stanca, le ginocchia mi tremano, barcollo sui tacchi alti e vado a sbattere contro i muri, disorientata, non riesco a pensare a niente. Anche il mio nome sembra scomparso nei meandri della mia mente, posso solo pensare di mettere un piede davanti a un altro, concentrarmi su questo e niente altro. Un passo alla volta. Ma per quanto mi concentri su questo semplice pensiero, questo semplice compito, posso sentire la macchina della polizia che si ferma all’inizio del vicolo e gli occhi dello sconosciuto che mi guardano magnetici. Posso sentirli fissi sulla schiena. E non resisto, mi giro barcollando, reggendomi al muro, i capelli che spinti dal vento si impigliano davanti agli occhi, e ho la certezza che lo sconosciuto mi stia guardando. Ancora e ancora. Fino a quando un poliziotto non lo fa entrare nella macchina. Rimango così, ferma a guardare le luci bianche, rosse e blu fino a quando non scompaiono nella notte, fino a quando non sento più niente se non il tranquillo traffico di New York. Scivolo contro il muro e piango. Ormai, non so neanche per cosa sto piangendo, ma adesso che le lacrime hanno trovato la loro strada, non accennano a fermarsi. Non so quanto rimango così, ferma, seduta in un vicolo di New York, ma quando mi alzo si sta facendo chiaro, forse mi sono anche addormentata per un po’. Torno barcollando a casa. Meredith non mi dice niente, non mi guarda nemmeno, così mi chiudo in bagno e faccio una doccia. Apro l’acqua calda e aspetto che diventi bollente, e poi sciacquo via tutto. Tutto lo sporco che mi sento addosso, il sangue, le fatiche, i disastri, le colpe. Gli occhi magnetici dello sconosciuto. Tutto scivola velocemente giù nel tubo di scarico lasciandomi, per quanto possibile, pulita. Mi stringo un asciugamano addosso e mi avvolgo nelle coperte. Mi giro e rigiro nel letto, cercando di addormentarmi, ma ogni volta che chiudo gli occhi mi rivedo davanti lo sconosciuto che mi aggredisce, che mi tiene ferma contro il muro, e ogni volta che rivedo quei ricordi, i graffi sul petto e sul collo pulsano. Alla fine, riesco ad addormentarmi solo quando la luce del mattino entra dalla finestra. Mi addormento con un raggio di luce che mi colpisce il viso, come se quella piccola luminosità potesse proteggermi da tutto il buio che mi avvolge, tutto il buio con cui ho imparato a convivere. Il buio che è diventato la mia vita. Ma intanto, quel piccolo raggio di luce mi rassicura, e prima di cadere nel sonno mi appaiono gli occhi dello sconosciuto.
   
 
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