Il destino di Qayin
Bengiamino
e Chiara avevano lasciato la festa dopo qualche bicchiere di vino,
stufi di avere intorno soltanto gente ubriaca che intonava coretti
stupidi e che rendeva una tranquilla serata tra amici un autentico
incubo. Avevano svicolato ogni tavolo, uscendo in perfetto silenzio,
senza però evitare di sgraffignare una bottiglia di vino da bere
in pace. Seduti sul Pantheon, più precisamente sul retro della
struttura, si erano presi del tempo per rinfrescarsi le idee.
Erano successe così tante cose, nell’Ordine, da riempire interi annali.
Con i piedi a ciondoloni in quei pochi metri di vuoto che li separavano
dalla strada, Chiara dondolò il capo più volte,
aspettando che Bengiamino le passasse la bottiglia di vino per
prenderne un sorso a sua volta.
«Credo ne avranno fino a domani mattina», commentò,
divertita, mentre con le dita stringeva il collo di vetro del
recipiente. «Corella e Cristiano si sono davvero scatenati. Non
pensavo sarebbero arrivati a bere tanto!»
Alzò le spalle, felice di trovarsi lontana dal trambusto
dell’osteria. Lontana dal trambusto e in ottima compagnia, per di
più.
Da quando Machiavelli li aveva divisi, raramente riusciva a trovare del
tempo da passare da sola con Bengiamino e avrebbe mentito negando che
non le fossero mancate, le loro nottate passate sui tetti a fare il
turno di ronda.
«Credi che domattina riusciranno a tirarsi in piedi?»,
chiese ingenuamente, prendendo un altro sorso di vino, senza accennare
a passare la bottiglia al suo compagno. «Voglio dire, Corella
forse è abituato, ma Cristiano mi pareva alquanto distrutto,
quando ha cantato quella ballata in piedi sul tavolo.»
Senza attendere più, Bengiamino le sfilò il vino dalle
mani, prendendo un sorso più generoso di quelli precedenti.
Passò il dorso della mano sulle labbra, così da eliminare ogni goccia prima di rispondere.
«Cristiano sopravvivrà, promesso», disse con tono
divertito. Arrischiò addirittura un sorriso verso la ragazza,
complice il vino che l’aveva sciolto e l’intimità
creatasi fra loro. «Mi preoccupa di più Spallaci. Zitto
zitto in un angolino, ha seccato ben tre bottiglie di lambrusco. Non so
se domani mattina sarà in grado di intendere e di volere.»
«Oh, poverino!»
Chiara chinò il capo in avanti, forse un po’ troppo
dispiaciuta per l’amico romano. Non si erano mai voluti bene, ma
lei non lo odiava di certo e non avrebbe mai augurato del male a un suo
compagno.
Sospirò, scrollando appena i riccioli biondi che le cadevano
liberi sulle spalle e sull’abito lilla che aveva indossato.
Quando poteva togliersi di dosso la divisa, era più che felice
di tornare ai suoi vestiti di morbida stoffa che sua madre le aveva
confezionato prima della partenza. Odoravano di casa e della pittura
che occupava il laboratorio di suo padre.
Persa a ricordare Firenze, si rese conto troppo tardi di essersi fatta
improvvisamente taciturna, cosa che sapeva benissimo non essere da lei.
Si attaccò quindi al braccio di Bengiamino, mostrandogli un
sorriso felice come a rassicurarlo di tutto quel silenzio, e disse:
«Restiamo qui tutta la notte?»
«Possiamo fare ciò che desideri», rispose lui
pacato, passandole la bottiglia di vino prima di riportare gli occhi
sul cielo nuvoloso della notte.
La luna non riusciva ad affacciarsi bene oltre le nubi ma, stranamente
per quella stagione, non faceva freddo. Forse il vino contribuiva a
scaldarli, ma quello sembrava più un clima marzolino che di fine
novembre.
Il ragazzo si passò una mano sul collo, dondolando appena le gambe.
«Possiamo anche andare a fare un giro, o possiamo tornare al Covo. A te la scelta.»
«Voglio stare qui.»
La risposta le uscì dalla bocca così velocemente che
Chiara non poté fare a meno di arrossire per la risolutezza con
cui pronunciò quella parole.
Imbarazzata, lasciò la presa attorno al braccio di Bengiamino,
correndo a sistemare una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
«Sempre che ti vada, naturalmente», aggiunse, timida.
Attese quel poco che le bastò per comprendere che non sarebbe
arrivata alcuna risposta e si mise a frugare nella borsa che portava a
tracolla su un fianco.
«Ho una cosa per te», farfugliò, mentre le sue mani viaggiavano nella sacca alla ricerca del suo obiettivo.
Bengiamino, che con il suo silenzio pareva solo sottolineare che andava
davvero bene qualsiasi cosa, la guardò frugare freneticamente
nella piccola sacca. Si sporse, curioso, alternando lo sguardo dal viso
della ragazza fino alle sue mani che si muovevano così veloci da
apparire quasi invisibili.
Chiara trovò quel che stava cercando dopo innumerevoli tentativi
che la portarono ad estrarre pennelli, vecchi fogli da disegno e
qualche mozzicone di matita.
«Eccola!», disse, porgendo al suo compagno un sacchetto
nero. «L’ho disegnata per te. Mi sono fatta aiutare dal
Mentore e da Messer Leonardo per assemblare i pezzi … spero
funzioni.»
Attese composta che Bengiamino liberasse il sacchetto dal nastro scuro
che lo chiudeva e che facesse scivolare tra le sue mani la lama appena
forgiata che Chiara vi aveva risposto qualche ora prima,
dopodiché passò alle spiegazioni.
«Funziona come le lame celate del Mentore», disse,
sorridendo estasiata dal suo stesso meccanismo. «Ma è da
applicare al piede, così avrai le mani libere per usare la
balestra. Si aggancia al polpaccio e la si fa scattare con una corda.
Purtroppo non sono riuscita a perfezionare la chiusura, ma prometto di
lavorarci sopra, quando questo allenamento sarà finito.»
Il moro rimase senza parole.
«Oh, cavolo.»
Ciò che aveva tra le mani, sembrava qualcosa di estremamente complesso e incredibilmente unico.
«Dovrebbero prenderti come ingegnere bellico, più che come
Assassina», le disse con un sorriso, realizzando troppo tardi
l’ambiguità di quelle parole. «Voglio dire, sei
un’ottima Assassina, ma in questo ti superi!»
Chiara arrossì, distogliendo lo sguardo dalle mani di Bengiamino per farlo vagare libero sul cielo notturno di Roma.
«Mi piace inventare le cose», confessò con una
smorfia poco convinta. «Le immagino, le disegno … le
costruisco, a volte. Le persone come te mi danno ispirazione.»
Si voltò verso di lui, stavolta schiudendo le labbra un sorriso
più sincero, più felice. Si pettinò i capelli
dietro le orecchie, congiungendo poi le mani in grembo.
«Consideralo un piccolo ringraziamento per tutte le volte che mi
sei stato vicino», cinguettò. «Se non fosse stato
per te, avrei chiesto io stessa di essere rispedita a Firenze molto
tempo fa.»
«Chiara, non so davvero cosa dire.»
Bengiamino si rigirò l’arma fra le mani, prima di provare
ad assicurarla allo scarpone. Fece un paio di tentativi, notando che,
pigiandola a terra, la lama rientrava alla perfezione.
Provò a fare uno scatto, saltò sulla cupola del monumento
e poi tornò da Chiara, sedendosi con un piccolo tonfo accanto a
lei.
Poi fece qualcosa che mai e poi mai aveva fatto prima: la strinse in un abbraccio che di forzato non aveva nulla.
Estasiata dalla grazia con cui il ragazzo era balzato da una parte
all’altra del Pantheon senza muovere null’altro che
l’aria attorno a sé, Chiara si lasciò stringere
contro l’armatura scura di Bengiamino, appoggiando la guancia sul
metallo lucido degli spallacci.
Ridacchiò nervosamente, allungando appena le mani per tentare di
ricambiare quell’abbraccio ma trovando le spalle del suo compagno
inaspettatamente troppo alte per la sua statura minuta. Si
accontentò così di accoccolarsi contro di lui per
aspettare che l’abbraccio si sciogliesse da sé.
«Voglio tornare a lavorare con te», piagnucolò, non
appena la presa di Bengiamino si allentò quel poco che bastava
per farla tornare diritta. «Non sono a mio agio, con gli
altri.»
«Siete una bella squadra, però. Io mi divertirei, al tuo
posto.» Il ragazzo arrischiò un sorriso, sollevando una
gamba e poggiando il piede sul bordo, mentre l’altro rimaneva a
penzolare nel vuoto. «Dopotutto siamo sempre insieme, no?»
«Sono stanca», sbottò sottovoce Chiara, premendo le
ginocchia contro il petto e raccogliendosi su se stessa. «Non
vedo l’ora che questo allenamento finisca e che il Mentore
allenti la presa.»
Sospirò, spostandosi l’ennesima ciocca bionda dal viso.
Sentiva improvvisamente addosso il peso di tutte quelle settimane perse
a maneggiare la spada e a saltare da un tetto all’altro senza
neanche il tempo di riprendere fiato. Non faceva per lei, quel ritmo
frenetico. La sera arrivava nella camerata talmente stravolta che
crollava senza neanche rendersene conto sul materasso ed erano le
altre, a doverle rimboccare le coperte.
«Quando Ezio ti sceglierà, rimarrò da sola», mormorò, imbronciandosi appena.
Era stata così dura, farsi un amico tra tutte le persone del Covo. Non le andava di ricominciare tutto da capo.
Lui la guardò negli occhi, prima di farsi più vicino e portarle un braccio attorno alle spalle.
«Chi ti dice che non sceglierà anche te? Ti stai
impegnando molto e hai idee brillanti. Un Assassino non si basa solo
sulla rapidità o sulla forza, ma anche sul modo che ha di
aggirare gli ostacoli. Non dovresti abbatterti prima del tempo.»
Chiara sorrise, arrossendo un poco quando gli occhi di Bengiamino
indugiarono nei suoi. Scosse appena il capo, congiungendo le mani in
grembo e stringendole con fare nervoso.
Non riuscì a trovare nulla da dire, restando con le labbra
socchiuse in un mezzo sorriso mentre pensava e ripensava a qualcosa di
intelligente con cui commentare le affermazioni del ragazzo.
Poi, abbandonando di colpo ogni intelletto, mosse il viso in avanti e
gli schioccò un bacio fugace sulle labbra, ritraendosi
immediatamente con un verso di sorda vergogna.
Si sentì avvampare.
«Io …», farfugliò, coprendosi il viso con le
mani e distogliendo lo sguardo. «Bengiamino, scusami. Non so che
mi è preso.»
Lui, però, parve molto più tranquillo di lei.
Abbozzò un sorrisetto intenerito, mentre le scostava i capelli dal viso.
Poi, senza aggiungere una parola, si chinò su di lei e la baciò.
Fu un bacio di partenza, molto dolce. Le loro labbra si sfiorarono
appena e fu come un tuono. Poi lui si fece più vicino, portando
una mano tra la chioma bionda della ragazza, mentre l’altra
scendeva per afferrarle il fianco.
Chiara si lasciò stringere in un altro abbraccio, stavolta
più caldo e più gagliardo, e portò entrambe le
mani sul viso di Bengiamino, accarezzandolo piano mentre accettava di
buon grado ogni singolo bacio che lui le riservava. Indugiò
appena sulla barba sottile, sui lineamenti spigolosi del volto, sul
naso che premeva contro la sua guancia morbida.
Si staccò dopo un istante, poggiando i palmi aperti sul petto di
Bengiamino e restando immobile a osservare le sua espressione,
estasiata.
Fronte contro fronte, rimasero a guardarsi.
«Avanti, Alessandro. Manca ancora una rampa di scale.»
Era incredibile come quel ragazzo divenisse più pesante a ogni passo che compivano verso la camerata.
L’aveva trovato ubriaco all’osteria, completamente
abbandonato dai suoi compagni che probabilmente erano più
sbronzi di lui e, dopo una buona dose di fatica per tirarlo in piedi,
l’aveva letteralmente trascinato fino al Covo.
Durante tutto il tragitto, Corella non aveva fatto che canticchiare
motivetti dal dubbio gusto circa le cosce delle prostitute di Roma,
alternando quelle canzoncine a qualche apprezzamento sulle forme di
Laura.
Mai come in quella notte, la milanese era stata tentata di lasciarlo da solo a vagare per le strade dell’Eterna.
Nonostante tutto, comunque, era riuscita a spingerlo fino al Covo, a
farlo entrare dalla porta sul retro e a fargli salire il primo gradino
di quella che sarebbe stata la scalinata più lunga della sua
vita.
«Andiamo, gli altri saranno già tutti nei loro letti!», lo rimproverò, affranta.
L’ultima cosa di cui aveva voglia era una lavata di capo per qualcosa di cui, peraltro, non aveva colpa.
Neanche a dirlo, Corella non pareva dello stesso avviso. Con una botta
improvvisa di pazzia, si afferrò ad entrambi i corrimani e prese
a correre in modo disordinato fino all’ultimo piano, superando
così quello dei dormitori. Scivolò non appena finiti i
gradini, rotolando per il salone e continuando a sbraitare frasi senza
alcun senso logico.
Grazie a Dio, Machiavelli non c’era e sicuramente Ezio non
avrebbe detto nulla, abituato com’era alle stranezze di
Alessandro.
Laura sospirò, alzando la veste quel che bastava per percorrere gli ultimi gradini e raggiungere Corella nel salone.
«Alessandro!», lo chiamò, chinandosi su di lui e
afferrandolo per i baveri della camicia. Rimase un istante a guardarlo,
preoccupata, accertandosi che non si fosse fatto del male.
«Andiamo», sospirò, poi, offrendogli la mano per
farlo rialzare. «Non dovremmo neanche essere qui.»
Avrebbero dovuto essere da un pezzo nei loro letti, già
addormentati e pronti alla levata mattutina che sarebbe seguita. Con
tutto quel sonno che il ragazzo le stava facendo perdere,
l’indomani non l’avrebbero svegliata neanche gridando alla
guerra.
Lui le prese la mano, ma solo per approfittare dell’effetto
sorpresa e trascinarla su di sé. Prese ad accarezzarle la
schiena, le gambe, sollevando la gonna e cercando in ogni modo di
baciarla.
«Andiamo, Laura, non fare la riottosa», sibilò, facendole venire il voltastomaco.
Il suo alito era vino puro.
Se avesse vomitato, avrebbero potuto riempire damigiane per giorni e giorni.
Cercò di tenerla stretta a sé in ogni modo, rivelandosi parecchio sveglio, per uno sbronzo.
Laura si trattenne dal colpirlo con quanta forza aveva nelle braccia
per il solo fatto che picchiare un ubriaco sarebbe stato disdicevole
persino in quella situazione. Gli piantò quindi le mani sul
viso, spingendolo quel tanto che bastava perché i loro visi
tornassero a una distanza accettabile.
«Finiscila!», gridò, buttandosi all’indietro
per allontanarsi definitivamente da lui. «Sei davvero uno
stupido, Alessandro!»
Con le mani finalmente libere, si risistemò la gonna,
asciugandosi quell’unica lacrima di stizza che le solcava la
guancia. Nella foga, un ciuffo di capelli scuri si era staccato dalla
treccia che portava legata sulla nuca e ora penzolava disordinato sulla
sua spalla.
Corella la guardò con un piccolo broncio infantile, come se con
quel rifiuto lei l’avesse in qualche modo ferito. Si mise seduto,
sospirando affranto prima di recuperare le energie e barcollare fino
all’ufficio di Machiavelli.
La porta era chiusa a chiave, una piccola precauzione presa dal
consigliere per tenere gli Assassini lontani dai suoi affari, ma quella
premura non servì a nulla.
Alessandro scardinò l’uscio con una spallata, entrando
dentro e buttandosi letteralmente sullo scrittoio, facendo cadere libri
e carte dall’aria importante.
Al solo vedere quella scena, Laura impallidì.
Su qualche bisticcio sul corridoio Ezio poteva anche chiudere un
occhio, ma su quello … forse non sarebbe stato il Mentore, ad
arrabbiarsi, ma di certo ci avrebbe pensato Machiavelli.
Rapida come non mai, scattò verso lo studio del consigliere, chiudendosi la porta alle spalle come meglio poté.
L’indomani, avrebbe chiesto a Bengiamino di aiutarla a ripararla.
Gemendo dinanzi al macello che Corella aveva combinato buttandosi sullo
scrittoio, prese a raccogliere i documenti sparsi sul pavimento,
raggruppandoli come meglio poteva e sperando vivamente che Machiavelli
non li avesse disposti con un preciso ordine. Speranza vana, se lo
sentiva.
Ma Alessandro non pareva ancora soddisfatto.
Calciò via gli stivali che volarono in tutte le direzioni
possibili, prima di barcollare fino ad una seconda porta, che dava
sull’alloggio privato di Machiavelli.
Quella, che non era chiusa a chiave, si aprì immediatamente,
facendolo volare in terra per la seconda volta nel giro di dieci minuti.
Arrancò fino al letto, spogliandosi da ancora steso e quindi ottenendo un pessimo risultato.
Per l’ennesima volta in quella serata, Laura si diede della
stupida per aver aiutato un compagno a tornare a casa da una festa in
osteria. Si ripromise di non farlo mai più.
«Alessandro», chiamò, sempre più spazientita,
raggiungendolo nella camera da letto. «Non avrai intenzione di
metterti a –»
Le parole le morirono in gola lo vide sfilarsi goffamente i calzoni.
Senza poter far niente per impedirlo, le sue guance si accaldarono,
mentre il pudore la obbligava a distogliere lo sguardo dalla visione di
Alessandro che rotolava su un fianco per liberarsi anche della blusa.
«Vieni», biascicò, avvicinandosi ma tenendo lo
sguardo sempre ben piazzato sul pavimento. «Dobbiamo andarcene da
qui, prima che ci scoprano.»
«Prima che ci scopano?»,
domandò stranito il ragazzo. Poi sembrò realizzare
qualcosa che solamente la sua mente poteva comprendere. I suoi occhi
presero a scintillare di pura malizia, mentre si appoggiava a Laura con
i calzoni alle caviglie e la camicia aperta sul petto. Le prese il
mento tra le dita, ammiccate. «So cosa potremmo fare qui, mia
cara. Paola trova questo letto comodo, visto tutto il tempo che ci
passa. Vogliamo provarlo?»
A quel contatto, Laura rabbrividì. Rabbrividì non
perché Corella la spaventasse, o perché quella situazione
sapeva di surreale, ma perché il tocco delle dita del ragazzo
sulla sua pelle era ciò che aveva sognato segretamente nelle
ultime settimane. Da quando lui si era avvicinato a Bengiamino, il
bisogno che Laura sentiva di stargli accanto non aveva fatto che
crescere.
E lei, con il bacio alla festa, aveva detto addio a ogni suo freno.
«Tieni i tuoi squilibri per te!», balbettò,
allontanandosi da lui seppur di malavoglia. «Se Machiavelli ti
vedesse nudo sul suo letto ti strapperebbe le viscere seduta
stante!»
«Andiamo Lauretta!» Un po’ a fatica, Corella
scalciò via i pantaloni, seguendo poi la giovane per la stanza.
«Machiavelli è a Firenze e non tornerà mai
più! Ci odia!» Rischiò di sbilanciarsi
all’indietro un paio di volte, ma alla fine la raggiunse.
«Ti prego, vieni a letto con me. Dalla festa dei Borgia non
faccio altro che pensarti! Ormai non guardo nemmeno più come una
volta il seno di Paola! Dovrà pur valere qualcosa!»
Quelle parole la bloccarono nel mezzo della stanza, togliendole la forza per continuare a camminare fino all’uscio.
Alessandro la pensava.
Per poco il suo cuore non mancò un battito.
Mentre Laura si voltava, la sua espressione si addolcì un poco,
sebbene il suo sguardo rimase sempre fisso sulla punta delle scarpe.
Timidamente, lasciò che le dita di Corella si intrecciassero con le sue.
«Prometti di non saltarmi addosso?», mormorò, ancora rossa in viso.
Lui le sorrise con dolcezza, tirandola piano verso il letto, prima di sospirare rassicurante.
«No, non prometto niente.»
Furono le sue ultime parole, prima di cadere sul materasso con una risatina, tirandola su di sé.
Laura non seppe mai cosa scattò in lei.
Arrivò a sfiorare con i gomiti il materasso che già le
sue mani stringevano il viso di Corella, mentre le sue labbra gli
baciavano la bocca con una passione ben diversa da quella che aveva
sperimentato sui tetti qualche sera prima.
Per la prima volta, si ritrovava a provare del vero desiderio nei confronti di qualcuno.
Non arrivò a realizzarlo appieno, poiché sotto una lieve
spinta di Corella si ritrovò con la schiena sul materasso e con
lui a cavalcioni sui suoi fianchi.
Anche se avesse voluto, in quell’istante le sue labbra non si
sarebbero scattate da quelle del ragazzo per niente al mondo. Neanche
per rimproverarlo del fatto che, se li avessero scoperti, a Venezia ce
li avrebbero spediti a piedi.
Cristiano
rotolò tra le lenzuola, affondando il viso nell’unico
cuscino della branda quando i primi raggi del sole provarono a destarlo.
Era tornato tutto solo nel cuore della notte, in fin dei conti neanche
troppo ubriaco, e la prima cosa che aveva fatto era stata addormentarsi
sulla panca quando si era seduto per sfilarsi gli stivali sporchi di
fango.
Alla ricerca di una tazza di latte da bere prima di coricarsi
definitivamente, Violante aveva raccolto ciò che era rimasto di
lui e lo aveva portato nel dormitorio deserto, arrivando persino a
rimboccargli le coperte prima di metterlo a letto.
Il resto, poi, lo aveva fatto la notte.
Senza svegliarsi, Cristiano si mosse ancora sotto le coperte, avvicinando il capo a quello di Violante.
La bolognese non percepì subito quel gesto leggero. Reduce
com’era da una notte quasi insonne passata a parlare con il
Mentore, pareva più propensa a continuare a dormire piuttosto
che a destarsi.
Peccato che qualcosa – o meglio, qualcuno – la pensasse assai differentemente.
La porta si spalancò, sbattendo contro al muro con un tonfo sordo.
Violante scattò seduta, guardando con gli occhi sbarrati Maria che quasi ansimava per la rabbia.
Gli occhi della modenese erano passati da un letto all’altro,
trovandoli tutti vuoti così come quelli delle ragazze. Violante
sapeva che, ad eccezione di Paola, nessuna di loro aveva fatto ritorno,
così come i loro colleghi.
«Chiunque sia ancora vivo, morirà per mano mia!»,
disse risoluta Maria, ringhiando per la rabbia, prima di uscire
sbattendo la porta di nuovo.
Non li aveva degnati di uno sguardo.
Con lo sbattere della porta, Cristiano si svegliò di
soprassalto, balzando a sedere quasi Machiavelli stesse urlando il suo
nome. Si guardò attorno ai limiti dello spavento, stropicciando
con foga gli occhi azzurri prima di sistemare almeno in parte la nuvola
di riccioli biondi che gli coprivano disordinatamente la vista.
Si voltò poi verso Violante, ancora più stranito di prima.
«Che è successo?», borbottò, scivolando di nuovo sotto le coperte.
Di certo non era nella sua forma migliore, no.
Allargò le braccia, invitando Violante a raggiungerlo accanto a
sé. Evidentemente, non aveva idea del fatto che il sole fosse
ormai sorto. O, più semplicemente, non voleva curarsene.
Viola accettò di buon grado l’invito, appoggiandosi con la
guancia alla sua spalla e richiudendo gli occhi, coccolata dal profumo
del ragazzo.
«Maria ha notato che ieri sera sei tornato solamente tu.»
La sua risposta non fu nulla più di un mormorio assonnato, come
se la ragazza stesse disperatamente cercando di riprendere sonno.
Non era da lei, visto quanto fosse genericamente mattutina.
L’idea però di farsi vezzeggiare così da Cristiano
era più allettante di qualsiasi altra cosa.
«Sono tutti dispersi …»
Sentì il cuore di Cristiano perdere un battito.
«Oh», commentò poi il ragazzo, mordendosi
nervosamente le labbra. «Ora che ci penso abbiamo lasciato
Corella all’osteria che non si reggeva in piedi e reclamava
piangendo il seno di Paola. Chissà poi dov’è finito
Spallaci.» Ridacchiò lievemente, tirandosi sui gomiti per
abbracciare più comodamente le spalle di Violante. Nello
spostarsi, non mancò di baciarle i capelli castani.
«Piuttosto. Ieri sera ci siamo chiesti dove fossi
scomparsa.»
«Corella è sempre così monotematico», fu il
solo commento di Viola, mentre il biondo si sistemava al meglio. Si
riaccoccolò contro di lui, appoggiandogli il mento alla spalla e
fissando la federa del cuscino. «Ho parlato con Ezio della spia,
poi sono rimasta qui. Non mi andava di venire con voi a bere, mi
sentivo stanca e, onestamente, le urla di Machiavelli mi assordavano
ancora le orecchie. Non hai idea di dove sia Chiara? Con Bengiamino,
immagino, ma dove? Nella nostra camerata hanno dormito Paola, Maria e
Cesco.» Sicuramente il Conte aveva cambiato stanza per non
disturbare lei e Cristiano, ma su questo sorvolò. «Manca
anche Spallaci all’appello, ma lui sarà a casa da sua
madre.»
«Lo penso anche io», ridacchiò Cristiano, prendendo
a giocherellare con una ciocca della ragazza. Arricciava i capelli
sulle dita e poi li lasciava andare, seguendo il loro percorso sulla
schiena nuda di Violante. «Mancano anche Corella e Laura,
allora», rispose, poi. «Bengiamino e Chiara se ne sono
andati sul più bello. Dubito si siano cacciati nei guai.»
Sospirò, appoggiando il mento sulla testa della ragazza.
«Ma che ci importa, in fondo?», disse poi, senza nascondere
una nota di malizia nella sua voce. «Ci siamo io e te; non
dobbiamo preoccuparci per loro.»
Per risposta, lei si tirò la coperta fino al mento, arricciando
le labbra e mostrando così come non si trovasse assolutamente
d’accordo con lui.
«Se fossero in pericolo? Ci hai pensato? Forse li hanno presi i
Templari. Il repertorio di canzoni che Corella canta da ubriaco
è tutto fuorché discreto …»
Fece per alzarsi, ma Cristiano la trattenne.
Una marea di brividi prese a risalirle la schiena, quando lui le morse piano la spalla.
«Cristiano, andiamo. Potrebbero essere davvero nei guai», disse, facendo una modesta resistenza.
«Se fossero nei guai», le rispose pacato il biondo,
baciandole piano la pelle della schiena. «Potrebbero contare su
una squadra di Assassini più cocciuti di un ariete.»
Portò le mani sui fianchi della ragazza, risalendoli lentamente
prima di arrivare ad accarezzarle il seno. «Sono in una botte di
ferro.»
Passò il naso sulla schiena di Violante come a invitarla a
voltarsi verso di lui, mentre il suo respiro si alterava un poco,
appesantendosi con le sue mani che continuavano ad accarezzarla.
Si scambiarono un lungo e voluttuoso bacio, mentre lui la faceva
distendere sotto di sé e iniziava a scendere con il capo,
accarezzandole con le labbra il collo e le spalle, sino al petto che si
alzava e abbassava velocemente a causa del respiro accelerato.
Violante si lasciò del tutto andare, sospirando, fino a che la porta non si aprì nuovamente.
Maria li fece rivestire in fretta e furia.
Gli altri andavano trovati, e alla svelta.