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Autore: Gageta    12/05/2014    3 recensioni
John frequenta il liceo Barts: è al suo ultimo anno e tutto sommato le cose vanno bene. Ci sono gli ultimi mesi di duro studio, l'imminente scelta per il proprio futuro, c'è la squadra di rugby e tante ultime feste a cui partecipare, ragazze al suo seguito che uscirebbero volentieri con lui e una in particolare, Mary, con la quale farebbe di tutto pur di avere un appuntamento.
John ha sempre avuto le idee chiare: gli uomini si invaghiscono delle donne, chiedono loro un appuntamento, si innamorano e le sposano. Una cosa elementare, naturale.
John è sempre stato certo di questo, ma poi incontra Sherlock Holmes, e tutto ad un tratto non è più sicuro di nulla.
[teen!lock, Johnlock!AU]
Genere: Fluff, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Orgoglio e Pregiudizio

Capitolo 9 – parte II

 

«E poi è arrivata Denise, con quel suo sorrisino falso, chiedendogli le stesse identiche cose che gli stava chiedendo Jennifer! L'avrei presa a schiaffi! E sì che lo sapeva che Denise ci stava provando…»

«Uhm…»

«È l'ora che abbassi un po' i toni quella stronza, poco ci mancava che Denise scoppiasse a piangere. È da secoli che va dietro a quel ragazzo, poi arriva lei e… glielo porta via? Ma che ci provi soltanto…»

«Uhm…»

«Senza contare che l'altro giorno sono stata dal ginecologo, avremo un bel maschietto!»

John storse il naso mugugnando l'ennesimo «Uhm…» del pomeriggio, quando realizzò improvvisamente le ultime parole di Mary e fece scattare su la testa, guardandola con un'espressione inebetita. «Che cosa?»

Mary mise il broncio e sbatté con un po' troppa forza il libro sul tavolo. «Perché non mi stai ascoltando? A cosa pensi di così importante?»

John si passò una mano sul volto, innervosito dallo scherzo appena ricevuto, e sfogliò un'altra pagina del libro di storia, con fare annoiato. «Sono rimasto in biblioteca con te perché mi hai chiesto di aiutarti a studiare, non per sentirmi raccontare vita, morte e miracoli delle tue amiche…»

Mary gli scoccò un'occhiata truce. «Pensavo di raccontarti qualcosa della mia vita, visto che tu non lo fai mai!»

John sospirò, sentendo montare lentamente la rabbia nella sua voce. Il vento si stava alzando ancora una volta, pronto a travolgerli nella tempesta, l'ennesima discussione senza capo né coda. «Per favore, Mary, andiamo avanti, ok? Non ho voglia di perdere tempo inutilmente.»

«Perché ovviamente è questo che fai nei tuoi pomeriggi con Sherlock, no? Studiate e studiate senza neanche guardarvi in faccia!»

John alzò lo sguardo, stupito. «Cosa c'entra Sherlock, ora?»

«Sherlock, Sherlock… non fai che parlare di lui! C’entra sempre. Stavi pensando a lui prima, non è vero? Magari a quanto ti saresti divertito a casa sua invece che stare qui ad ascoltare qualche innocente attimo di vita della tua ragazza!»

La guardò, stralunato, senza tuttavia avere la forza di ribattere. Purtroppo, per una volta, Mary aveva ragione: stava pensando proprio a Sherlock, al fatto che lo aveva lasciato solo con se stesso per l'ennesimo pomeriggio di seguito. Non appena la ragazza aveva cominciato a parlare degli inutili pettegolezzi riguardanti le sue amiche, aveva praticamente mandato il cervello in stand by, lasciando scivolare i pensieri verso quel ragazzo solo nel suo appartamento a Baker Street, a fare chissà quale interessante esperimento.

«Non sono stupida, sai? Non è la prima volta che mi chiedono perché continui a stare con te se non mi dedichi mai le tue attenzioni!»

John strinse le labbra in un muto scatto rabbioso. «È questo che sei? Gelosa di Sherlock?» chiese poco dopo, con la voce più bassa di quanto avrebbe voluto.

Mary portò gli occhi al cielo, esibendo una smorfia disgustata. «Ci manca poco! Ti rendi conto di come ti comporti? In ogni cosa che facciamo c'è sempre Sherlock di mezzo: “ma io dovevo fare di qui, dovevo fare di là”… e alla tua ragazza chi ci pensa? Uhm?»

Il biondo prese un respiro profondo, cercando di calmare almeno in parte la rabbia. «Stai diventando ridicola…»

«Ridicola?» Esibì un sorriso sarcastico. «Come credi che mi debba sentire? Robert per lo meno si premurava di parlarmi!»

«Parlarti? Passiamo insieme almeno otto ore al giorno tutta la settimana, se non di più, perfino nei giorni in cui sto qualche ora da Sherlock! È il mio migliore amico, perché diavolo non dovrei dedicargli del tempo?»

«Un amico non ti occupa i pensieri ventiquattro ore su ventiquattro! Robert era sempre pronto a fare qualunque cosa per me! Portarmi lo zaino quando era troppo pesante, venirmi a prendere alla fine di ogni lezione, uscire tutti i pomeriggi a svagarsi in lunghe passeggiate romantiche…»

«E allora perché l'hai lasciato!» sbottò, alzandosi in piedi e rischiando di buttare a terra la sedia per lo slancio improvviso.

«Signori, cos'è questo baccano?» Il bibliotecario si affacciò da dietro uno scaffale, guardandoli truce. «Vi devo ricordare in quale luogo ci troviamo?»

«Perché pensavo fossi un ragazzo migliore…» sibilò lei non appena fu fuori della vista dell’uomo. «E ci ho anche creduto all'inizio. I tuoi modi gentili, la tua espressione quando mi guardavi… ti rendi conto che non ti comporti più così?»

John chiuse gli occhi e respirò lentamente.

«O forse la tua attenzione ora è rivolta solo a quello stupido ragazzo? Devo dare ragione ad Anderson e le sue teorie sulla coppia Watson-Holmes?»

«Perché devi dire così?» La guardò, deluso.

«Lo sai come vi chiamano? Johnlock! JOHNLOCK! Quelle sfigate di Louise e Melyssa continuano a blaterare cose senza senso su quanto siete “teneri" insieme!»

Spalancò le labbra, stupito. Conosceva le due ragazze, erano quelle del primo anno che si sedevano sempre insieme al tavolo opposto a quello dei Blackheath, fissate con gli attori, film e serie televisive, fumetti e chissà cos’altro. Erano diventate cheerleader all'inizio dell'anno e si erano subito fatte notare per la loro eccessiva esuberanza. Con una fitta al petto soppesò attentamente le parole della ragazza, iniziando con il pensare a quanto fosse ridicola quella teoria e ritrovandosi a ripetere mentalmente quella strana unione di nomi, trovando che suonasse estremamente bene.

«Come dovrei sentirmi io?» piagnucolò lei, rivolgendogli un paio di occhi colmi di tristezza.

John deglutì, scacciando per l’ennesima volta l’immagine di Sherlock tra le sue braccia nel bagno, ed esitò, scuotendo poi la testa debolmente. «Sherlock non ha nessuno, ok? Nessuno che si preoccupi di starlo ad ascoltare e discutere con lui, nessuno che gli dia retta e non si limiti a classificarlo come psicopatico e a prenderlo in giro. Sono il suo unico amico.»

«Quel ragazzo è gay!» lo interruppe l'altra, guardandolo incredula.

Respirò a fondo e annuì. «Lo so.»

Mary spalancò ancora di più gli occhi. «È innamorato di te! Sai anche questo vero? O forse non hai neanche notato come ti guarda?» sibilò tra i denti.

«So anche questo…» mormorò, gli occhi persi in un punto indefinito di fronte a sé. «E allora?»

«Allora cosa?» La ragazza lo guardò con gli occhi lucidi. «Passi del tempo con un ragazzo a cui piaci?»

«Sì!» esclamò, tornando a guardarla con occhi vacui. Si chinò in avanti, abbassando la voce per limitare il disturbo a chi sedeva poco lontano. «E la sai una cosa? Lo faccio perché lui ha veramente bisogno di me…» Con il cuore che cominciava a battergli a mille cominciò a riordinare le proprie cose, ignorando la sua espressione stupefatta e mettendo un po’ troppa energia nei movimenti.

«Che cosa fai?»

Deglutì, chiudendo la cerniera anteriore dello zaino. «Vado da lui.»

Mary si alzò, fermandolo per un braccio. «Perché?»

La guardò negli occhi, mantenendo orgogliosamente lo sguardo. «Perché è la cosa giusta da fare.»

«Non puoi farlo! Mi stai tradendo con Sherlock? Mi stai veramente facendo questo?» Una lacrima le rigò il volto, gli occhi castani che lo fissavano, increduli.

John la guardò per qualche secondo, ponderando attentamente le parole, ma quando stava per parlare avvertì il cellulare vibrare nella propria tasca. Abbassando lo sguardo lo tirò fuori dai pantaloni e lo sbloccò, spalancando poi gli occhi di fronte al messaggio.

«Se davvero mi hai amato, una volta, guardami negli occhi e sistemiamo tutto. Facciamo pace e vediamo di risolvere la cosa… okay?» chiese lei, con un filo di voce.

John respirò piano e tornò a rivolgerle lo sguardo. «Devo andare, mi dispiace Mary…»

Fece per girarsi ma lei lo bloccò, prendendogli il volto tra le mani e costringendolo a guardarla dritto negli occhi. «Ti prego…» cominciò a tremare lievemente, altre lacrime che si aggiungevano alla prima nel lento percorso verso il mento.

Il ragazzo alzò le mani e le poggiò sulle sue. «Mi dispiace, non posso.» Un nodo gli si fermò in gola. «Hai ragione, non sono stato leale con te, e mi dispiace. Lui… lui ha bisogno di me…» respirò piano, scacciando il senso di colpa. «Mi dispiace…» Allontanò le sue mani dal proprio volto, continuando a guardarla negli occhi, poi si voltò definitivamente e sparì verso l’uscita della biblioteca.

 

Qualcuno potrebbe farsi male… sul tetto. JM

~*~

Sherlock poggiò le mani sulla porta di uscita e, dopo un ultimo momento d’esitazione, spinse il battente e la aprì.

Subito una folata di aria fresca di fine inverno gli sferzò il volto, costringendolo a portarsi una mano alla fronte per scostare un ciuffo ribelle di capelli, poi si guardò intorno e mosse lentamente qualche passo in avanti. Registrò con gli occhi ogni minimo particolare di quella superficie di cemento, dal buco di scolo in un angolo alla vernice scrostata presente su tutto il cornicione, fino a fermarsi definitivamente sulla nera figura seduta poco più avanti, girata verso l’esterno della terrazza, che guardava con occhi persi il paesaggio sottostante.

«Ben ritrovato, Sherlock!» Moriarty si voltò verso di lui, sorridendo mellifluo. «Pensavo di non vederti più! Com’è la nuova scuola?»

Sherlock non rispose, fermandosi a pochi passi di distanza e studiandolo attentamente, la testa leggermente inclinata di lato.

«Lo sai? Ci sei mancato… la squadra ha perso una delle sue vittime preferite.» rise l’altro. Gettò un’ultima occhiata di sotto, poi si alzò e unì le mani dietro la schiena. «Allora… cos’è tutto questo silenzio? Hai perso la tua solita faccia tosta

«Cosa vuoi?» chiese, ignorando la sua domanda.

Moriarty alzò lo sguardo, per poi coprirsi gli occhi con una mano. «Bel pomeriggio per morire, vero? Guarda, perfino il cielo piange tutto il loro dolore!»

Sherlock s’irrigidì, respirando piano.

Il ragazzo rise di gusto alla sua espressione quasi stupefatta e tornò a guardarlo, cominciando a girargli intorno. «Sai cosa succede a chi ne sa più di quanto dovrebbe…» mormorò.

Il moro deglutì e lo seguì con lo sguardo. «Perché dovresti farlo ora? Hai avuto tutto il tempo, prima…»

Rise nuovamente. «Davvero non ci arrivi da solo?»

 

 

 

Le lacrime le rigavano il volto, silenziose, mentre se ne stava seduta lì, esattamente dove John l’aveva lasciata, a fissare con occhi vuoti la parete di fronte a sé.

Era stata una stupida a non notarlo prima, se ne rendeva conto solo in quel momento. O meglio, se n’era resa conto quando era stato lui a dirglielo, quell’uggioso pomeriggio dopo gli allenamenti. Era così palese, così terribilmente chiaro, che lei stessa non riusciva a capire come avesse fatto a non accorgersene fino a quando non era stato qualcun altro a suggerirglielo, a metterle quella pulce nell’orecchio. John era chiaramente innamorato di quell’insulso ragazzo, quell’arrogante, insolente e altezzoso ragazzo. Sarebbe dovuto risultarle evidente dalle occhiate che gli lanciava, da quell’espressione completamente persa che aveva quando ne parlava, da quei continui e insensati riferimenti ai pomeriggi che passava insieme a lui. Ma era andata avanti per la sua strada, ignorando tutti quei segni che le si presentavano sotto agli occhi, convinta dei sentimenti di John per lei. Lo aveva notato fin dal suo secondo anno lì al Barts, quando si erano incrociati in un corridoio e il ragazzo le aveva rivolto uno sguardo quasi adorante, osservandola inebetito fino a quando non era sparita dietro l’angolo. Mary sapeva di avere questo effetto sui ragazzi, così all’inizio non se ne era curata più di tanto. Poi però le cheerleader e i Blackheath avevano iniziato ad uscire insieme, e piano piano avevano cominciato a conoscersi meglio: la bionda aveva tuttavia accuratamente evitato ogni sua possibile avance, concentrandosi invece su quelle di Robert, che era molto più affascinante e sicuramente più popolare del giovane Watson. Si era ricreduta solo qualche mese prima, essendosi stufata dei suoi soliti discorsi privi di senso. Al tempo non aveva quasi fatto caso a Sherlock, fermamente convinta che John passasse del tempo con lui e stesse dalla sua parte negli scontri con i Blackheath solo a causa del suo buon cuore.

«Ma sei proprio sicura che John provi per te quello che tu provi per lui?» Le sue parole le rimbombarono nella mente per l’ennesima volta nelle ultime settimane, riecheggiando con l’identico tono con le quali erano state pronunciate.

Ricordava bene quel momento, subito fuori dall’uscita degli spogliatoi: quel giorno John non c’era, si era preso una brutta febbre ed era rimasto a casa per quasi una settimana. Era stato proprio in quel momento che Moriarty si era avvicinato…

 

 

 

«Andiamo… non potevo ucciderti così, all’improvviso, senza nessuna apparente ragione… e poi il divertimento dove sarebbe stato?»

Sherlock represse un brivido. «Che cosa avresti fatto di così divertente?»

«Oh… tante, belle cose. Sai, una volta che hai fatto partire la fiamma non ci vuole molto perché il fuoco si espanda, soprattutto se hai ben steso prima il terreno con molte foglie secche…»

Socchiuse le palpebre, cercando di capire il senso di quella metafora.

«Quante persone ti odiano qua dentro! Hai mai provato a contarle? Ogni ragazzo che hai rimbeccato per la grammatica scorretta, che hai pubblicamente umiliato svelando interessanti dettagli sulla sua vita… un po’ tutti, insomma. Cominci a capire…?»

Sherlock aprì nuovamente gli occhi, realizzando finalmente l’intricato piano del ragazzo che gli stava di fronte. «E una volta data la notizia della mia assenza per droga non c’è voluto niente perché tutti ci credessero, cominciando a pensare che fossi solo un tossicodipendente…»

Jim sorrise, soddisfatto. «Vedi? E non ho fatto neanche molta fatica, hai fatto tutto tu. Quei dettagli sul passato sono soltanto tuoi… gli errori che hai commesso anche.»

«Quindi come pensi di farla finire la storia?» chiese infine, il cuore che cominciava ad aumentare il suo ritmo.

 

 

 

«Dimmi un po’ Mary, quante volte John ti ha abbandonato per il suo migliore amico? Quante volte si è dimenticato di te perché doveva fare qualche cosa di molto interessante con quello Sherlock Holmes?»

Il cuore cominciò a batterle velocemente. «Che cosa vuoi dire?»

«Andiamo… non dirmi che non ci hai mai pensato. Ti sei mai chiesta che cosa facciano quei due insieme tutti quei pomeriggi? O per quale assurdo motivo John continui a riferirsi a lui ogni santa volta?»

A quelle parole rimase interdetta, fissando il ragazzo a bocca aperta. «Mi staresti dicendo che John è innamorato di Holmes?»

L’altro strinse le spalle. «Di questo non ne sono certo, ma forse forse darei ascolto a tutte quelle voci che li riguardano… non credi?»

«Piantala di dire fesserie. John non è gay

Moriarty rise di gusto. «Solo perché non è mai stato con un ragazzo non significa certo che non sia gay… chi ti dice che non abbia represso la sua situazione solo per non essere preso di mira? Non è la prima volta che un omosessuale si nasconde agli occhi di tutti coprendosi con una ragazza… nel tuo caso, addirittura una della più popolari della scuola!»

«John non farebbe mai una cosa del genere!»

«Uhm… quanto realmente sai di lui, ragazza mia? È cresciuto in una famiglia relativamente povera, senza un padre, con una sorella alcolizzata…»

«Smettila.»

«E poi quel bacio… fossi in te mi sarei preoccupata.»

Lo guardò, esterrefatta. «Quale bacio?»

«Come, non lo sapevi?» L’espressione sorpresa sul suo volto era comicamente falsa. «È stata la causa del loro litigio! Sherlock si è spinto un po’ troppo in là e ha pensato bene di baciarlo, quella volta nel bagno… i pettegolezzi girano, lo sai?»

A quelle parole sbiancò completamente.

«E quanto si è arrabbiato John! Ma ora lo ha perdonato… proprio un bravo ragazzo.»

Mentre ripensava al discorso, si rigirò quello strano giochino tra le mani, con un’altrettanto strana levetta al centro.

 

 

 

«Ragazzo depresso si suicida nella sua scuola! Il ragazzo che soffriva di depressione, morto suicida dal tetto del rinomato liceo Barts!»

Sherlock respirò a fondo, inalando più aria possibile nel tentativo di calmare l’improvvisa agitazione. «Cosa ti fa credere che riuscirai nell’intento? Potrei benissimo aver chiesto aiuto a mio fratello, nel tragitto per venire qui…»

«Ma sappiamo entrambi che non è così, non è vero?» sogghignò l’altro. «Devi proprio odiare tuo fratello per non rivolgerti a lui in un momento cruciale come questo. Sai, per essere così intelligente sei proprio un idiota…»

Rabbrividì al suono di quella parola, quell’insulto che John gli aveva sempre rivolto scherzosamente. «E se decidessi di non farlo? Se decidessi di non buttarmi? Cosa faresti per obbligarmi? Mi punteresti una pistola alla testa?»

Moriarty sorrise, beffardo.

 

 

 

«Beh, pensaci Mary… parlargli. Magari ha solo bisogno di un aiuto esterno, magari puoi riportarlo sulla buona strada… non pensi anche tu?»

Rimase a fissarlo, inerte.

«Nel caso le cose finissero male, ecco… potresti voler dare una piccola lezioncina al tuo caro ragazzo…»

Era stato in quel momento che le aveva premuto nella mano quello strano oggetto, sorridendole rassicurante.

«Ti basterà tirare quella piccola levetta al mio segnale e John capirà il madornale errore che ha commesso…» le aveva sussurrato in un orecchio, prima di accarezzarle il volto e andarsene.

 

 

 

«Se non lo farai gli spogliatoi del campo da rugby salteranno in aria, e con loro anche tutti quelli che si stanno preparando al suo interno proprio adesso! Allora, cosa hai intenzione di fare?»

~*~

John uscì dalla biblioteca correndo, lasciano perfino cadere lo zaino a terra senza quasi accorgersene.

Si fiondò per i corridoi, correndo più velocemente che poteva, cercando di pensare razionalmente a cosa stesse accadendo sul tetto della scuola.

Il suo primo pensiero dopo aver letto il messaggio era andato a Sherlock, al fatto che sicuramente il ragazzo doveva trovarsi sul tetto: solo in un secondo momento aveva realizzato che il “qualcuno” che avrebbe potuto farsi male poteva essere effettivamente lui.

Sentiva la paura crescergli lentamente dentro, facendosi strada tra tutti quei pensieri ottimisti che non riusciva a fare a meno di formulare in situazioni di emergenza come quella. Aveva il terrore di non arrivare in tempo, di non poter fermare qualsiasi cosa stesse succedendo là sopra: non poteva permettersi di perdere Sherlock, non dopo tutto quello che era successo, e neanche che qualcuno potesse fargli del male. Aveva giurato che non lo avrebbe più abbandonato, che ci sarebbe stato quando ne avrebbe avuto bisogno.

Si fermò al secondo piano, sfinito, piegandosi sulle ginocchia e cercando di riprendere fiato.

Perché non era rimasto con lui come prefissato, quel pomeriggio? Perché non gli era rimasto al fianco, esattamente dove doveva stare?

Sherlock, Sherlock, Sherlock.

Riprese la sua corsa non appena ebbe recuperato abbastanza forze e completò le ultime rampe di scale, le gambe che a stento lo reggevano in piedi per il prolungato sforzo. Rimase sul pianerottolo per qualche secondo, respirando piano, fissando quella porta grigia che lo separava dalla terrazza esterna e da tutto quello che lì stava accadendo e sarebbe accaduto.

Non poteva sapere cosa lo stava aspettando, non poteva sapere se sarebbe tornato indietro vivo o se sarebbe morto su quel tetto. In effetti non sapeva neanche se era uno scherzo, un diversivo, o una trappola, ma in quel momento non gli importò, neanche se ciò che stava per fare lo avrebbe portato tra le braccia della morte.

Nonostante questo, John prese un respiro profondo, poi spinse definitivamente il maniglione antipanico ed uscì fuori, all’aperto, sotto la pioggia scrosciante.

~*~

Irene Adler aveva vissuto a lungo sotto l’ombra di Jim Moriarty, lo aveva seguito come un cagnolino durante i suoi anni al Barts, sapendo di essere una delle sue favorite e una delle quali si fidava maggiormente. Tuttavia non era di certo una stupida, né una sprovveduta, e sapeva che il ragazzo nascondeva qualcosa dietro a quella facciata da studente modello che si era costruito intorno. Non aveva mai osato andare oltre, cercare di capire più a fondo: non avrebbe mai neanche potuto immaginare di prendersi gioco di lui. Moriarty era troppo intelligente, se ne sarebbe sicuramente accorto se qualcosa non fosse andato per il verso giusto. E Irene non aveva alcuna intenzione di cacciarsi nei guai.

O almeno non ne aveva avuta fino a quello che sembrava un lontano giorno d’inverno, poco prima che Sherlock Holmes sparisse dalla circolazione.

Aveva accettato, felice di potersi prendere gioco di lui, e ora era lì, pronta all’azione già da qualche mese, in attesa che succedesse qualcosa, qualsiasi cosa che la collegasse al giovane ragazzo che ammirava.

Quando quel pomeriggio ricevette il messaggio di Sherlock, breve e sintetico come suo solito, sapeva già cosa fare.

~*~

La prima cosa che vide una volta fuori all’aria aperta, nonostante il brutto tempo, fu l’inconfondibile sagoma del suo migliore amico, in piedi sul parapetto. Il cuore perse un battito mentre lo guardava esterrefatto.

«SHERLOCK!» urlò poco dopo, tendendo una mano in avanti come a volerlo afferrare.

Con il cuore in gola vide il ragazzo girarsi di colpo, i capelli fradici appiattiti lungo il volto pallido ed emaciato. Il suo fu solo un debole sussurro. «John…»

«Ma bene bene… John Watson, il principe azzurro, è arrivato.»

Il mediano strizzò gli occhi e si guardò attorno, scorgendo subito l’alta figura di Moriarty poco distante da sé. «Jim…»

«Cominciavo a pensare che non saresti venuto… ma come avresti potuto? Sherlock, l’unico ragazzo di cui ti saresti mai potuto innamorare…»

Si portò una mano sulla fronte per ripararsi dalla pioggia e, ignorando deliberatamente il compagno di squadra, si voltò verso l’amico. «Scendi immediatamente di lì!»

L’occhiata che il moro gli rivolse era colma di rabbia e agitazione. «Maledizione…» lo sentì mormorare tra sé e sé.

«Ora sì che le cose si fanno interessanti! M’immagino già i titoli sui giornali, domani mattina… La tragedia omosessuale che ha sconvolto il liceo Barts, il suicidio della coppia gay vittima del bullismo adolescenziale»

John tornò a guardare Moriarty, ansimando. «Che cosa vuol dire?»

«Lascialo andare.» la voce ansiosa di Sherlock riuscì a farsi sentire sopra lo scroscio della pioggia.

«Oh Sherlock, e come potrei? Così che poi sia in grado di raccontare tutto? Ha scelto lui di venire qui, ha abboccato all’esca. Non mi resta altro da fare che simulare il vostro suicidio! Non è un bel finale per una storia? E insieme andarono verso la morte, uniti per sempre dal loro profondo amore…»

«Oh per l’amore del cielo, basta!»

«Paura John? Vedrai, sarà molto semplice…»

«Sherlock! Ti prego, scendi di lì…»

Il moro gli rivolse un’occhiata furente, toccata comunque da una punta di dolore nel sentire riecheggiare in quelle parole il panico dell’amico. Perché John doveva sempre complicare tutto in quel modo? Si morse un labbro e strinse una mano a pugno, cercando di fermare un accenno di tremore. «Mi dispiace John…»

 

 

 

«Mary!» Molly irruppe nella stanza, individuando subito la ragazza seduta in fondo, occhi alla parete. Si avvicinò di slancio, rallentando il passo quando lei le rivolse uno sguardo addolorato, gli occhi rossi per il pianto. «Mary, cosa succede?» chiese cauta.

L’altra scosse la testa. «Lasciami in pace…»

Respirò lentamente, cercando di trovare le parole più adatte. Vide quello che reggeva in mano e per poco non si prese un colpo. «Ti prego, Mary, ascoltami…»

 

 

 

Irene salì prudente gli ultimi scalini, muovendosi con passo felpato, cercando di non farsi sentire dal ragazzo in piedi di fianco alla porta, lo sguardo puntato all’esterno.

Solo quando gli fu vicina si azzardò a parlare, con un filo di voce. «Ritrovo pomeridiano sul tetto, quest’oggi, Moran?»

 

 

 

«Se non lo facciamo, farà saltare in aria il campo da rugby, John…»

Il biondo spostò gli occhi da uno all’altro, incredulo. «Moriarty… fermati ti prego. Siamo solo ragazzi dannazione! Che cosa diamine stai facendo?»

«Oh John… quanto sei ingenuo… non capisci che non ti rimane nient’altro da fare? Saltate e finiamola qui. Stiamo solo perdendo tempo per inutili sciocchezze…»

Rabbrividì, cercando qualcosa nello sguardo di Sherlock che gli dicesse quanto tutto quello fosse solo una messa in scena. Ma lui era impassibile.

 

 

 

«Mary, ascoltami, io ti capisco… davvero. John si è comportato malissimo. Ma devi capire che…» sospirò, guardandola dritto negli occhi. «Non sempre le cose vanno come vorremmo… no?» tentò un debole sorriso. «Ci siamo innamorate entrambe del ragazzo sbagliato…» sussurrò.

La bionda scosse la testa. «John era perfetto…»

«No, non lo era, se siamo in questa situazione non lo era affatto. Guardami, Mary… io non ho niente di quello che hai tu. Popolarità, bellezza, ragazzi ai miei piedi… mi sono innamorata di Sherlock. Lo sono ancora… credo.» deglutì. «Ma non gliene faccio una colpa. Dovresti sapere anche meglio di me che l’amore non funziona mai come dovrebbe.»

«Perché lui? Perché lui e non me?» chiese con un filo di voce.

«Perché è andata così. Perché John si è ritrovato in Sherlock, loro sono… sono così perfetti insieme. Insomma, li hai mai visti?»

Mary scosse la testa e si prese il viso tra le mani. «Non posso, non posso farlo…»

«Sì che puoi! Calmati, va bene? Prendi un respiro profondo… andrà tutto bene. Troveremo anche noi la nostra anima gemella un giorno. Uhm?»

«Io non…»

Si avvicinò, fino a inginocchiarsi di fronte a lei. Con gesti lenti e misurati le tolse l’oggetto di mano e la strinse in un abbraccio, sospirando sollevata quando Mary la strinse a sé in risposta, cominciando a singhiozzare sulla sua spalla.

 

 

 

Con un movimento veloce del braccio lo disarmò, approfittando della sua sorpresa, e lo colpì sulla nuca con il calcio dell’arma. «Buonanotte Seb…» sussurrò, adagiando piano il suo corpo a terra.

 

 

 

«Oh ragazzi basta! Mi sto stancando, ok? Le minacce le avete avute, ma forse non vi sono ben chiare. Seb! Vieni avanti, forza…»

Moriarty fece il grave errore di portare gli occhi al cielo e per questo non vide la figura della ragazza avanzare sul terrazzo, l’arma puntata verso di lui. Quando finalmente abbassò lo sguardo, arcuò un sopracciglio, perplesso. «Oh… oh fantastico!»

John si voltò di scatto verso la nuova arrivata, il sollievo che lo invadeva improvvisamente mentre vedeva con la coda dell’occhio Sherlock scendere dal cornicione con un lieve balzo.

«Mi hai sottovalutato, Moriarty…» cominciò il moro, camminando baldanzoso verso di loro, un ghigno soddisfatto sulle labbra. «Oh, per lo meno, non ti sei curato di tenermi continuamente sotto controllo e notare il mio piccolo cambiamento.»

Moriarty rise, una risata priva di gioia.

«Una volta, forse, avrei fatto tutto di testa mia, ma mi sono accorto in tempo che se avevo intenzione di batterti dovevo cedere e chiedere aiuto. Hai intessuto un buon piano, davvero, ma sono riuscito a superarti…»

«Sherlock Holmes, una mente a dir poco geniale direi… che mi dici di Mary?»

A quelle parole John spalancò gli occhi, spostandoli da uno all’altro.

«Completamente inoffensiva.»

«E chi ti dice che quella ragazza fosse la mia unica arma?»

«Oh, non lo era, infatti, non è così? Un semplice diversivo. La tua arma era già al lavoro…»

«Lo è ancora, o hai fermato anche quella?»

Sherlock fece una smorfia. «Ovviamente. Non c’è stato alcun allenamento oggi, ristrutturazione degli spalti, non lo sapevi?»

Moriarty alzò le braccia al cielo. «Complimenti. Pensavo non ti saresti abbassato a un tale livello di stupidità. L’amore non è un vantaggio, Sherlock.»

Il ragazzo gettò una veloce occhiata a John, il quale sentì il cuore mancargli un battito. «Ne sono consapevole e non vi cadrò più tanto facilmente. Sbagliando s’impara…» citò, guardandolo con supponenza.

«Hai calcolato tutte le tue mosse, complimenti… ma temo tu non abbia pensato al mio piano B.» disse, mentre armeggiava con le tasche della felpa, per poi tirarne fuori un’altra arma. «Hai sempre creduto che non mi sarei mai abbassato a sporcarmi le mani personalmente, non è così?» Caricò e puntò verso Sherlock, il quale s’irrigidì sul posto.

Irene strinse con più sicurezza la sua pistola. «Vuoi fare a chi spara per primo?»

«Oh dolcezza… non ti conviene giocare con me.»

Qualcosa dentro John scattò, scacciando il panico improvviso. Incrociò lo sguardo dell’amico, che a sua volta lo stava osservando, e rimase colpito dal terrore soppresso nei suoi occhi, quella muta richiesta d’aiuto, o forse una richiesta di perdono, non lo sapeva. Seppe soltanto che in quel momento una scarica di adrenalina lo invase, dandogli un coraggio che non avrebbe mai creduto di possedere. In seguito, non avrebbe più avuto dubbi su che cosa l’avesse spinto al gesto estremo.

Un rumore sordo risuonò per le scale, di passi che salivano velocemente, e in quell’esatto istante avvenne tutto, con una velocità tale che sarebbe stato difficile ricostruire l’intera scena senza perdere qualche particolare.

Le dita del ragazzo premettero leggermente di più sul grilletto, pronte a lasciare andare il colpo, quando John scattò in avanti, con la forza e la rabbia dovuta ad anni e anni di allenamento nel ruolo di mediano d’apertura della sua squadra, e si gettò verso di lui, deciso a deviare la traiettoria di un eventuale sparo.

Insieme con John anche Sherlock si buttò in avanti, un solo millesimo di secondo di ritardo, e urtò la spalla di Moriarty, il quale si era voltato verso il compagno di squadra e aveva premuto definitivamente il grilletto.

Il suono dello sparo risuonò nell’aria, nel momento esatto in cui una serie di uomini in nero si riversava sulla terrazza, accerchiando i ragazzi.

Moriarty si scrollò di dosso il moro e buttò via l’arma, portando le mani in alto.

Sherlock, invece, si lasciò spingere via e guardò come al rallentatore il suo migliore amico portarsi una mano alla coscia, un’espressione puramente sorpresa sul volto, e scivolare sul pavimento bagnato su un ginocchio, vacillando pericolosamente.

Il terrore lo invase da capo a piedi, una scarica elettrica percorse ogni centimetro del suo corpo, irrigidendo gli arti, mandando in frantumi per un momento ogni stanza del suo palazzo mentale. Gli parve di sentire il proprio cuore perdere più di un battito, e, quasi senza neanche rendersene conto, si gettò in avanti, raggiungendolo.

Non l’arteria femorale, non l’arteria femorale, non l’arteria femorale.

Si buttò in ginocchio al suo fianco e lo accolse tra le proprie braccia, adagiandolo a terra in modo che la gamba ferita rimanesse a riposo. Si sedette sui talloni, un braccio dietro la testa di John e l’altro che artigliava inconsciamente il suo maglione, e osservò attentamente la ferita, cercando invano di localizzare il punto esatto in cui il proiettile era penetrato.

John, John, John, John…

Lo tenne seduto, accostandoselo al petto, stringendo un po’ più del necessario. «Ti prego, John, resisti…»

Il ragazzo rantolò, alzando gli occhi su di lui, e le sue labbra si aprirono in un accenno di sorriso. «Sherlock…» Uno smorfia di dolore e chiuse gli occhi, respirando con forza per inalare più aria possibile.

Sherlock si avvicinò sempre più pericolosamente al suo viso, andando quasi a sfiorare il suo naso con il proprio. «Ti prego, John…»

«A-andrà tutto bene.» mormorò piano l’altro, le forze che, sentiva, lo stavano lentamente abbandonando. «Andrà tutto bene…» ripeté, socchiudendo gli occhi.

Le loro fronti si toccarono e Sherlock strinse gli occhi, spingendo un poco per poter approfondire quel piccolo contatto, cercando conforto in quelle parole, aggrappandosi al ragazzo come se fosse la sua unica ancora di salvezza in un mare in tempesta. Riaprì le palpebre solo quando sentì la mano dell’amico aggrapparsi a sua volta al colletto della sua giacca. «Tieni gli occhi fissi su di me…»

Sherlock obbedì, respirando piano e a fatica.

L’ultima cosa che John vide, prima di chiudere gli occhi, furono le lacrime che solcavano il volto del suo migliore amico, per la prima volta senza controllo; l’ultima cosa che avvertì fu il calore del suo corpo, del suo abbraccio, del suo volto a pochi centimetri dal suo; l’ultima cosa che sentì, il singhiozzo silenzioso del suo pianto.

Ti prego Dio, fammi vivere.

E tutto fu buio.

 

Continua…

 

 

 

 

 

Ok, ammetto che questa cosa comincia a sfiorare il ridicolo.

Vi giuro, in tutte le lingue del mondo e sulla testa di Moffat, che questa doveva essere la seconda e ultima parte del capitolo nove.

Ma, e c’è un ma, sono una grande [inserire insulto qui] e siccome devo sempre stravolgere tutti i programmi, siccome le scene che mi scrivo capitolo per capitolo prima di iniziare a scrivere una storia non sono mai abbastanza, siccome a quanto pare questi due piccoli idioti devono farci patire le pene dell’inferno…

C’è una parte III.

Mi dispiace, mi rendo conto che la cosa sta andando un po’ per le lunghe e vi chiedo umilmente scusa.

Per quanto riguarda il prossimo capitolo sto facendo tutto il possibile per finire di correggerlo, ma la vita reale si è messa in mezzo… Spero veramente di non dovervi fare attendere troppo <3

Gage.

   
 
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