Storie originali > Drammatico
Segui la storia  |       
Autore: MadAka    10/05/2014    1 recensioni
"Chiamano questo posto il Banco dei Sogni, perché è proprio questo che fa, compra sogni.
Le persone qui vendono ciò che hanno di più evanescente, ma anche di più profondo. Racchiudono la loro speranza all’ interno della loro firma, la scrivono su un foglio bianco candido, lo ripongono in una busta e vengono fin qui per farsela valutare, farsi valutare il prezzo della propria anima, come diceva mio padre."
Genere: Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

It'll be okay (In a perfect world)

It wouldn't have to be this way (In a perfect world)

In a perfect, a perfect world.

 

 

 

Musica. Quella che sento è musica, è un accordo che ho conosciuto lo stesso giorno in cui ho conosciuto Gabriel. È il mio accordo, quello del mio nome, questa musica dev’essere per me.

Apro gli occhi, la penombra è debole, ma grigia, la luce non può che essere quella del tardo pomeriggio.

Sono in ritardo, per caso?

Mi guardo appena intorno, non riconoscendo niente se non il suono della chitarra che sento alla mia destra. Mi volto ed ecco Gabriel.

Smette di suonare e il suo viso si distende:

«Steve, meno male.»

Cerco di mettermi a sedere, ma il mio corpo è intorpidito e il gesto, per quanto semplice, richiede un grande sforzo. Mi porto una mano alla nuca, sentendola dolorante, un dolore che si arrampica fino alla testa, avvolgendola totalmente. Il ragazzo continua a guardarmi, l’espressione dispiaciuta di chi ha compiuto un grave errore.

«Dove siamo?» chiedo, dopo essermi massaggiato a sufficienza le tempie, notando di non riconoscere il posto in cui ci troviamo.

«É casa di Mark.»

Lancio una nuova occhiata alla stanza, sorpreso di non essermi accorto di essere nella camera del mio migliore amico, ma la cosa passa in secondo piano quando mi rendo conto di non sapere per quale motivo mi trovo qui.

«Cos’è successo?»

Gabriel apre bocca, ma non accenna a parlare. Mentre aspetto che trovi le parole giuste cerco di sistemarmi meglio sul letto, togliendo le lenzuola che mi coprono, ma ogni movimento che compio fa aumentare il mio dolore alla testa che si fa via via più intenso e persistente.

«Non te lo ricordi?» riesce a chiedermi infine, la voce bassa e dal tono incerto.

Provo a pensarci, tento di ricordare cosa posso aver fatto per ritrovarmi qui, in queste condizioni, cosa mi è successo per farmi finire nel letto del mio amico con la testa dolorante e la memoria appannata, e alla fine trovo la risposta. Porto una mano alla fronte quando i ricordi affiorano, quando mi torna in mente la mattina davanti al Banco dei Sogni, quelle ore in cui io e il ragazzo abbiamo cercato inutilmente di allontanare qualche giovane anima da un futuro scontato. Ci abbiamo provato, la sua chitarra ha continuato a suonare ininterrottamente fino all’arrivo di quelle tre persone, quelle tre figure che non hanno esitato ad aggredirci, forse sentendosi minacciate. Ma tutto si interrompe lì, allo sguardo spietato dell’ometto che lavora al Banco, alla voce di Gabriel piena di paura, al dolore che mi ha pervaso mentre tutto diventava nero. Sì mi ricordo, ma cosa?

«Che cosa mi hanno fatto?» alzo gli occhi sul ragazzo, che non ha ancora perso quell’espressione colpevole.

«Mi dispiace, Steve. È colpa mia.» dice immediatamente, abbassando lo sguardo sul suo strumento musicale, ubbidiente e silenzioso.

«Cosa? E perché sarebbe colpa tua?»

«Perché sì. Ti hanno colpito alla testa, ecco cos’hanno fatto. E lo hanno fatto mentre eri di spalle, mentre cercavi di riprendere la mia chitarra. È colpa mia, avrei dovuto fare qualcosa ma ero troppo spaventato. Dovrei esserci io su quel letto... » si porta le mani alla testa, raggomitolandosi sulla sedia per proteggere sé e il suo prezioso strumento.

«Ehi, andiamo, Gabriel. Non è colpa tua, d’accordo? Di chi è stata l’idea? Chi è stato l’idiota che ha cominciato?» gli chiedo, costringendolo a guardarmi e sorridendogli.

Lui non risponde, si limita a sorridermi a sua volta, un sorriso timido e pieno di rimorso.

«Smettila di preoccuparti, ok? L’importante è che tu abbia riavuto la tua chitarra.»

Il dolore alla testa non accenna a diminuire, cala leggermente di tanto in tanto per poi ripresentarsi più intenso di prima.

«Con cosa mi hanno colpito?» chiedo, nella speranza di dare un volto al mio dolore.

«Credo fosse un manganello, non lo so, mi dispiace, ma è successo tutto così in fretta…»

Annuisco e il giovane riprende parola:

«Non capisco neanche per quale motivo lo abbiano fatto!»

«In che senso?»

Lui mi guarda, sorpreso. È ancora scioccato, lo capisco dal modo in cui si muove, gesticola e respira.

«Quel tipo, il tizio inquietante che compra i sogni delle persone… ha continuato a dire che stavi facendo un reato, che stavi aggredendo un pubblico ufficiale, ma poi ti ha fatto tramortire e se n’è andato.»

«Se n’è andato?» chiedo, perplesso.

Il giovane annuisce confusamente con il capo:

«Sì, se ne sono andati, tutti e tre. Ti hanno lasciato lì sul marciapiede come fossi immondizia. Nessun passante si è fermato ad aiutarmi e io ero terrorizzato; avevo paura che fossi morto! Non sapevo che altro fare così ho chiamato Vinny e ti abbiamo portato qui. Ti ha visitato un medico e ha detto che, tutto sommato, stavi bene, così mi sono seduto su questa sedia e ho aspettato che ti risvegliassi, suonando. …mi dispiace.»

Assimilo le cose lentamente, unisco i vari tasselli e ricostruisco ciò che mi è successo.

Gabriel è davvero agitato, ripensare a quello che è successo sole poche ore fa lo deve sconvolgere tutt’ora; continua a tormentarsi i capelli chiari e troppo corti, guardando convulsamente intorno a sé.

Respiro a fondo cercando le parole appropriate prima di aprire bocca:

«Ho capito.»

Anche il giovane fa per parlare, ma lo interrompo:

«Smettila di sentirti in colpa, tu non c’entri niente. Anzi, devo ringraziarti per avermi aiutato, per aver fatto in modo che io arrivassi fin qui. A parte il dolore alla testa sono vivo ed è merito tuo, quindi basta preoccuparsi, d’accordo?»

Annuisce con la testa e mi sorride, ma c’è ancora tanta insicurezza nei suoi gesti.

Spero solo che le cose non prendano una piega ancora peggiore dopo ciò che è successo, ma non riesco ad ignorare una brutta sensazione che sta affiorando dalle mie viscere.

Tuttavia non mi ci concentro più del dovuto, perché l’ingresso nella stanza di tre persone conosciute mi distrae da tutto ciò: sono Vincent, Jocelyn e Mark.

«Mi era sembrato di sentire qualcuno parlare.» esordisce Vinny, lanciandomi uno dei suoi sorrisi più radiosi.

«Come stai?» mi chiede Jocelyn, avvicinandosi a Gabriel e posandogli le mani sulle spalle, come se fosse il fratello minore di cui si è sempre presa cura.

«Come va la testa? Gabriel ci ha raccontato quello che è successo.» continua Vincent.

«Fa ancora un po’ male, ma passerà. Mi dispiace molto avervi fatto preoccupare.»

«Non dirlo neanche. Avete avuto coraggio a fare una cosa del genere e avete tutta la mia stima. È un peccato che le cose si siano concluse in maniera negativa, ma risolveremo tutto.»

Le parole di Vinny riescono sempre a darmi fiducia, anche ora che sento che la mia idea non è stata così buona come avevo sperato prima di metterla in atto. Tutto sarebbe potuto andare per il verso sbagliato, credo di aver avuto fortuna a ritrovarmi disteso in un letto e non in qualcos’altro. E ora che penso a questo la strana sensazione comparsa poco fa, che si è solo assopita dopo l’ingresso dei miei tre amici, si risveglia dentro di me.

Ho un brutto presentimento.

«Vuoi qualcosa? Qualcosa di caldo, intendo.»

Alzo gli occhi su Jocelyn. Il suo sorriso continua ad essere luminoso e incoraggiante, come lo è sempre stato già dal nostro primo incontro. Nei suoi occhi sono sicuro di vedere più luce e mi auguro vivamente di avere ragione, spero proprio che lei stia riacquistando il suo sogno, o che ne stia facendo sbocciare uno nuovo.

«Sì, grazie.» le sorrido.

Lei si rivolge al più giovane:

«Vieni Gabriel, andiamo a preparare qualcosa per questi tre uomini.»

Il ragazzo si alza e mi lancia un cenno, tutti e due escono dalla stanza, lasciandomi solo con Vincent e Mark, che da quando è entrato non ha ancora proferito parola e si è limitato ad osservarmi con un’espressione indecifrabile in volto.

«Non vi ho messo nei guai, vero?» chiedo rivolto a Vinny, che alza le spalle.

«Non vedo perché. Io non reputo assolutamente il gesto che avete compiuto tu e Gabriel una follia, ma un atto di coraggio. Tempo fa ti chiesi di aiutarmi ad aiutare gli altri, ricordi?»

Annuisco.

«Ebbene, è quello che hai fatto. A modo tuo, ma lo hai fatto.»

Alzo un sopracciglio, perplesso:

«No che non l’ho fatto, nessuno si è fermato da noi, nessuno è tornato sui suoi passi. Temo proprio di aver preso un abbaglio stavolta.»

Vinny sorride, il volto che si illumina e i suoi occhi azzurri che brillano più vivaci del solito:

«Oh beh, non puoi sperare che i risultati positivi arrivino immediatamente. Ci vuole sempre del tempo, per ottenerne. Ma, fidati, voi avete portato la musica nel cuore delle persone, questa mattina. Chi più chi meno tutti sono stati toccati dalle note di Gabriel. Anche se oggi hanno venduto il loro sogno un giorno si ricorderanno di quella musica che li ha accompagnati prima di perdere tutto, di quelle note che sono state l’ultimo appiglio che non hanno potuto afferrare prima di cadere. Un giorno la cercheranno, credimi, e chi cerca la musica cerca la vita.»

Rimango letteralmente colpito dalle sue parole e lo stesso deve accadere a Mark perché si volta verso l’uomo e lo guarda attentamente. Ormai posso dire di conoscere Vincent, di sapere il modo in cui riesce a vedere il mondo, perché ho passato già parecchi giorni in sua compagnia e anche Mark lo conosce, perché anche lui è stato aiutato dalle sue parole; tuttavia è sempre in grado di sorprendermi con il suo modo di rapportarsi alla vita nonostante tutto il dolore che ha provato in passato. Vinny vede il lato positivo in tutto, trova sempre la speranza nel domani e sono le caratteristiche principali che servono ad una guida in questa città.

«Spero che tu abbia ragione.» gli dico, sorridendogli e ripensando alle sue parole.

Lui risponde al mio sorriso accompagnando il suo con un cenno del capo e subito dopo Jocelyn compare sulla soglia:

«Mark, hai del the?» chiede, scusandosi per averci interrotto.

L’uomo si avvia verso di lei ma Vincent lo ferma:

«Lascia, lascia. Ci penso io.»

Lui e la ragazza escono dalla stanza, mentre la voce di Mark li raggiunge dicendo:

«È nel mobile accanto alla finestra.»

Nella camera cala il silenzio, il mio amico si siede nel posto occupato prima da Gabriel, lo fa dopo aver adagiato accuratamente a terra la chitarra del ragazzo. Appoggia i gomiti alle ginocchia e congiunge le mani, fermandosi a guardami.

«Non avevo capito che fosse casa tua.» gli dico dopo un po’, cercando un pretesto qualunque per fare conversazione.

L’espressione con cui lui è entrato nella stanza mi ha lasciato perplesso e ho paura che sia arrabbiato con me per quello che ho fatto.

«Già, non ti ho mai portato in camera mia.» taglia corto.

Il silenzio riprende e io abbasso gli occhi sulle mie mani, senza sapere cosa dire.

Finalmente, dopo alcuni minuti, sento Mark prendere fiato e parlare:

«Tu mi hai salvato la vita, lo sai questo, vero? Se non fosse stato per te io ora non sarei qui, ne sono sicuro. Ma devi stare attento a ciò che fai, perché se dovesse succederti qualcosa allora sì che non mi rimarrebbe più niente. Tuttavia ammetto di essere rimasto colpito da quello che hai fatto, significa che il mio amico Stephen Espoir è ancora vivo.»

Lo guardo sorpreso da quell’affermazione. La sua espressione è seria e risoluta, vorrei poter decifrare a fondo quello che ha appena detto, capirlo attraverso i suoi occhi che ho sempre saputo leggere. Ma non è semplice intravedere l’anima del mio amico dietro a quello sguardo spento, dietro quei suoi occhi ancora così scuri e assenti.

Ma quando mi sorride capisco che è solamente felice di vedere che sto bene, che le cose non sono andate poi così male.

«Non mi credevi capace di farlo?» gli chiedo, scherzando.

Lui alza le spalle e asseconda il mio tono:

«Al contrario, so che sei capace di fare le più grandi assurdità di questo mondo.»

Ma poi la sua voce si fa nuovamente seria:

«È che troppo volte ti lasci frenare dalle tue paure.»

Annuisco, consapevole che si tratta della verità. In fin dei conti il mio interlocutore è Mark, ha avuto più di vent’anni a disposizione per conoscermi a fondo e lui mi conosce davvero.

Qualcuno suona il campanello, Mark ne rimane sorpreso e si alza per raggiungere l’ingresso. Tuttavia la voce di Jocelyn si fa largo dal soggiorno:

«Vado io.»

Il mio amico si rimette a sedere e mi guarda:

«Allora quanto ha fatto male?» domanda portando una mano sulla mia nuca.

Nonostante il suo tocco sia leggero una pulsazione di dolore parte ugualmente, come una scarica:

«Abbastanza, credo.»

«Credi?»

«Già, non è che mi ricordi molto di quel momento, ma se ha fatto male quanto me ne fa ora è già abbastanza.»

La nostra conversazione, però, viene interrotta dalle voci provenienti dall’altra stanza. Sono quelle di Vincent, Jocelyn e di un altro uomo che non conosco. Nemmeno Mark pare riconoscere quella voce, perché assume un’espressione diffidente e si alza nuovamente in piedi. Rimaniamo in ascolto, senza riuscire a carpire molte parti del dialogo, sentiamo solo qualche sporadico passaggio. La voce di Vinny che dice “Questo è un oltraggio”, quella dello sconosciuto che continua a ripetere che non sono affari loro.

Il mio amico si avvia verso il soggiorno:

«Aspetta.» lo chiamo.

Lui si volta verso di me:

«Vengo anche io.» faccio per alzarmi ma il dolore alla testa aumenta.

Quando riesco a mettermi in piedi una vertigine mi fa barcollare in avanti e Mark mi ferma tenendomi per la spalla:

«Ci sei?» mi chiede, parendo preoccupato.

«Sì, ce la faccio.»

Mentre entriamo nell’altra stanza la spiacevole sensazione che mi ha assalito ormai diversi minuti prima si fa sempre più intensa e si unisce ad un senso di nausea che cresce ad ogni passo che compio.

Appena riesco a vedere ciò che sta succedendo mi sento più confuso di quanto già non sia. Gabriel è rimasto in disparte, l’espressione terribilmente agitata, mi guarda appena e poi abbassa immediatamente gli occhi sulle sue scarpe, il respiro accelerato di chi non sa cosa fare.

Jocelyn e Vincent sono sulla soglia, coprono la figura che sta parlando con loro ma riesco comunque ad intravedere il completo elegante scuro e la busta bianca che tiene in mano. Le loro voci si mescolano in un caos confuso che percepisco in maniera distorta, la mia nausea cresce ancora e devo appoggiarmi con una mano al muro per evitare di cadere quando tutto comincia a girare.

«Che sta succedendo?»

La voce di Mark sovrasta le altre che si ammutoliscono quasi subito. Vinny riprende a parlare immediatamente:

«Quest’uomo se ne deve andare. Ha detto solo un sacco di idiozie e…»

Ma l’uomo in questione lo interrompe:

«Lei non ha il diritto di mandarmi via, sto svolgendo il mio lavoro.»

«Che sarebbe?» chiede Mark scettico, il tono freddo.

«Lei è Stephen Espoir?» domanda l’altro, senza accennare a rispondere alla domanda.

«No.»

Alzo la testa sentendo pronunciare il mio nome, tutto il mio nome:

«Sono io.»

Non so neanche perché l’ho detto, ho la testa completamente annebbiata, il dolore e le sensazioni peggiori si amalgamano dentro di me in qualcosa di orribile: vorrei solo che finisse.

Tutti si voltano verso di me, Vinny sospira, rassegnato, Jocelyn si porta una mano alla bocca e le loro reazioni mi lasciano incerto.

L’uomo supera i miei tre amici e mi raggiunge, porgendomi la busta che tiene in mano.

Aspetta che io l’afferri prima di parlarmi:

«Questa mattina lei ha aggredito un pubblico ufficiale di servizio alla compagnia del Banco dei Sogni e per tale reato verrà processato.»

Prende fiato, continuando a guardarmi serio:

«Ci vediamo fra tre settimane in tribunale.»

Detto ciò mi dà le spalle ed esce dalla casa.

Il silenzio cala nella stanza. Abbasso gli occhi sulla busta notando le mie mani tremare, sento le mie forze venire meno e appoggiarmi alla parete stavolta non basta: temo di essere sul punto di svenire.

Il mio migliore amico se ne accorge, perché scatta verso di me:

«Merda.» l’imprecazione gli esce fra i denti mentre mi afferra.

Mi circonda con il braccio, portandomi quasi di peso verso la camera; lungo il tragitto la busta scivola alla mia presa e cade chissà dove.

Quando mi distendo nel letto Mark mi afferra per le spalle e mi guarda dritto negli occhi:

«Non ci provare, ok?»

Non so a cosa si stia riferendo, proprio non riesco a capirlo, so solo che è preoccupato, davvero preoccupato questa volta.

Torna in soggiorno e lo sento rivolgersi agli altri, anche se tiene la voce bassa riesco a udirlo ugualmente.

«Dev’essere sotto shock.» dice ad un certo punto.

«Tutto questo è assurdo. Che cosa possiamo fare?» riconosco la voce di Jocelyn, ma poi nessuno le risponde, c’è solo silenzio.

Mi copro il volto con le mani, senza sapere cosa pensare. Mi sento totalmente svuotato, totalmente atterrato; mi sembra di non avere più forze dentro di me, nemmeno la forza di gridare o piangere. Ho solo dolore, fisico e mentale. Non doveva finire così, non doveva andare in questo modo.

Cosa c’è di sbagliato in quello che ho fatto?

 

  
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Drammatico / Vai alla pagina dell'autore: MadAka