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Autore: TheHeartIsALonelyHunter    09/05/2014    2 recensioni
La sua mano che correva al fianco magro, le sue mani smilze che le rivolgevano le palme, che le porgevano il coltello con uno sguardo di dolce ingenuità.
“È tuo, credo” aveva commentato, in un tono tanto candido e civettuolo che per un istante Clove aveva sentito la rabbia montarle alla testa e bollirle il viso, forte e corroborante, sua benzina e sua forza motrice da sempre.
[Partecipa al contest a turni "1 su 24 ce la fa!" indetto da ManuFury e ha vinto il premio speciale "Squadra del cuore"]
Genere: Dark, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Cato, Clove, Rue
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie '1 su 24 ce la fa!'
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Nick sul forum/ Nick su EFP (segnalare quello che si vuole avere sul Banner): TheHeartIsALonelyHunter
Tributo: Clove
Turno:3
Titolo Storia:Brame (Need)
Pacchetto (se presente):
Genere: Introspettivo, Dark
Rating: Giallo
Avvertimenti: What if?
Pairing (se presente): Accenno CatoClove
Note (facoltative): Rue me la sono immaginata, secondo il punto di vista di Clove, incredibilmente lecchina: si mostra carina all'intervista, fa tanto la brava bambina... Insomma, lei è il suo opposto, la sua antitesi, per questo sente in un certo senso il desiderio di eliminarla. Ma allo stesso tempo la vuole morta perchè lei le ricorda ciò che avrebbe potuto diventare se la sua vita non fosse stata programmata sin dall'infanzia. La sua presenza la urta perchè, appunto, lei non vuole essere come lei, ma allo stesso tempo sa che sarebbe divenuta così probabilmente. Ucciderla è, in un certo senso, la negazione di questo fatto, ovvero che anche lei, in fondo in fondo, è un essere umano

La pressione del coltello sulla gola diveniva ogni istante più forte, il sospiro faticoso del nemico a terra sempre più affannato, i suoi singhiozzi sempre più patetici.
Un sorriso lieve le increspò le labbra, e il suo pollice andò a carezzare con delicatezza la lama dell’arma, con l’amore di una madre che accarezza il figlio, sfiorando senza che se ne accorgesse il collo della vittima. I suoi occhi brillarono malignamente quando sentì, sotto la pressione delle sue dita, la ragazzina deglutire rumorosamente.
Gesti che si ripetevano ogni volta, replicati, continui, monotoni, come un rituale ormai prestabilito, un film  visto tanto da saperlo a memoria, una canzone ascoltata fino alla nausea.
Pressione.
Sospiro.
Singhiozzi.
Così si erano comportati i ragazzini dell’8, il pappamolle del 5, lo scemotto del 7, tutti crollati sotto le sue mani fatali, caduti sotto i colpi di un coltello non suo.
Ricordava il sorriso che gli aveva rivolto nel Centro di Addestramento, tentativo malriuscito di sembrare cordiale, sorriso infimo di una perdente che davvero crede di poter mischiarsi con una vincitrice, quando gliel’aveva porto, forse con la speranza di entrare nelle sue grazie, di farsi portare almeno oltre la Cornucopia. O forse tentando solo di essere gentile.
La sua mano che correva al fianco magro, le sue mani smilze che le rivolgevano le palme, che le porgevano il coltello con uno sguardo di dolce ingenuità.
“È tuo, credo” aveva commentato, in un tono tanto candido e civettuolo che per un istante Clove aveva sentito la rabbia montarle alla testa e bollirle il viso, forte e corroborante, sua benzina e sua forza motrice da sempre.
Ma si era costretta a un sorriso neutro di circostanza e a un’occhiata penetrante e fredda.
“È del mio amico Cato, in verità”. Distaccata, glaciale, cupa. Nessun’emozione. Nulla che potesse tradire un particolare stato d’animo. Così le avevano insegnato.
Lo stomaco le si contorse dolorosamente al pensiero che, se fosse stata cresciuta come Rue era stata cresciuta, probabilmente si sarebbe trovata lei in quella situazione: un sorriso fintamente dolce, lo sguardo fintamente sottomesso di chi vuole un alleato, infanzia strappata via a morsi e sputata in un angolo, la mano dalla parte della lama, la mano scheletrica che tendeva un coltello con cui avrebbe potuto facilmente colpirla.
Il pensiero la pervase tutta come un’onda e le riempì il corpo di nuova rabbia cieca: non era stata allevata per essere una Rue, ma per essere una Clove, per essere l’assassina che era diventata, non una ragazzina che saltellava da un albero all’altro, per essere una vincitrice, non una perdente. Un perdente come suo nonno.
Un ultimo sorriso da parte di Rue.
Clove afferrò il coltello senza proferire parola, stringendo le labbra in quella che parve divenire un’unica linea retta.
Trattieniti.
Gli Hunger Games non erano ancora cominciati…
Pressione.
Sospiri.
Implorazioni.
Così, almeno, era stata abituata.
Era quasi penoso vederla sostenere il suo sguardo, tentare di opporsi a lei, guardarla con gli occhi pieni di una forza che, Clove lo sapeva, quella ragazzina non aveva. La stessa forza che le aveva visto sfoggiare nel primo istante in cui l’aveva notata, in quei nastri ormai dimenticati in un angolo della sua camera a Capitol City, il suo viso spavaldo durante la Mietitura, il sorriso di chi è in posizione di sfidare, il sorriso di chi è in posizione di vincere.
“Un concorrente in meno a inizio gara”, l’aveva definita Cato appena l’aveva vista alzare la testa con sguardo penetrante sulla folla del distretto 11, sicura e fiera, in un’imitazione pallida dell’algidità di una regina, pretenziosa come poche ragazzine che ricordava aver visto negli Hunger Games.
Era stato quello il suo primo pensiero, il primo lampo fugace che le aveva attraversato la mente vedendola su quel palco, il primo che le aveva fatto comparire quel sorriso storto di chi sa di giocare in casa.
Lei non si era mostrata diversa da ciò che era. Lei non aveva finto di non essere un’assassina a sangue freddo, lei non aveva finto di non sapere che quegli Hunger Games li avrebbe vinti lei. Clove non aveva finto di sperare di potersela semplicemente cavare come Rue.
Eppure quella ragazzina era sopravvissuta al Bagno di Sangue e alla Cornucopia, non era stata così stupida da accendere un fuoco nel bel mezzo della notte né così impavida da far crollare un nido di Aghi Inseguitori sulle loro teste, non si era meritata la sua attenzione né aveva guadagnato il suo odio.
Quella ragazzina non le aveva fatto nulla.
In teoria.
In pratica la sola idea che quello sgorbio fosse ancora vivo la faceva sentire incompleta, il pensiero che in quella foresta con lei ci fosse anche quella che aveva data per spacciata dal primo istante la rendeva folle dalla rabbia, l’immaginare le sue mani intorno al coltello che tante volte Cato aveva stretto tra le mani senza sapere quali mani profane avessero osato toccarlo riempiva i suoi sogni di ombre nere tra i riflessi bianchi degli occhi di chi aveva ucciso.
Non l'aveva provocata in alcun modo, eppure Clove la odiava di un odio profondo, tanto radicato che non desiderava altro, ormai, che affondare il coltello nella sua gola, sentire il suo sangue bagnarle le mani, azioni compiute più volte ma in quel caso così speciali...
Desiderava la sua morte come non aveva mai desiderato la morte di nessuno: era un bisogno estremo come quello di respirare, era un’idea fissa come un chiodo nella sua testa, era un obiettivo che neppure i sorrisi e gli sguardi di intesa di Cato potevano far vacillare.
Forse era l'odio per la falsità che quella bambina le ispirava da quel intervista che le bruciava in petto come una meteora; forse era la sfrontatezza con cui si era presentata sul quel palco a irritarla come null'altro l'aveva mai irritata; forse erano quelle due componenti insieme che la uccidevano ogni giorno di più dalla voglia di macchiarsi la pelle del suo sangue; forse era una sfida personale che Clove si era imposta senza saperlo; forse era l'idea, fissa e sempre più fastidiosa che, in fondo, Rue era ciò che lei avrebbe potuto divenire.
E la sola idea che ci fosse qualcos'altro oltre quello che già era non rientrava nei suoi progetti.
Soffocare la sua voce sarebbe stato come soffocare la voce nella sua testa che, con forza, le ricordava ogni giorno che "lei poteva essere migliore di così".
Ma Clove non voleva e non intendeva dare retta alla sua coscienza, o a qualsiasi cosa fosse stata quella stupida eco: lei era semplicemente quello che era, e se il suo destino era essere un'assassina, lei lo sarebbe stata.
La sua mano si posò sulla testa irti di scuri capelli, e con uno strattone improvviso la tirò su, con una forza tale che alla giovane scappò un gemito soffocato che durò però troppo poco per appagarla completamente.
Era così penoso vederla opporsi a lei.
Così frustrante vederla resistere a lei.
Stupida, piccola ragazzina.
Ingenua, inutile bambina.
Era necessario, ormai, per lei, era ciò per cui era arrivata in quella Arena, era lo scopo per cui era nata: scacciare quella mocciosa dalla faccia della Terra, rendere il suo nome solo uno dei tanti che comparivano nelle liste dei caduti, rendere il suo viso solo uno dei mille che la TV mostrava. Lo sentiva così prepotente nelle sue vene, sentiva il bisogno premere sulle sue tempie e sulle sue costole, arrivare alle mani, passare sulle dita che ora indugiavano sulla lama del coltello.
Il coltello di Cato.
“Non piangi, piccolina?” domandò, la voce strascinata e il sorriso sardonico ancora impresso sul viso. “Non vuoi la mammina, ora?” chiese, sporgendo il labbro in avanti con fare ammiccante.
Era stata così brava a ingraziarsi gli sponsor, lo doveva ammettere, lei e la sua strategia di ragazzina perfetta: tutte quelle mossette, i sorrisini, gli ammiccamenti in quella stupida intervista, l’agire di un disperato che tenta un ultimo appiglio a cui aggrapparsi, un naufrago che cerca un salvagente con cui salvarsi, un condannato a morte che tenta di ingraziarsi i giudici.
Lei così carina, lei così dolce, lei così graziosa. Lei così insopportabilmente mielosa, così ipocrita, così falsa.
Così vera.
La ragazzina strinse i denti e i pugni, in una smorfia che le fece scappare una risata divertita: era minacciosa quanto una bambola di porcellana. E lei non doveva far altro che affondare il coltello per romperla…
“E tu, Clove?” ribatté quella, alzando un po’ d più il mento. Il suo viso le arrivò così vicino che per un istante Clove pensò, in un lampo di follia, che avrebbe potuto sputarle in un occhio senza  nemmeno prendersi la briga di mirare.
“Non vuoi la mammina?”
Il viso di Clove divenne di un cereo malsano e vicino al verdognolo.
Rue la fissava ancora con aria di sfida, come la prima volta che l’aveva vista su quel palco, con lo stesso sorriso che le aveva rivolto nel Centro di Addestramento.
Lei, così dolce.
Lei, così forte.
Lei, ormai andata.
Pressione.
Sospiri.
L’ultimo sguardo che le lanciò la dilaniò da parte a parte come se il pugnale fosse affondato nella sua carne.
Calore.
Sangue.
E Clove affondò le dita nella sua carne sapendo che, in fondo, loro due erano state molto simili.
Perché, per un istante folle, Clove aveva voluto sua madre lì con lei.

 
  
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