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Autore: Laylath    05/05/2014    3 recensioni
Eppure a guardare più da vicino i ragazzi di quella realtà, ci si sarebbe accorti che le loro esistenze non erano così scontate: i piccoli grandi problemi dell’infanzia e dell’adolescenza a volte andavano ad intrecciarsi con situazioni difficili, dove spesso il legame con un amico fidato era la cosa migliore per poter andare avanti.
E spesso le persone più impensabili stringevano un forte legame tra di loro per uno strano susseguirsi di eventi, all’apparenza così normali… anche se poi viverli era tutt’altra cosa.
Genere: Generale, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Team Mustang
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Un anno per crescere'
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Capitolo 59. Madre.

 
 
La mattina del 2 agosto Riza camminava nel sentiero che portava fuori dal paese, verso il piccolo cimitero, tenendo tra le braccia un mazzo di fiori campestri che aveva raccolto poco prima.
Era l’anniversario della morte di sua madre e, come ogni anno, andava a trovarla e a portare dei fiori alla sua tomba, preoccupandosi di levare le eventuali erbacce che erano cresciute attorno ad essa.
Era di umore un po’ strano e la cosa le dava fastidio: per una simile occasione avrebbe preferito provare maggiore serenità o, al massimo, malinconia e tristezza. Tuttavia quella notte aveva dormito male, tanto che era stata svegliata da Hayate che le leccava il viso, preoccupato per il suo lamentarsi.
Aveva sognato la mattina in cui sua madre era morta: era la prima volta che le capitava in cinque anni.
La cosa era stata così improvvisa che non se ne era resa subito conto: era un periodo in cui la donna stava relativamente meglio, tanto che quella particolare giornata si era alzata dal letto, vestendosi e pettinandosi. Per somma gioia della figlia era persino andata in salotto e si era seduta nella poltrona.
“Che libro stavamo leggendo l’ultima volta, tesoro?”
“Quello delle poesie, mamma: guarda, eravamo arrivate qui.”
Quelle parole risuonarono nella mente della ragazza, così vivide, come se accanto a lei ci fosse una piccola Riza che, col vestitino azzurro cielo, sorrideva felice nel vedere la propria madre che le dava attenzioni.
“… i battiti del bosco, delle foglie e del vento
dove la magia opera sempre a piacimento…”
“…Voleranno le fate, i ricordi ed i pensieri,
 non esisterà un domani, non esisterà un ieri.”
Pronunciò questi ultimi due versi, sovrapponendo la propria voce al ricordo di quella materna. Perché era stata quella poesia l’ultimo suo testamento, l’ultimo momento che aveva passato con lei.
Il tempo di andare a prendere un bicchiere d’acqua per quella giornata afosa e tutto era finito: l’aveva trovata col capo posato sullo schienale della poltrona, gli occhi chiusi come se dormisse, il libro ancora aperto su quella poesia che parlava di un posto incantato e bellissimo dove il tempo non esisteva.
C’erano voluti trenta secondi buoni per capire che non stava dormendo, che i suoi occhi ambrati si erano chiusi per sempre.
“Papà… papà, la mamma non apre più gli occhi!”
L’unica volta in cui non aveva bussato alla porta dello studio di suo padre. L’unica volta in cui lui l’aveva degnata immediatamente d’attenzione, ma nemmeno l’alchimia poteva riportarla in vita. Alla faccia di tutti i suoi studi, Berthold Hawkeye aveva potuto solo tastare il polso della moglie e chinare il capo in segno di resa. E per tutto il tempo lei aveva tenuto quel bicchiere in mano, non riuscendo a metabolizzare che sua madre non avrebbe mai bevuto quell’acqua.
Con quell’ultimo pensiero arrivò al cimitero e oltrepassò l’apertura nel basso muretto di pietre.
Sbirciò attorno, lieta di vedere che non ci fosse nessuno, e poi andò alla tomba di sua madre, chinandosi davanti ad essa.
Elisabeth Hawkeye 4 Aprile 1859  - 2 Agosto 1892.
Con attenzione levò alcuni fili d’erba che si erano infilati nell’incisione della prima lettera. Provvide altresì a levare alcune foglie che stavano li vicino e solo allora depose il mazzo di fiori.
Finita quell’operazione si sedette e portò le ginocchia al petto.
Si mise a pensare a tutti gli avvenimenti che erano successi dall’inizio della scuola, intessendoli come un racconto, come se sua madre fosse seduta davanti a lei e le chiedesse quali erano le novità. L’amicizia con i ragazzi, la festa del primo dicembre, la piena, l’incidente di Kain, il viaggio clandestino ad East City… era come se in quell’anno avesse vissuto più che in quelli precedenti, solo ora se ne rendeva conto.
Ed infine arrivò alla parte più difficile, quella di cui forse si vergognava un po’ e per la quale capiva in parte quanto era successo a Roy con Vato.
Ti dispiace che io le voglia così tanto bene?
Non lo disse a voce alta, ma la domanda aleggiò nella sua anima: cercò di presentare Ellie sotto tutti i migliori punti di vista, come se sua madre fosse davvero lì ad esaminarla. Non come sostituta, assolutamente, ma come una persona che ora le era tremendamente necessaria, così come Andrew e Kain: erano la famiglia di cui aveva bisogno, specie lei era la figura fondamentale senza la quale non sapeva come crescere. Perché si era resa conto che era bello avere un adulto che si preoccupa per te, nonostante i quattordici anni compiuti da poco, con cui potersi confidare in quei dubbi della vita che i tuoi coetanei spesso non possono risolvere.
Ti dispiace che io abbia trovato un padre in lui piuttosto che nel mio?
Ma quello fu un dubbio che la attanagliò per pochi secondi: no, non le dispiaceva affatto, ne era certa. Sua madre non poteva essere felice di vederla legata ad un uomo che non la considerava nemmeno, una persona praticamente estranea che non le aveva mai concesso un abbraccio, nemmeno il giorno del funerale, quando avevano più bisogno l’uno dell’altra.
Ti dispiace che io voglia far parte della loro famiglia?
“Elisabeth…”
Una voce appena dietro di lei la fece sobbalzare. Si affrettò ad alzarsi, pronta a mormorare scusa per quella posizione seduta non proprio consona in un cimitero. Ma come si girò qualsiasi parola le si morì in gola: non conosceva quella persona, quel militare.
Era un uomo di una certa età, sicuramente: dopo il primo momento di panico Riza notò i dritti baffi grigi del medesimo colore dei capelli che ancora stavano attorno alla testa la cui parte alta era calva. Occhi tra l’azzurro ed il violetto la fissavano da dietro piccoli occhiali, come se avessero visto un fantasma.
“Signore?” mormorò la ragazzina, portandosi le mani al petto.
“Le assomigli così tanto – l’uomo allungò la mano e le sfiorò una ciocca di capelli – sei sua figlia…”
“Mi scusi, ma io… non credo di conoscerla – disse con voce insicura, mentre la frase non si parla con gli sconosciuti le rimbombava nella testa – io…”
Era spaventata: avrebbe tanto voluto che Roy si materializzasse all’improvviso e la portasse via da lì. Che qualcuno dei suoi amici venisse a salvarla a scioglierla da quella paralisi che le impediva di correre via.
L’uomo sospirò e, oltrepassandola, si inginocchiò davanti alla lapide e posò una mano sopra il nome inciso.
“Figlia mia – disse con voce flebile – già cinque anni… ed io lo scopro solo adesso.”
Quelle parole sconvolsero Riza.
Figlia mia?
 
Una volta Rebecca, dopo un litigio con sua madre, aveva confidato a Riza di voler correre fino a quando il fiato glielo permetteva per allontanarsi il più possibile da casa sua.
Mentre stava in cortile, con Hayate che le si era accucciato accanto, la ragazzina desiderava poter fare una cosa simile, ma era come se un peso schiacciante fosse stato caricato sulla sua schiena, impedendole di muoversi ed allontanarsi da quanto stava succedendo.
“Riza! Riza!” Roy oltrepassò il cancelletto e corse verso di lei con un gran sorriso.
“Roy !” sussurrò, ringraziando il cielo di averle mandato finalmente qualcuno a cui potersi affidare.
“Non hai idea della novità! – iniziò lui estasiato – Sono arrivati dei militari e…”
Non poté aggiungere altro che l’amica si era aggrappata a lui con disperazione, nascondendo il viso nel suo petto ed emettendo un singhiozzo strozzato.
“Ma che ti succede? – chiese, prendendole le braccia – Sei sconvolta.”
“E’ mio nonno – riuscì a dire lei, alzando gli occhi ambrati e pieni di lacrime – è venuto qui… non… non sapevo nemmeno che esistesse.”
“Cosa?”
“Sì, è un militare. E adesso è dentro e sta parlando con mio padre… saranno più di venti minuti. Roy, io ho paura, tanta! Ma perché i signori Fury sono ad East City proprio in questi giorni?”
“Tornano questo pomeriggio, non ti devi preoccupare – cercò di consolarla lui, mettendole la mano sulla guancia – e poi è tuo nonno, non credo che abbia cattive intenzioni. Insomma, che motivo ci sarebbe?”
“Non lo so, Roy – sospirò – ma dopo quattordici anni, se non di più. Che cosa può volere?”
“Nonno paterno o materno?”
“Materno… Grumman, è questo a quanto pare il cognome di mia madre. Non avevo la minima idea, insomma quell’uomo sembra una persona importante.”
“Il proprietario della locanda ha parlato di un Generale di Brigata – rifletté Roy – accidenti, è un rango davvero alto dell’esercito: due gradi in più di mio padre. Dai, raccontami cosa è successo esattamente.”
Con voce sommessa la ragazzina gli raccontò di quello strano incontro al cimitero, di come poi l’uomo si fosse presentato e le avesse chiesto di condurlo a casa sua. Per tutto il tragitto era stato molto gentile, chiedendole che classe faceva, come andava a scuola, se stava bene…
Ma è un completo estraneo!
Era questo che faceva crollare il mondo di Riza: ormai si era abituata ad avere come legame di sangue solo suo padre. Per il resto il suo concetto di famiglia era spostato verso Ellie, Andrew e Kain e non voleva accettare nessun altro. La venuta di quella persona sconvolgeva quello strano equilibrio che era riuscita a creare con la speranza di poter un giorno far parte realmente dei Fury.
“Roy, ho paura…”
“Ma perché dovresti?”
“Tutti in paese parlano di dissapori tra le famiglie dei miei genitori, sembra che fossero contrari al matrimonio… presumo che mio nonno non abbia un bel rapporto con mio padre.”
“Beh, magari gli vuole chiedere di tua madre – ipotizzò lui – vorrà sapere perché in tutti questi anni…”
“E… e se mi volesse portare via?”
Quella frase appena sussurrata fece dilatare gli occhi neri di Roy.
Le sue mani strinsero ancora più forte le braccia di Riza, quasi ad evidenziare un forte senso di possesso.
“Non lo farà – sibilò, posando la fronte sulla sua – non glielo permetteremo mai.”
La sua emozione per aver visto dei soldati, l’entusiasmo per quella grande novità nella monotona estate del paese… tutto sparì di fronte a quell’eventualità così terribile. Adesso l’unica cosa che contava era accertarsi che Riza restasse.
E’ qui la sua vita, la sua famiglia, i suoi amici… non me la porterete via. Nemmeno se si presentasse il Comandante Supremo in persona lo permetterei.
 
Non c’era nessuna certezza che il militare volesse davvero portare via Riza, dunque Roy ritenne che la cosa migliore fosse attendere l’evolversi degli eventi. Tuttavia non mancò di avvisare i suoi amici, mettendoli in guardia su questa eventualità, in modo da non essere colti totalmente impreparati.
“Dobbiamo andare a parlare subito con mio padre – suggerì Vato, mentre si incamminavano verso il commissariato – sicuramente lui saprà cosa fare.”
“Suvvia, non potrà succedere niente di grave – commentò Heymans, cercando di apparire più calmo di quanto in realtà fosse – Riza sta con suo padre, non c’è alcun pretesto per poterla portare via da lui. Il padre di Kain mi ha spiegato che è quello il legame legale più forte: infatti si porta il cognome del padre, mica quello della madre.”
“Sicuro?” chiese Jean.
“Sì, finché non c’è prova che lui tratti male Riza o le faccia mancare qualcosa, non c’è alcuna motivazione.”
“Sarà anche vero – disse Roy, mentre entravano nell’edificio – ma di quell’uomo non mi fido per niente.”
Ed era vero: non poteva dimenticarsi della pessima impressione che gli aveva fatto quando si era rifiutato di aiutare per la piena del fiume. Il ragazzo non credeva assolutamente che la sua alchimia fosse inutile in quel frangente, si era trattato di puro egoismo e disinteresse. E da parte di una persona simile ci si poteva aspettare qualsiasi cosa.
Del resto potrebbe considerare Riza come un peso e approfittare della situazione per liberarsi di lei.
Come aprì la porta dell’ufficio del capitano, rimase spiazzato nel trovarlo in piedi ad osservare dalla finestra.
“Papà – chiamò Vato – possiamo parlarti?”
Vincent si girò e non sembrò per niente sorpreso della loro presenza.
Si portò davanti al figlio e Roy e mise una mano sulla spalla di ciascuno.
“Si tratta di quei militari, vero? Non voglio disastri, ragazzi, niente mosse azzardate: quella macchina non va toccata e loro vanno lasciati in pace, va bene? Probabilmente sono qui per chiudere finalmente la miniera e…”
“No, non è così! – lo bloccò Roy con aria seccata – il loro superiore è il nonno di Riza e c’è la concreta possibilità che la voglia portare via.”
“Cosa? – il capitano lo squadrò – Raccontami tutto filo e per segno, Roy Mustang.”
 
Nel frattempo la ragazza si trovava in una situazione molto particolare ed in parte rimpiangeva il fatto di aver congedato Roy, dicendogli che se la sarebbe cavata egregiamente. Infatti non pensava che suo nonno, una volta concluso il colloquio con suo padre, chiedesse anche di parlare con lei.
E così si era ritrovata nella cucina della villetta, con quella persona seduta davanti che la fissava con quegli occhi così particolari: un azzurro che sfumava nel violetto. Riza era sicura di non averne mai visto simili.
“Immagino che non sia una mattinata come tutte le altre.” commentò l’uomo, dopo qualche minuto di imbarazzato silenzio.
“Signore…”
“Già, presumo sia difficile per te chiamarmi nonno – sospirò lui – sono un perfetto estraneo.”
“Mi scusi.”
“Non fa niente. Ti confesso che anche per è strano scoprire di avere una nipote di quattordici anni.”
“Non lo sapeva?” Riza alzò gli occhi su di lui. Era sempre stata convinta che i suoi parenti fossero al corrente della sua nascita.
“No, non lo sapevo. Ed è incredibile pensare che tu eri qui, a nemmeno cinque ore di viaggio da East City.”
“Ci sono anche stata – si sorprese Riza – a giugno… eravamo nella stessa città e non lo sapevamo. Allora mia madre abitava lì.”
“Più o meno. A quanto vedo Elisabeth non ti ha raccontato molto della sua vita prima del matrimonio, eh?”
“No, signore – scosse il capo lei – a volte mi descriveva la sua stanza, il grande giardino della sua casa, ma non è mai entrata nei dettagli.”
“Ma guardati – la mano dell’uomo la prese gentilmente per il mento – sei come tua madre alla tua età, se non fosse per i capelli corti.”
La sfumatura di malinconia e rimpianto fu perfettamente percepibile in quell’ultima frase. Riza si chiese cosa mai potesse essere successo tra quella persona, all’apparenza così gentile, e sua madre: di colpo le vennero in mente i nonni di Heymans… forse la loro storia non era dissimile.
“Posso sapere che cosa è successo tra lei e mia madre, signore?” domandò, facendosi coraggio.
Il militare sospirò e si mise a braccia conserte.
“Ma sì, in fondo è giusto che tu conosca la storia. Elisabeth era l’unica figlia che io e la mia adorata moglie avevamo avuto: era sempre stata una bambina esile e fragile tanto che ci trasferimmo in una tenuta poco lontana da East City in modo che la sua salute ne avesse dei giovamenti. Sua madre, tua nonna, la teneva sotto una campana di vetro… a posteriori ammetto che dev’essere stato molto soffocante vivere in quell’eterno bozzolo di protezione. – i suoi occhi si puntarono su Riza – Alla tua età iniziò a mostrare insofferenza per quella vita e così ci convinse a tornare in città: i suoi problemi di salute sembravano risolti e così l’accontentammo, certi che le frequentazioni della buona società l’avrebbero aiutata a superare quel momento difficile. E sembrava che così fosse… poter stare con altre persone la rendeva felice, ma a intervalli irregolari tornava alla tenuta di campagna. Era come se avesse bisogno di isolarsi dal mondo.”
“In fondo la capisco…” mormorò Riza, pensando alla piccola radura di betulle.
“Mia moglie, non riusciva a capire dei simili atteggiamenti e nemmeno io ad essere sinceri. Nostra figlia era una creatura irrequieta e difficile da gestire ed i momenti di tensione erano all’ordine del giorno. Quando aveva diciannove anni tua nonna iniziò a pensare che forse con un buon matrimonio si sarebbero risolti molti problemi: interpretava l’insofferenza di tua madre come esigenza di costruirsi una famiglia propria e così iniziò a presentarla a dei giovani di buona famiglia. Ammetto che pure io feci la mia parte: all’epoca la mia carriera nell’esercito stava avendo delle grosse spinte in avanti e se mia figlia avesse sposato qualche soldato di alto grado ne avrei tratto dei benefici.”
“Come se mia madre fosse un oggetto!” a quella dichiarazione Riza alzò gli occhi ambrati con profondo disgusto: adesso capiva perfettamente perché non le aveva mai parlato della sua famiglia.
“Non ci fu nessun matrimonio combinato – la bloccò lui – mia figlia aveva facoltà di scegliere e decise di respingere tutti, anche quelli che noi ritenevamo perfetti per lei. Alla luce di questo i litigi con tua nonna divennero ancora più violenti: si assomigliavano molto di carattere, sai. E poi, quando aveva circa ventuno anni conobbe tuo padre.”
“Si innamorarono?” chiese lei con sorpresa.
Grumman fece una smorfia a quella domanda.
“Amore, passione, desiderio di scappare… non chiedermi cosa sia passato per la testa di quei due quando si incontrarono. Credo le sia stato presentato da una delle sue amiche in uno dei momenti in cui eravamo in città. Nella famiglia di questa ragazza c’era un’alchimista che spesso raccoglieva intorno a sé altri esponenti di questa scienza. Nemmeno una settimana dopo lei annunciò che lo voleva sposare.”
“Una settimana?”
“Già, una settimana e con un perfetto sconosciuto…”
“E la famiglia di mio padre? – Riza scosse il capo – Tutti qui parlano di dissapori per via del matrimonio.”
“Ci furono infatti: noi non volevamo che nostra figlia sposasse quell’uomo e loro volevano avere a che fare il meno possibile con quel parente così strano e chiuso nei suoi studi. Il risultato concreto fu che nell’arco di pochi mesi tua madre scappò di casa e non lasciò nessuna traccia. Assunsi investigatori, feci delle indagini, ma si erano come volatilizzati.”
“Questa casa è della famiglia Hawkeye – protestò la ragazzina – potevate risalire a loro.”
“No, una simile proprietà non appare tra quelle della famiglia Hawkeye: ci arrivammo solo qualche settimana fa… era stata venduta, ma i nuovi proprietari erano morti poco dopo. Evidentemente solo tuo padre ne era a conoscenza e così portò qui Elisabeth che aveva sposato poco dopo la fuga.”
“E mamma non ha mai cercato… di mettersi in contatto con lei?”
“No – la voce si fece ancora più triste – considerati i litigi è anche normale che non lo fece. Mia moglie morì circa tre anni dopo la sua fuga: era stato un brutto colpo per lei e non si riprese mai. Col passare degli anni persi pure io le speranze, anche se non ho mai smesso di assumere investigatori… e due settimane fa, all’improvviso c’è stata la svolta.”
Riza abbassò il capo con aria pensosa: non le piaceva per niente quella versione così irrequieta di sua madre che le era stata appena presentata. La persona che conosceva era amorevole e premurosa e si era sempre occupata di lei, rendendole la vita felice. E, soprattutto, non riusciva a credere che lei e suo padre si amassero a tal punto da scappare assieme: non coincideva per niente coi suoi ricordi di un legame assente tra i due adulti. Berthold era un estraneo che sua madre considerava poco e niente.
Possibile che volesse solo scappare da quella vita? E che per questo si sia sposata con mio padre?
Qualcosa di umido le toccò la gamba e vide che Hayate la fissava con aria perplessa.
Cercò di sorridere per rassicurarlo, ma non ce la fece: in realtà qualcuno doveva rassicurare lei.
“Posso… – iniziò, cercando di spezzare quel silenzio – posso sapere che vi siete detti lei e mio padre?”
“Abbiamo parlato di tua madre – la voce di Grumman si era indurita – per quanto poco si sia degnato di dire quell’uomo. Non è cambiato affatto nel suo menefreghismo: Elisabeth è stata una sciocca… doveva saperlo che lei sarebbe stata la moglie e l’alchimia l’amante.”
“Le ha detto che si è ammalata?”
“Sì, non ne sono sorpreso del resto: è sempre stata fragile e presumo che la tua nascita l’abbia indebolita parecchio.”
Riza pensò alla foto che aveva nel suo comodino, dove lei era in braccio a sua madre. Più di una volta aveva notato il contrasto tra lei, paffuta e sana, ed il viso scavato della donna.
Come se tutte le sue energie le avesse date a me, lasciandosi solo quelle per trascinarsi avanti negli anni.
“Vi siete detti altro?” chiese ancora per allontanare quei brutti pensieri.
“Non è un buon padre, vero?” Grumman le fece quella domanda a bruciapelo e la ragazzina lo fissò con estrema paura.
No, non era un buon padre. Si parlavano pochissimo e se l’alchimia era l’amante che aveva scalzato sua madre, era anche la figlia che Riza non aveva potuto sostituire. Certo, non l’aveva mai aggredita o le aveva fatto mancare qualcosa…
E’ mancato semplicemente lui… tuttavia…
“E’ preso dai suoi studi, signore.”
Era una giustificazione? No, semplicemente era la verità.
“Capisco – sospirò l’uomo – mi basta vedere le condizioni di questa casa per intuire che razza di vita sei costretta a sopportare.”
“Cosa?”
“Ma tutto questo finirà, stai tranquilla. Ad East City andrà decisamente meglio.”
“East City? Ma signore, io non…”
“Ho chiesto a tuo padre di farti venire con me e lui non ha opposto resistenza. Mi dispiace solo di non essere arrivato in tempo anche per tua madre.”
Ma Riza non sentì quelle ultime frasi: il suo cuore aveva smesso di battere.
Signori Fury, per favore… dove siete?
 
“Kain, dai, siediti e stai calmo!” Ellie ridacchiò e poi abbracciò il bambino che si era appena riseduto accanto a lei.
“Non vedo l’ora di arrivare – dichiarò lui, felice – rimarranno tutti sorpresi, ne sono certo!”
Andrew sorrise nel vedere suo figlio così contento: la visita medica era andata meglio del previsto, tanto che i medici gli avevano levato il tutore con una settimana d’anticipo per sostituirlo con uno a fascia molto meno ingombrante. Anche la stampella era stata del tutto accantonata ed ora Kain poteva camminare con tutta tranquillità. Solo correre gli era ancora proibito, ma ancora per poco tempo: nell’arco di una settimana le sue gambe sarebbero state in grado di fare le prime corse, senza esagerare.
E a settembre resterà solo un segno bianco sulla coscia a ricordare quest’esperienza. Cielo, non mi pare vero, è il più bel miracolo del mondo.
I suoi pensieri si interruppero perché Kain si era di nuovo alzato e si era buttato addosso a lui. Non l’aveva mai visto così sovreccitato: la nuova libertà di movimento lo esaltava come mai era successo e stare fermo per lui era impossibile.
“Buono, giovanotto – ridacchiò, caricandoselo seduto sulle ginocchia – lo so che scalpiti, ma in treno devi fare il bravo. Risparmia le tue energie per quando arriveremo e ci saranno i tuoi amici ad attenderti.”
Lui parve calmarsi a quelle parole e si posò contro il suo petto con estrema soddisfazione. Andrew gli accarezzò la chioma corvina e lo sistemò in una posizione più comoda.
“Credi che a Riza piacerà il regalo che le abbiamo preso?” Kain si rivolse alla madre.
“Ma certo, tesoro. Vedrai le piacerà tantissimo.”
“Mamma, pensi che potrà vivere con noi un giorno?”
Una domanda che Kain non aveva mai fatto così esplicitamente e che lasciò i due adulti senza parole.
“Non è facile come sembra, figliolo – spiegò Andrew – lei ha già un padre, lo sai.”
“Lo so, ma credo che lei voglia te come papà e la mamma come mamma. Ti dispiace tanto come idea?”
“No, non mi dispiace, lo sai – l’uomo sospirò, mentre Ellie abbandonava il suo sedile per andare accanto a loro – e nemmeno alla mamma. E so bene che non dispiace nemmeno a te l’idea di averla come sorella.”
“Perché non la adottiamo? Mi sarebbe sempre piaciuta una sorella!”
Andrew lanciò un’occhiata alla moglie, ma Ellie assorbì il colpo meglio del previsto: Kain non poteva sapere delle conseguenze della sua nascita sul corpo della donna e la sua considerazione era priva di qualsiasi sottinteso. Tuttavia l’uomo capì che la moglie aveva maturato un grande cambiamento negli ultimi mesi: per lei ormai Riza era una figlia e il discorso di dove abitasse era qualcosa che si sarebbe prima o poi risolto.
E lui? Beh, lui adorava quella ragazzina: la riteneva dolce, coraggiosa, responsabile, si rendeva pienamente conto del bisogno d’affetto che aveva. Era arrivata timidamente nemmeno un anno fa eppure era come se facesse parte della famiglia da sempre.
Possiamo davvero permetterci di pensare tutto questo, Ellie? – si chiese, mettendosi a guardare il panorama che preannunciava il loro avvicinarsi al paese – Possiamo davvero sperare di avere quella bambina?
Come, una decina di minuti dopo, arrivarono alla stazione, il bambino li precedette nel scendere dal treno, ansioso di mostrare ai suoi amici le grandi novità.
“Ma come… non sono venuti?”
Come scese dal treno assieme ad Ellie, Andrew guardò la banchina dove stava solo Kain che girava la testa da una parte all’altra con aria smarrita.
“Strano – ammise – eppure ieri al telefono Roy ha detto che sarebbero sicuramente venuti.”
“Siamo partiti in orario, vero papà? Non abbiamo fatto ritardo.”
“No. Oh, dai, stai tranquillo. Avviamoci verso il paese: chissà, magari Roy ne ha combinato una delle sue e tutti gli altri stanno cercando di tirarlo fuori dai guai.”
“Va bene – si rasserenò il bambino – andiamo pure.”
Si diressero verso il paese con Kain che doveva frenare il suo entusiasmo per non cominciare a correre. Più di una volta Ellie lo dovette richiamare all’ordine, tanto che alla fine il bambino si rassegnò a prenderle la mano e a procedere con passo tranquillo.
Come arrivarono in prossimità delle prime case, videro una figura correre verso di loro.
“Elisa!” la riconobbe Kain con un gran sorriso.
La ragazza li raggiunse con il respiro ansante per la corsa.
“Finalmente siete tornati! – esclamò, mentre Kain la abbracciava con gioia – Per favore, dovete venire subito a casa di Vato, è importante.”
“Uh, ma che succede, cara?” chiese Ellie, notando lo sguardo preoccupato.
“E’ arrivato il nonno di Riza – spiegò lei – e pare che la voglia portare via con sé!”
A quelle parole Andrew sentì la mano della moglie afferrargli il braccio con violenza: nemmeno nel mezzo del parto di Kain gli aveva fatto così male. Ma il dolore fisico lasciò subito il posto all’incredulità.
“Dopo quattordici anni?” chiese, mentre si avviavano.
“Riza? – la voce di Kain, carica di terrore, lo fece ridestare – Oh no, papà, non la possono portare via! Tu lo impedirai, vero?”
“Stai calmo – lo rassicurò – adesso andiamo a sentire cosa è successo.”
Ma in cuor suo tremava davanti a quella nuova prospettiva.
E quando, poco dopo, vide l’espressione preoccupata di Vincent, ebbe conferma che la situazione era davvero grave.
 
Tre giorni.
Solo tre giorni.
Riza stava seduta nel suo letto, incapace di reagire davanti alla prospettiva di essere portata ad East City, lontana dai suoi amici e dalle persone che amava.
In cuor suo si rimproverava: stava accettando la cosa con estrema passività e se ne rendeva perfettamente conto. Ma era come se qualcosa fosse stata bloccata dentro di lei, come se qualcuno avesse spento un interruttore, impedendole di reagire.
Si girò a guardare la foto nel comodino.
Perché sta succedendo questo, mamma?
Ti dava davvero così fastidio che io volessi far parte della loro famiglia?
Ma prima che potesse pensare altro, Roy entrò nella sua stanza e la fece alzare.
“Andiamo.” mormorò impassibile, prendenola per mano.
“Dove?” chiese lei.
“Via da questa maledetta casa: sono tornati Kain ed i suoi genitori.”
A quelle parole silenziose lacrime iniziarono a colare sulle sue guance. Un’estrema sensazione di sollievo le percorse tutto il corpo, tanto che non riuscì a proferir parola mentre Roy la conduceva per le strade del paese, fino a casa di Vato.
Ma quando vide Ellie, il silenzioso pianto divenne una vera e propria tempesta.
“Non voglio! – singhiozzò aggrappandosi a lei – Non voglio!”
“Andrà tutto bene – la consolò la donna – stai tranquilla, piccola mia.”
“Non glielo permettere – supplicò a voce bassa – per favore… per favore, mamma…”
L’ultima parola fu un sussurro che sentì solo Ellie.
  
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