It'll be okay (In a perfect world)
It wouldn't
have to be this way (In a perfect world)
In a perfect, a perfect world.
Musica.
Quella che sento è musica, è un accordo che ho conosciuto lo stesso giorno in
cui ho conosciuto Gabriel. È il mio accordo, quello del mio nome, questa musica
dev’essere per me.
Apro
gli occhi, la penombra è debole, ma grigia, la luce non può che essere quella
del tardo pomeriggio.
Sono
in ritardo, per caso?
Mi
guardo appena intorno, non riconoscendo niente se non il suono della chitarra
che sento alla mia destra. Mi volto ed ecco Gabriel.
Smette
di suonare e il suo viso si distende:
«Steve,
meno male.»
Cerco
di mettermi a sedere, ma il mio corpo è intorpidito e il gesto, per quanto
semplice, richiede un grande sforzo. Mi porto una mano alla nuca, sentendola
dolorante, un dolore che si arrampica fino alla testa, avvolgendola totalmente.
Il ragazzo continua a guardarmi, l’espressione dispiaciuta di chi ha compiuto
un grave errore.
«Dove
siamo?» chiedo, dopo essermi massaggiato a sufficienza le tempie, notando di
non riconoscere il posto in cui ci troviamo.
«É
casa di Mark.»
Lancio
una nuova occhiata alla stanza, sorpreso di non essermi accorto di essere nella
camera del mio migliore amico, ma la cosa passa in secondo piano quando mi
rendo conto di non sapere per quale motivo mi trovo qui.
«Cos’è
successo?»
Gabriel
apre bocca, ma non accenna a parlare. Mentre aspetto che trovi le parole giuste
cerco di sistemarmi meglio sul letto, togliendo le lenzuola che mi coprono, ma
ogni movimento che compio fa aumentare il mio dolore alla testa che si fa via
via più intenso e persistente.
«Non
te lo ricordi?» riesce a chiedermi infine, la voce bassa e dal tono incerto.
Provo
a pensarci, tento di ricordare cosa
posso aver fatto per ritrovarmi qui, in queste condizioni, cosa mi è successo
per farmi finire nel letto del mio amico con la testa dolorante e la memoria
appannata, e alla fine trovo la risposta. Porto una mano alla fronte quando i
ricordi affiorano, quando mi torna in mente la mattina davanti al Banco dei Sogni, quelle ore in cui io e
il ragazzo abbiamo cercato inutilmente di allontanare qualche giovane anima da
un futuro scontato. Ci abbiamo provato, la sua chitarra ha continuato a suonare
ininterrottamente fino all’arrivo di quelle tre persone, quelle tre figure che
non hanno esitato ad aggredirci, forse sentendosi minacciate. Ma tutto si
interrompe lì, allo sguardo spietato dell’ometto che lavora al Banco, alla voce di Gabriel piena di
paura, al dolore che mi ha pervaso mentre tutto diventava nero. Sì mi ricordo,
ma cosa?
«Che
cosa mi hanno fatto?» alzo gli occhi sul ragazzo, che non ha ancora perso
quell’espressione colpevole.
«Mi
dispiace, Steve. È colpa mia.» dice immediatamente, abbassando lo sguardo sul
suo strumento musicale, ubbidiente e silenzioso.
«Cosa?
E perché sarebbe colpa tua?»
«Perché
sì. Ti hanno colpito alla testa, ecco cos’hanno fatto. E lo hanno fatto mentre
eri di spalle, mentre cercavi di riprendere la mia chitarra. È colpa mia, avrei
dovuto fare qualcosa ma ero troppo spaventato. Dovrei esserci io su quel letto...
» si porta le mani alla testa, raggomitolandosi sulla sedia per proteggere sé e
il suo prezioso strumento.
«Ehi, andiamo, Gabriel. Non è colpa tua,
d’accordo? Di chi è stata l’idea? Chi è stato l’idiota che ha cominciato?» gli
chiedo, costringendolo a guardarmi e sorridendogli.
Lui
non risponde, si limita a sorridermi a sua volta, un sorriso timido e pieno di
rimorso.
«Smettila
di preoccuparti, ok? L’importante è che tu abbia riavuto la tua chitarra.»
Il
dolore alla testa non accenna a diminuire, cala leggermente di tanto in tanto
per poi ripresentarsi più intenso di prima.
«Con
cosa mi hanno colpito?» chiedo, nella speranza di dare un volto al mio dolore.
«Credo
fosse un manganello, non lo so, mi dispiace, ma è successo tutto così in
fretta…»
Annuisco
e il giovane riprende parola:
«Non
capisco neanche per quale motivo lo abbiano fatto!»
«In
che senso?»
Lui
mi guarda, sorpreso. È ancora scioccato, lo capisco dal modo in cui si muove,
gesticola e respira.
«Quel
tipo, il tizio inquietante che compra i sogni delle persone… ha continuato a
dire che stavi facendo un reato, che stavi aggredendo un pubblico ufficiale, ma
poi ti ha fatto tramortire e se n’è andato.»
«Se
n’è andato?» chiedo, perplesso.
Il
giovane annuisce confusamente con il capo:
«Sì,
se ne sono andati, tutti e tre. Ti hanno lasciato lì sul marciapiede come fossi
immondizia. Nessun passante si è fermato ad aiutarmi e io ero terrorizzato;
avevo paura che fossi morto! Non sapevo che altro fare così ho chiamato Vinny e
ti abbiamo portato qui. Ti ha visitato un medico e ha detto che, tutto sommato,
stavi bene, così mi sono seduto su questa sedia e ho aspettato che ti
risvegliassi, suonando. …mi dispiace.»
Assimilo
le cose lentamente, unisco i vari tasselli e ricostruisco ciò che mi è
successo.
Gabriel
è davvero agitato, ripensare a quello che è successo sole poche ore fa lo deve
sconvolgere tutt’ora; continua a tormentarsi i capelli chiari e troppo corti,
guardando convulsamente intorno a sé.
Respiro
a fondo cercando le parole appropriate prima di aprire bocca:
«Ho
capito.»
Anche
il giovane fa per parlare, ma lo interrompo:
«Smettila
di sentirti in colpa, tu non c’entri niente. Anzi, devo ringraziarti per avermi
aiutato, per aver fatto in modo che io arrivassi fin qui. A parte il dolore
alla testa sono vivo ed è merito tuo, quindi basta preoccuparsi, d’accordo?»
Annuisce
con la testa e mi sorride, ma c’è ancora
tanta insicurezza nei suoi gesti.
Spero
solo che le cose non prendano una piega ancora peggiore dopo ciò che è successo,
ma non riesco ad ignorare una brutta sensazione che sta affiorando dalle mie
viscere.
Tuttavia
non mi ci concentro più del dovuto, perché l’ingresso nella stanza di tre
persone conosciute mi distrae da tutto ciò: sono Vincent, Jocelyn e Mark.
«Mi
era sembrato di sentire qualcuno parlare.» esordisce Vinny, lanciandomi uno dei
suoi sorrisi più radiosi.
«Come
stai?» mi chiede Jocelyn, avvicinandosi a Gabriel e posandogli le mani sulle
spalle, come se fosse il fratello minore di cui si è sempre presa cura.
«Come
va la testa? Gabriel ci ha raccontato quello che è successo.» continua Vincent.
«Fa
ancora un po’ male, ma passerà. Mi dispiace molto avervi fatto preoccupare.»
«Non
dirlo neanche. Avete avuto coraggio a fare una cosa del genere e avete tutta la
mia stima. È un peccato che le cose si siano concluse in maniera negativa, ma
risolveremo tutto.»
Le
parole di Vinny riescono sempre a darmi fiducia, anche ora che sento che la mia
idea non è stata così buona come avevo sperato prima di metterla in atto. Tutto
sarebbe potuto andare per il verso sbagliato, credo di aver avuto fortuna a
ritrovarmi disteso in un letto e non in qualcos’altro. E ora che penso a questo
la strana sensazione comparsa poco fa, che si è solo assopita dopo l’ingresso
dei miei tre amici, si risveglia dentro di me.
Ho
un brutto presentimento.
«Vuoi
qualcosa? Qualcosa di caldo, intendo.»
Alzo
gli occhi su Jocelyn. Il suo sorriso continua ad essere luminoso e
incoraggiante, come lo è sempre stato già dal nostro primo incontro. Nei suoi
occhi sono sicuro di vedere più luce e mi auguro vivamente di avere ragione,
spero proprio che lei stia riacquistando il suo sogno, o che ne stia facendo
sbocciare uno nuovo.
«Sì,
grazie.» le sorrido.
Lei
si rivolge al più giovane:
«Vieni
Gabriel, andiamo a preparare qualcosa per questi tre uomini.»
Il
ragazzo si alza e mi lancia un cenno, tutti e due escono dalla stanza,
lasciandomi solo con Vincent e Mark, che da quando è entrato non ha ancora
proferito parola e si è limitato ad osservarmi con un’espressione indecifrabile
in volto.
«Non
vi ho messo nei guai, vero?» chiedo rivolto a Vinny, che alza le spalle.
«Non vedo perché. Io non reputo assolutamente il
gesto che avete compiuto tu e Gabriel una follia, ma un atto di coraggio. Tempo
fa ti chiesi di aiutarmi ad aiutare gli altri, ricordi?»
Annuisco.
«Ebbene, è quello che hai fatto. A modo tuo,
ma lo hai fatto.»
Alzo un sopracciglio, perplesso:
«No che non l’ho fatto, nessuno si è fermato
da noi, nessuno è tornato sui suoi passi. Temo proprio di aver preso un
abbaglio stavolta.»
Vinny sorride, il volto che si illumina e i
suoi occhi azzurri che brillano più vivaci del solito:
«Oh beh,
non puoi sperare che i risultati positivi arrivino immediatamente. Ci vuole
sempre del tempo, per ottenerne. Ma, fidati, voi avete portato la musica nel
cuore delle persone, questa mattina. Chi più chi meno tutti sono stati toccati
dalle note di Gabriel. Anche se oggi hanno venduto il loro sogno un giorno si
ricorderanno di quella musica che li ha accompagnati prima di perdere tutto, di
quelle note che sono state l’ultimo appiglio che non hanno potuto afferrare
prima di cadere. Un giorno la cercheranno, credimi, e chi cerca la musica cerca
la vita.»
Rimango letteralmente colpito dalle sue parole
e lo stesso deve accadere a Mark perché si volta verso l’uomo e lo guarda
attentamente. Ormai posso dire di conoscere Vincent, di sapere il modo in cui
riesce a vedere il mondo, perché ho passato già parecchi giorni in sua
compagnia e anche Mark lo conosce, perché anche lui è stato aiutato dalle sue
parole; tuttavia è sempre in grado di sorprendermi con il suo modo di
rapportarsi alla vita nonostante tutto il dolore che ha provato in passato.
Vinny vede il lato positivo in tutto, trova sempre la speranza nel domani e
sono le caratteristiche principali che servono ad una guida in questa città.
«Spero che tu abbia ragione.» gli dico,
sorridendogli e ripensando alle sue parole.
Lui
risponde al mio sorriso accompagnando il suo con un cenno del capo e subito
dopo Jocelyn compare sulla soglia:
«Mark,
hai del the?» chiede, scusandosi per averci interrotto.
L’uomo
si avvia verso di lei ma Vincent lo ferma:
«Lascia,
lascia. Ci penso io.»
Lui
e la ragazza escono dalla stanza, mentre la voce di Mark li raggiunge dicendo:
«È
nel mobile accanto alla finestra.»
Nella
camera cala il silenzio, il mio amico si siede nel posto occupato prima da
Gabriel, lo fa dopo aver adagiato accuratamente a terra la chitarra del ragazzo.
Appoggia i gomiti alle ginocchia e congiunge le mani, fermandosi a guardami.
«Non
avevo capito che fosse casa tua.» gli dico dopo un po’, cercando un pretesto
qualunque per fare conversazione.
L’espressione
con cui lui è entrato nella stanza mi ha lasciato perplesso e ho paura che sia
arrabbiato con me per quello che ho fatto.
«Già,
non ti ho mai portato in camera mia.» taglia corto.
Il
silenzio riprende e io abbasso gli occhi sulle mie mani, senza sapere cosa dire.
Finalmente,
dopo alcuni minuti, sento Mark prendere fiato e parlare:
«Tu
mi hai salvato la vita, lo sai questo, vero? Se non fosse stato per te io ora
non sarei qui, ne sono sicuro. Ma devi stare attento a ciò che fai, perché se
dovesse succederti qualcosa allora sì che non mi rimarrebbe più niente.
Tuttavia ammetto di essere rimasto colpito da quello che hai fatto, significa
che il mio amico Stephen Espoir è ancora vivo.»
Lo
guardo sorpreso da quell’affermazione. La sua espressione è seria e risoluta,
vorrei poter decifrare a fondo quello che ha appena detto, capirlo attraverso i
suoi occhi che ho sempre saputo leggere. Ma non è semplice intravedere l’anima
del mio amico dietro a quello sguardo spento, dietro quei suoi occhi ancora
così scuri e assenti.
Ma
quando mi sorride capisco che è solamente felice di vedere che sto bene, che le
cose non sono andate poi così male.
«Non
mi credevi capace di farlo?» gli chiedo, scherzando.
Lui
alza le spalle e asseconda il mio tono:
«Al
contrario, so che sei capace di fare le più grandi assurdità di questo mondo.»
Ma
poi la sua voce si fa nuovamente seria:
«È
che troppo volte ti lasci frenare dalle tue paure.»
Annuisco,
consapevole che si tratta della verità. In fin dei conti il mio interlocutore è
Mark, ha avuto più di vent’anni a disposizione per conoscermi a fondo e lui mi
conosce davvero.
Qualcuno
suona il campanello, Mark ne rimane sorpreso e si alza per raggiungere
l’ingresso. Tuttavia la voce di Jocelyn si fa largo dal soggiorno:
«Vado
io.»
Il
mio amico si rimette a sedere e mi guarda:
«Allora
quanto ha fatto male?» domanda portando una mano sulla mia nuca.
Nonostante
il suo tocco sia leggero una pulsazione di dolore parte ugualmente, come una
scarica:
«Abbastanza,
credo.»
«Credi?»
«Già,
non è che mi ricordi molto di quel momento, ma se ha fatto male quanto me ne fa
ora è già abbastanza.»
La
nostra conversazione, però, viene interrotta dalle voci provenienti dall’altra
stanza. Sono quelle di Vincent, Jocelyn e di un altro uomo che non conosco.
Nemmeno Mark pare riconoscere quella voce, perché assume un’espressione
diffidente e si alza nuovamente in piedi. Rimaniamo in ascolto, senza riuscire
a carpire molte parti del dialogo, sentiamo solo qualche sporadico passaggio.
La voce di Vinny che dice “Questo è un oltraggio”, quella dello sconosciuto che
continua a ripetere che non sono affari loro.
Il
mio amico si avvia verso il soggiorno:
«Aspetta.»
lo chiamo.
Lui
si volta verso di me:
«Vengo
anche io.» faccio per alzarmi ma il dolore alla testa aumenta.
Quando
riesco a mettermi in piedi una vertigine mi fa barcollare in avanti e Mark mi
ferma tenendomi per la spalla:
«Ci
sei?» mi chiede, parendo preoccupato.
«Sì,
ce la faccio.»
Mentre
entriamo nell’altra stanza la spiacevole sensazione che mi ha assalito ormai
diversi minuti prima si fa sempre più intensa e si unisce ad un senso di nausea
che cresce ad ogni passo che compio.
Appena
riesco a vedere ciò che sta succedendo mi sento più confuso di quanto già non
sia. Gabriel è rimasto in disparte, l’espressione terribilmente agitata, mi
guarda appena e poi abbassa immediatamente gli occhi sulle sue scarpe, il
respiro accelerato di chi non sa cosa fare.
Jocelyn
e Vincent sono sulla soglia, coprono la figura che sta parlando con loro ma
riesco comunque ad intravedere il completo elegante scuro e la busta bianca che
tiene in mano. Le loro voci si mescolano in un caos confuso che percepisco in
maniera distorta, la mia nausea cresce ancora e devo appoggiarmi con una mano
al muro per evitare di cadere quando tutto comincia a girare.
«Che
sta succedendo?»
La
voce di Mark sovrasta le altre che si ammutoliscono quasi subito. Vinny
riprende a parlare immediatamente:
«Quest’uomo
se ne deve andare. Ha detto solo un sacco di idiozie e…»
Ma
l’uomo in questione lo interrompe:
«Lei
non ha il diritto di mandarmi via, sto svolgendo il mio lavoro.»
«Che
sarebbe?» chiede Mark scettico, il tono freddo.
«Lei
è Stephen Espoir?» domanda l’altro, senza accennare a
rispondere alla domanda.
«No.»
Alzo
la testa sentendo pronunciare il mio nome, tutto
il mio nome:
«Sono
io.»
Non
so neanche perché l’ho detto, ho la testa completamente annebbiata, il dolore e
le sensazioni peggiori si amalgamano dentro di me in qualcosa di orribile:
vorrei solo che finisse.
Tutti
si voltano verso di me, Vinny sospira, rassegnato, Jocelyn si porta una mano
alla bocca e le loro reazioni mi lasciano incerto.
L’uomo
supera i miei tre amici e mi raggiunge, porgendomi la busta che tiene in mano.
Aspetta
che io l’afferri prima di parlarmi:
«Questa
mattina lei ha aggredito un pubblico ufficiale di servizio alla compagnia del Banco dei Sogni e per tale reato verrà
processato.»
Prende
fiato, continuando a guardarmi serio:
«Ci
vediamo fra tre settimane in tribunale.»
Detto
ciò mi dà le spalle ed esce dalla casa.
Il
silenzio cala nella stanza. Abbasso gli occhi sulla busta notando le mie mani
tremare, sento le mie forze venire meno e appoggiarmi alla parete stavolta non
basta: temo di essere sul punto di svenire.
Il
mio migliore amico se ne accorge, perché scatta verso di me:
«Merda.» l’imprecazione gli esce fra i
denti mentre mi afferra.
Mi
circonda con il braccio, portandomi quasi di peso verso la camera; lungo il
tragitto la busta scivola alla mia presa e cade chissà dove.
Quando
mi distendo nel letto Mark mi afferra per le spalle e mi guarda dritto negli
occhi:
«Non
ci provare, ok?»
Non
so a cosa si stia riferendo, proprio non riesco a capirlo, so solo che è
preoccupato, davvero preoccupato questa volta.
Torna
in soggiorno e lo sento rivolgersi agli altri, anche se tiene la voce bassa
riesco a udirlo ugualmente.
«Dev’essere
sotto shock.» dice ad un certo punto.
«Tutto
questo è assurdo. Che cosa possiamo fare?» riconosco la voce di Jocelyn, ma poi
nessuno le risponde, c’è solo silenzio.
Mi
copro il volto con le mani, senza sapere cosa pensare. Mi sento totalmente
svuotato, totalmente atterrato; mi sembra di non avere più forze dentro di me,
nemmeno la forza di gridare o piangere. Ho solo dolore, fisico e mentale. Non
doveva finire così, non doveva andare in questo modo.
Cosa
c’è di sbagliato in quello che ho fatto?