We go out on our own, it's
a big bad world outside,
Carrying our dreams and all that they
mean
Trying to make it all
worthwhile.
È
passato del tempo dall’ultima volta che ho percorso questa strada, dall’ultima
volta che ho camminato lungo questo viale nella stessa direzione. Mi sono
allontanato da qui, l’ho fatto con l’intenzione di non tornare mai più su
questi passi che reputo sbagliati, ed invece ora eccomi. Sto davvero tornando
verso il Banco dei Sogni, mi sto
davvero dirigendo verso quel luogo in cui ho rischiato di uccidere me stesso.
Tuttavia
sto andando là con un’intenzione differente. Non stringo più una busta bianca
fra le mani, non sento più i miei piedi insicuri e malfermi e l’ansia che ho
dentro è infinitamente minore di quella che provavo allora. Oltretutto non sono
solo, questa volta, accanto a me c’è Gabriel, con la sua chitarra acustica in
mano, che osserva i suoi passi e pare quasi contarli: lui, a quanto pare, è
agitato.
«Sei
preoccupato?» gli chiedo, dopo troppo silenzio da parte di entrambi.
Si
volta verso di me, devo averlo risvegliato dai suoi pensieri perché mi guarda
come se non ricordasse più dove si trova.
«Come?»
«Ti
ho chiesto se sei preoccupato.» ripeto, con calma.
Si
passa una mano fra i capelli chiari, freschi di rasatura, un gesto che spesso
identifico con l’agitazione.
«Un
filino. Non so perché ma ho una strana sensazione.»
«Credo
sia inevitabile visto dove stiamo andando.»
Annuisce
e torna a guardare il pavimento davanti a sé.
Lo
osservo un momento prima di fermarmi, lui se ne accorge alcuni metri dopo e si
immobilizza:
«Che
stai facendo?» mi domanda sorpreso.
«Senti,
se per caso ci hai ripensato, se non volessi farlo più, lo capirei. Vuoi che ce
ne andiamo? Torniamo da Vinny?»
Aspetto
la sua reazione, la sua risposta. Mi dispiace aver capito soltanto ora lo
sforzo che gli ho chiesto usando la sua musica come pretesto. Gabriel è un
ragazzo giovane, ha solo ventuno anni, riportarlo nel posto che gli ha fatto
provare tante spiacevoli sensazioni è un gesto orribile e mi sorprende
accorgermi di essere stato io a chiedergli di farlo.
Lui
si fa serio, mi guarda dritto negli occhi e il turbinio blu che essi
possiedono, più vibrante e lucente che mai, pare scrutarmi fino in fondo.
«Muoviti,
Steve. Non credere che torni indietro proprio ora che siamo praticamente
arrivati.»
Gli
sorrido e lo raggiungo, lui riprende parola:
«Sono
solo un po’ nervoso, credo sia normale, no? È che… non lo so, l’idea di tornare
davanti a quel posto mi agita, tutto qui.»
«Agita
anche me.»
Si
gira e mi guarda, sorpreso:
«Allora
siamo davvero due deficienti.» sentenzia, mettendosi a ridere.
Gli
do ragione e riprendiamo a camminare in silenzio, tentando di ricacciare via i
fantasmi del nostro passato al Banco.
Ma
quando lo raggiungiamo una spiacevole sensazione si appropria ugualmente di me.
Lo fa restituendomi i gravosi ricordi che ero appena riuscito a nascondere.
Rivedere l’edificio, così alto e tetro con i mattoni scuri e le guglie a punta,
mi riporta indietro e quasi mi sembra di vedermi mentre entro dall’ingresso
credendo, stupidamente, di cambiare la mia vita con il loro aiuto.
Anche
per Gabriel deve fare uno strano effetto essere arrivato fin qui, eppure pare
riprendersi prima di me, perché si siede sul muretto che si trova esattamente
davanti all’entrata della costruzione e impugna subito la sua chitarra.
Mi
sistemo accanto a lui e lo guardo mentre pizzica le corde del suo strumento, le
sue mani non tremano, non l’hanno mai fatto quando cominciano a suonare.
«Hai
qualche richiesta in particolare?» mi chiede.
Scuoto
la testa e sorrido, lasciandogli il via libera, mentre comincio a guardare in
giro.
Le
note iniziano a farsi strada superandoci, andando a riempire l’aria che ci
circonda, regalano a questa mattina grigia una sfumatura più dolce e tentano di
avvicinarsi a chi hanno intorno, ma sembra tutto inutile. Le persone continuano
a passarci ininterrottamente davanti, nessuno ci lancia un’occhiata, sembra che
per loro la nostra esistenza non ci sia, anche quando Gabriel inizia a cantare,
unendo alla sua musica un sussurro che parla di vita e di amore.
Ma
poi fortunatamente la noto, una giovane donna ferma accanto all’ingresso del Banco dei Sogni, ad osservarci. Stringe
al petto una busta bianca, ma non si muove. Mi pare incantata dalla musica e dalla
voce di Gabriel e continua a far scorrere i suoi occhi su di noi; sono occhi
azzurri, bellissimi, e l’idea che essi rischino di spegnersi a breve, mi
rattrista. Nonostante tutto le sorrido e lei fa lo stesso, rimanendo ferma a
fissarci ancora un po’. Tuttavia, alla fine, entra nell’edificio.
Sospiro.
«C’eravamo
quasi.» mi dice Gabriel, traducendo in parole il mio pensiero.
«Già.»
gli do conferma con un mormorio, carico di tutta la delusione che questo primo
fallimento mi ha dato.
Le
ore passano con lentezza infinita. Il ragazzo non smette un solo momento di
suonare, ogni tanto si perde in chiacchiere con me ma senza mai staccare le
dita dalle corde della chitarra; qualche passante addirittura ci lancia una,
massimo due monete d’oro, più per disprezzo che per compassione.
La
stessa scena vissuta con la ragazza di prima si ripete un paio di volte, sempre
con gente giovane, sempre con persone che probabilmente mettono piede al Banco per la prima volta, persone che
credono ancora in qualcosa, o meglio, che credevano.
La
luce aumenta ancora la sua intensità, il numero della gente diminuisce sulle
strade e sui marciapiedi, deve essere circa l’una del pomeriggio a giudicare da
tutti questi fattori. Ed è quando Gabriel allontana le dita dalla sua chitarra per
riposarle un po’ che sulla soglia compaiono tre figure, due alte e massicce, la
terza più bassa ed esile, ma tutte vestite con un elegante completo scuro.
Appena
incontro gli occhi della figura più minuta, appena incrocio quello sguardo
freddo e glaciale che non ho mai potuto dimenticare, l’angoscia e il disgusto
si impossessano violentemente di me.
È
l’uomo a cui ho dato il mio sogno, quell’uomo poco rassicurante che mi ha
lasciato interdetto la prima volta che l’ho visto e che mi sta facendo sentire
nella stessa maniera anche ora.
I
tre si avvicinano, accanto a me il ragazzo si alza, stringendo la sua chitarra.
Sollevo lo sguardo per osservarlo e noto che è completamente sbiancato in volto:
«Gabriel…»
sussurro alzandomi a mia volta, incredulo nel vederlo così.
«Lui
è quello che compra i sogni delle persone.» dice, la voce bassa e tremula.
«Lo
so.»
Ritorno
a fissare serio le tre figure anche se sono preoccupato e ora, vedendo Gabriel
così, comincio veramente a credere di aver avuto la peggiore idea immaginabile.
«Si
può sapere che cosa succede?» domanda infine l’uomo, dopo essersi fermato, con
quella sua voce flebile che anche questa volta risveglia le mie sensazioni
peggiori.
Solleva
le sopracciglia appena mi riconosce:
«Oh, Signor Espoir,
mi sorprende rivederla qui.»
Gabriel
si volta verso di me, sbalordito e spaventato.
«Lei
come sa il mio nome?» gli chiedo sorpreso, ricordandomi perfettamente di non
averglielo mai detto.
Sorride,
quel suo ghigno distorto e vittorioso:
«Ho
tenuto in mano il suo sogno. Mi creda, è più che sufficiente per sapere tutto
di qualcuno, a cominciare proprio dal nome.»
Rabbrividisco
al solo pensiero. L’unica persona a cui non avrei mai raccontato niente di me,
nemmeno le cose più basilari, più stupide, è anche l’unica che conosce la mia
paura più profonda e la mia speranza più grande: è un insulto.
L’uomo
posa un momento lo sguardo su Gabriel, che abbassa immediatamente il suo, per
poi tornare a puntarlo su di me. Sono maledettamente preoccupato da ciò che può
succedere a breve, ma non abbiamo fatto niente di sbagliato, non siamo neanche
riusciti nell’intento che ci eravamo prefissati; non possono farci niente.
«Dunque,
si può sapere cosa state facendo?» domanda nuovamente lui.
«Niente
di strano, solo suonando.» mi limito a rispondere.
Assume
una strana espressione, come se la parola suonando
fosse nuova per lui.
«Per
quale motivo?»
Non
rispondo, lo guardo solamente.
Sospira:
«Lei
sa, vero, che non è autorizzata musica qui al Banco dei Sogni?»
Annuisco,
fingendo di saperlo perfettamente:
«Ma
noi non siamo al Banco dei Sogni,
questo è suolo pubblico e siamo liberi di fare ciò che crediamo giusto.» c’è
una nota di sfida nelle mia voce, che sorprende Gabriel ma sorprende anche me.
L’uomo
congiunge le dita e sospira nuovamente:
«Avete
perfettamente ragione. Tuttavia noi siamo bravi cittadini e, come tali, ci
teniamo a tenere pulito il suolo pubblico posto davanti al nostro edificio.»
La
sua voce diventa quasi un sibilo, proprio come quel giorno, in cui l’ho sfidato
e mi sono ripreso il mio sogno. Non credo di piacergli, anzi, ne sono certo;
sospetto che il motivo per cui è qui ora sia semplicemente dovuto al fatto che
ci sono io, che si tratti di me.
A
un suo semplicissimo cenno i due uomini che ha affianco si muovono verso di
noi, imperscrutabili come statue. Il primo raggiunge me, afferrandomi per i
polsi; il secondo si avventa su Gabriel e gli strappa di mano la chitarra,
spintonando indietro il ragazzo che inciampa contro il muretto e cade a terra.
«Che
diavolo state facendo?» esclamo, liberandomi dalla presa e soccorrendo il mio
amico.
«Gliel’ho
detto, teniamo pulito il suolo pubblico davanti al nostro edificio.»
Mi
parla come se si stesse rivolgendo ad un bambino, come se quello che i suoi
uomini stanno facendo sia motivato e di facile comprensione. Lo capisco
perfettamente ciò che stanno facendo, ma non è motivato, è semplicemente
ingiusto.
«La
mia chitarra…» sussurra Gabriel mentre lo aiuto a rialzarsi.
Una
fitta mi attraversa il cuore. “Lei è tutto
quello che mi è rimasto.” aveva detto il giorno in cui ci siamo conosciuti;
sta succedendo tutto per colpa mia, se il ragazzo dovesse perdere la sua
chitarra non me lo perdonerei mai.
Scatto
verso l’uomo con in mano lo strumento del giovane, è più alto di me ma riesco
comunque ad afferrarlo per il bavero della camicia, proprio in corrispondenza
del nodo della cravatta.
Lui
non reagisce, allontana dalla mia presa la chitarra, si protegge con il braccio
libero e si volta appena verso il suo superiore, rimasto immobile dietro di
lui.
Che
cosa avrà intenzione di fare adesso?
«Quello
che lei sta facendo è reato.» sento sibilare l’ometto, con quella voce da far
rabbrividire.
Preso
dall’esasperazione mi volto verso di lui:
«E
io le ripeto che questo è suolo pubblico, se suonare nel suo schifosissimo Banco dei Sogni è un crimine non lo è
qui! Ora dica al suo gorilla di restituirmi la chitarra!»
Lui
non fa una piega, rimane fermo a fissarmi con i suoi occhi freddi, e per la prima
volta noto l’odio, nel suo sguardo, noto la crudeltà; se ha ancora un’anima non
può che essere nera e fredda.
Riprende
a parlare dopo un cenno appena percepibile all’altra delle sue guardie, rimasta
fuori dalla situazione dopo che sono riuscito a liberarmi poco prima.
«Sì,
è vero. Tuttavia lei ha appena aggredito un pubblico ufficiale. Questo è il reato.»
Lo
guardo stupito da ciò che ha appena detto, preso alla sprovvista dalla sua
ultima affermazione.
Tutto
accade in una sola frazione di secondo.
L’incertezza
mi pervade, alle mie spalle sento Gabriel urlare il mio nome, la voce rotta
dalla paura, un forte dolore si appropria di me, lo fa salendo dal collo e
arrivando in ogni parte del mio corpo come veleno. La mia mano allenta
involontariamente la presa dal colletto dell’uomo, le mie ginocchia cedono
sotto il mio peso e infine il nero avvolge ogni cosa che ho intorno.