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Autore: MadAka    03/05/2014    1 recensioni
"Chiamano questo posto il Banco dei Sogni, perché è proprio questo che fa, compra sogni.
Le persone qui vendono ciò che hanno di più evanescente, ma anche di più profondo. Racchiudono la loro speranza all’ interno della loro firma, la scrivono su un foglio bianco candido, lo ripongono in una busta e vengono fin qui per farsela valutare, farsi valutare il prezzo della propria anima, come diceva mio padre."
Genere: Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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We go out on our own, it's a big bad world outside,

Carrying our dreams and all that they mean

Trying to make it all worthwhile.

 

 

 

È passato del tempo dall’ultima volta che ho percorso questa strada, dall’ultima volta che ho camminato lungo questo viale nella stessa direzione. Mi sono allontanato da qui, l’ho fatto con l’intenzione di non tornare mai più su questi passi che reputo sbagliati, ed invece ora eccomi. Sto davvero tornando verso il Banco dei Sogni, mi sto davvero dirigendo verso quel luogo in cui ho rischiato di uccidere me stesso.

Tuttavia sto andando là con un’intenzione differente. Non stringo più una busta bianca fra le mani, non sento più i miei piedi insicuri e malfermi e l’ansia che ho dentro è infinitamente minore di quella che provavo allora. Oltretutto non sono solo, questa volta, accanto a me c’è Gabriel, con la sua chitarra acustica in mano, che osserva i suoi passi e pare quasi contarli: lui, a quanto pare, è agitato.

«Sei preoccupato?» gli chiedo, dopo troppo silenzio da parte di entrambi.

Si volta verso di me, devo averlo risvegliato dai suoi pensieri perché mi guarda come se non ricordasse più dove si trova.

«Come?»

«Ti ho chiesto se sei preoccupato.» ripeto, con calma.

Si passa una mano fra i capelli chiari, freschi di rasatura, un gesto che spesso identifico con l’agitazione.

«Un filino. Non so perché ma ho una strana sensazione.»

«Credo sia inevitabile visto dove stiamo andando.»

Annuisce e torna a guardare il pavimento davanti a sé.

Lo osservo un momento prima di fermarmi, lui se ne accorge alcuni metri dopo e si immobilizza:

«Che stai facendo?» mi domanda sorpreso.

«Senti, se per caso ci hai ripensato, se non volessi farlo più, lo capirei. Vuoi che ce ne andiamo? Torniamo da Vinny?»

Aspetto la sua reazione, la sua risposta. Mi dispiace aver capito soltanto ora lo sforzo che gli ho chiesto usando la sua musica come pretesto. Gabriel è un ragazzo giovane, ha solo ventuno anni, riportarlo nel posto che gli ha fatto provare tante spiacevoli sensazioni è un gesto orribile e mi sorprende accorgermi di essere stato io a chiedergli di farlo.

Lui si fa serio, mi guarda dritto negli occhi e il turbinio blu che essi possiedono, più vibrante e lucente che mai, pare scrutarmi fino in fondo.

«Muoviti, Steve. Non credere che torni indietro proprio ora che siamo praticamente arrivati.»

Gli sorrido e lo raggiungo, lui riprende parola:

«Sono solo un po’ nervoso, credo sia normale, no? È che… non lo so, l’idea di tornare davanti a quel posto mi agita, tutto qui.»

«Agita anche me.»

Si gira e mi guarda, sorpreso:

«Allora siamo davvero due deficienti.» sentenzia, mettendosi a ridere.

Gli do ragione e riprendiamo a camminare in silenzio, tentando di ricacciare via i fantasmi del nostro passato al Banco.

Ma quando lo raggiungiamo una spiacevole sensazione si appropria ugualmente di me. Lo fa restituendomi i gravosi ricordi che ero appena riuscito a nascondere. Rivedere l’edificio, così alto e tetro con i mattoni scuri e le guglie a punta, mi riporta indietro e quasi mi sembra di vedermi mentre entro dall’ingresso credendo, stupidamente, di cambiare la mia vita con il loro aiuto.

Anche per Gabriel deve fare uno strano effetto essere arrivato fin qui, eppure pare riprendersi prima di me, perché si siede sul muretto che si trova esattamente davanti all’entrata della costruzione e impugna subito la sua chitarra.

Mi sistemo accanto a lui e lo guardo mentre pizzica le corde del suo strumento, le sue mani non tremano, non l’hanno mai fatto quando cominciano a suonare.

«Hai qualche richiesta in particolare?» mi chiede.

Scuoto la testa e sorrido, lasciandogli il via libera, mentre comincio a guardare in giro.

Le note iniziano a farsi strada superandoci, andando a riempire l’aria che ci circonda, regalano a questa mattina grigia una sfumatura più dolce e tentano di avvicinarsi a chi hanno intorno, ma sembra tutto inutile. Le persone continuano a passarci ininterrottamente davanti, nessuno ci lancia un’occhiata, sembra che per loro la nostra esistenza non ci sia, anche quando Gabriel inizia a cantare, unendo alla sua musica un sussurro che parla di vita e di amore.

Ma poi fortunatamente la noto, una giovane donna ferma accanto all’ingresso del Banco dei Sogni, ad osservarci. Stringe al petto una busta bianca, ma non si muove. Mi pare incantata dalla musica e dalla voce di Gabriel e continua a far scorrere i suoi occhi su di noi; sono occhi azzurri, bellissimi, e l’idea che essi rischino di spegnersi a breve, mi rattrista. Nonostante tutto le sorrido e lei fa lo stesso, rimanendo ferma a fissarci ancora un po’. Tuttavia, alla fine, entra nell’edificio.

Sospiro.

«C’eravamo quasi.» mi dice Gabriel, traducendo in parole il mio pensiero.

«Già.» gli do conferma con un mormorio, carico di tutta la delusione che questo primo fallimento mi ha dato.

Le ore passano con lentezza infinita. Il ragazzo non smette un solo momento di suonare, ogni tanto si perde in chiacchiere con me ma senza mai staccare le dita dalle corde della chitarra; qualche passante addirittura ci lancia una, massimo due monete d’oro, più per disprezzo che per compassione.

La stessa scena vissuta con la ragazza di prima si ripete un paio di volte, sempre con gente giovane, sempre con persone che probabilmente mettono piede al Banco per la prima volta, persone che credono ancora in qualcosa, o meglio, che credevano.

La luce aumenta ancora la sua intensità, il numero della gente diminuisce sulle strade e sui marciapiedi, deve essere circa l’una del pomeriggio a giudicare da tutti questi fattori. Ed è quando Gabriel allontana le dita dalla sua chitarra per riposarle un po’ che sulla soglia compaiono tre figure, due alte e massicce, la terza più bassa ed esile, ma tutte vestite con un elegante completo scuro.

Appena incontro gli occhi della figura più minuta, appena incrocio quello sguardo freddo e glaciale che non ho mai potuto dimenticare, l’angoscia e il disgusto si impossessano violentemente di me.

È l’uomo a cui ho dato il mio sogno, quell’uomo poco rassicurante che mi ha lasciato interdetto la prima volta che l’ho visto e che mi sta facendo sentire nella stessa maniera anche ora.

I tre si avvicinano, accanto a me il ragazzo si alza, stringendo la sua chitarra. Sollevo lo sguardo per osservarlo e noto che è completamente sbiancato in volto:

«Gabriel…» sussurro alzandomi a mia volta, incredulo nel vederlo così.

«Lui è quello che compra i sogni delle persone.» dice, la voce bassa e tremula.

«Lo so.»

Ritorno a fissare serio le tre figure anche se sono preoccupato e ora, vedendo Gabriel così, comincio veramente a credere di aver avuto la peggiore idea immaginabile.

«Si può sapere che cosa succede?» domanda infine l’uomo, dopo essersi fermato, con quella sua voce flebile che anche questa volta risveglia le mie sensazioni peggiori.

Solleva le sopracciglia appena mi riconosce:

«Oh, Signor Espoir, mi sorprende rivederla qui.»

Gabriel si volta verso di me, sbalordito e spaventato.

«Lei come sa il mio nome?» gli chiedo sorpreso, ricordandomi perfettamente di non averglielo mai detto.

Sorride, quel suo ghigno distorto e vittorioso:

«Ho tenuto in mano il suo sogno. Mi creda, è più che sufficiente per sapere tutto di qualcuno, a cominciare proprio dal nome.»

Rabbrividisco al solo pensiero. L’unica persona a cui non avrei mai raccontato niente di me, nemmeno le cose più basilari, più stupide, è anche l’unica che conosce la mia paura più profonda e la mia speranza più grande: è un insulto.

L’uomo posa un momento lo sguardo su Gabriel, che abbassa immediatamente il suo, per poi tornare a puntarlo su di me. Sono maledettamente preoccupato da ciò che può succedere a breve, ma non abbiamo fatto niente di sbagliato, non siamo neanche riusciti nell’intento che ci eravamo prefissati; non possono farci niente.

«Dunque, si può sapere cosa state facendo?» domanda nuovamente lui.

«Niente di strano, solo suonando.» mi limito a rispondere.

Assume una strana espressione, come se la parola suonando fosse nuova per lui.

«Per quale motivo?»

Non rispondo, lo guardo solamente.

Sospira:

«Lei sa, vero, che non è autorizzata musica qui al Banco dei Sogni

Annuisco, fingendo di saperlo perfettamente:

«Ma noi non siamo al Banco dei Sogni, questo è suolo pubblico e siamo liberi di fare ciò che crediamo giusto.» c’è una nota di sfida nelle mia voce, che sorprende Gabriel ma sorprende anche me.

L’uomo congiunge le dita e sospira nuovamente:

«Avete perfettamente ragione. Tuttavia noi siamo bravi cittadini e, come tali, ci teniamo a tenere pulito il suolo pubblico posto davanti al nostro edificio.»

La sua voce diventa quasi un sibilo, proprio come quel giorno, in cui l’ho sfidato e mi sono ripreso il mio sogno. Non credo di piacergli, anzi, ne sono certo; sospetto che il motivo per cui è qui ora sia semplicemente dovuto al fatto che ci sono io, che si tratti di me.

A un suo semplicissimo cenno i due uomini che ha affianco si muovono verso di noi, imperscrutabili come statue. Il primo raggiunge me, afferrandomi per i polsi; il secondo si avventa su Gabriel e gli strappa di mano la chitarra, spintonando indietro il ragazzo che inciampa contro il muretto e cade a terra.

«Che diavolo state facendo?» esclamo, liberandomi dalla presa e soccorrendo il mio amico.

«Gliel’ho detto, teniamo pulito il suolo pubblico davanti al nostro edificio.»

Mi parla come se si stesse rivolgendo ad un bambino, come se quello che i suoi uomini stanno facendo sia motivato e di facile comprensione. Lo capisco perfettamente ciò che stanno facendo, ma non è motivato, è semplicemente ingiusto.

«La mia chitarra…» sussurra Gabriel mentre lo aiuto a rialzarsi.

Una fitta mi attraversa il cuore. “Lei è tutto quello che mi è rimasto.” aveva detto il giorno in cui ci siamo conosciuti; sta succedendo tutto per colpa mia, se il ragazzo dovesse perdere la sua chitarra non me lo perdonerei mai.

Scatto verso l’uomo con in mano lo strumento del giovane, è più alto di me ma riesco comunque ad afferrarlo per il bavero della camicia, proprio in corrispondenza del nodo della cravatta.

Lui non reagisce, allontana dalla mia presa la chitarra, si protegge con il braccio libero e si volta appena verso il suo superiore, rimasto immobile dietro di lui.

Che cosa avrà intenzione di fare adesso?

«Quello che lei sta facendo è reato.» sento sibilare l’ometto, con quella voce da far rabbrividire.

Preso dall’esasperazione mi volto verso di lui:

«E io le ripeto che questo è suolo pubblico, se suonare nel suo schifosissimo Banco dei Sogni è un crimine non lo è qui! Ora dica al suo gorilla di restituirmi la chitarra!»

Lui non fa una piega, rimane fermo a fissarmi con i suoi occhi freddi, e per la prima volta noto l’odio, nel suo sguardo, noto la crudeltà; se ha ancora un’anima non può che essere nera e fredda.

Riprende a parlare dopo un cenno appena percepibile all’altra delle sue guardie, rimasta fuori dalla situazione dopo che sono riuscito a liberarmi poco prima.

«Sì, è vero. Tuttavia lei ha appena aggredito un pubblico ufficiale. Questo è il reato.»

Lo guardo stupito da ciò che ha appena detto, preso alla sprovvista dalla sua ultima affermazione.

Tutto accade in una sola frazione di secondo.

L’incertezza mi pervade, alle mie spalle sento Gabriel urlare il mio nome, la voce rotta dalla paura, un forte dolore si appropria di me, lo fa salendo dal collo e arrivando in ogni parte del mio corpo come veleno. La mia mano allenta involontariamente la presa dal colletto dell’uomo, le mie ginocchia cedono sotto il mio peso e infine il nero avvolge ogni cosa che ho intorno.

  
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