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Autore: Gageta    20/05/2014    2 recensioni
John frequenta il liceo Barts: è al suo ultimo anno e tutto sommato le cose vanno bene. Ci sono gli ultimi mesi di duro studio, l'imminente scelta per il proprio futuro, c'è la squadra di rugby e tante ultime feste a cui partecipare, ragazze al suo seguito che uscirebbero volentieri con lui e una in particolare, Mary, con la quale farebbe di tutto pur di avere un appuntamento.
John ha sempre avuto le idee chiare: gli uomini si invaghiscono delle donne, chiedono loro un appuntamento, si innamorano e le sposano. Una cosa elementare, naturale.
John è sempre stato certo di questo, ma poi incontra Sherlock Holmes, e tutto ad un tratto non è più sicuro di nulla.
[teen!lock, Johnlock!AU]
Genere: Fluff, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Non dirò niente. Solo… passatemi l’OOC questa volta.

E non uccidetemi.

(Ho scritto il capitolo ascoltando di sottofondo Yesterday cantata da Lea Michele. Se volete una colonna sonora sotto…)

 

 

 

 

 

A quella meravigliosa persona che si sta prendendo la briga di betare ogni capitolo (e di sopportarmi, questa è una delle parti fondamentali di essere la mia beta, forse^^). Perché senza di lei quasi sicuramente ora non saremmo qui.

Happy, a very very happy birthday, lalla <3

(Vero che mi vuoi bene in fondo in fondo? *^*)

 

 

 

 

Orgoglio e Pregiudizio

Capitolo 9 – parte III

 

Seppe di essere sveglio solo quando avvertì distintamente il leggero scrosciare della pioggia, poco lontano, il ticchettare delle gocce contro il vetro di una finestra.

Rimase immobile, ascoltando il suono del proprio respiro, in attesa che la nebbia che gli affollava la mente si dissipasse almeno un poco, permettendogli di riprendere completamente il controllo del suo corpo.

La prima cosa che lo colpì, quando riaprì lentamente gli occhi, fu una forte luce bianca che tentò di mettere lentamente a fuoco sbattendo più volte le palpebre ancora impastate dal sonno. Mosse di poco il capo, strizzando di colpo le palpebre quando una fitta gli attraversò il cranio da parte a parte. Aspettò immobile che il dolore si dissipasse, poi si azzardò a gettare una nuova occhiata al soffitto. Respirò a fondo, rilassandosi qualche secondo, poi finalmente tentò di tirarsi su puntando i gomiti.

«Fossi in te non farei un simile sforzo.» La voce pacata provenne direttamente dalla sua destra e John fece appena in tempo a sentirla che una nuova fitta, questa volta alla gamba, gli mozzò il fiato. «Non ne ha alcun bisogno.»

Una sedia strusciò sul pavimento e una figura alta comparve nel suo campo visivo, avvicinandosi.

John rinunciò al tentativo di mettersi a sedere e si accasciò contro il cuscino, voltandosi verso l’uomo che si rivelò essere nient’altri che Mycroft Holmes.

«Buongiorno, John.» cominciò l’altro, un sorriso tirato che andava a dipingersi sul suo volto. «Come stai?»

Il ragazzo accolse con una smorfia il cambiamento di tono.

«Dovrei saperlo?» sbuffò, accennando comunque ad un sorriso.

«Il corpo è il tuo, nessuno può sapere meglio di te se stai bene o no. Anche se, in effetti, dal tuo punto di vista preferiresti una risposta per capire esattamente il tuo stato attuale di salute – in seguito alla ferita di arma da fuoco che ti sei coraggiosamente procurato salvando mio fratello da quello che avrebbe potuto essere un colpo mortale – e non un semplice controllo personale delle facoltà fisiche, che potresti benissimo trovare ascoltando a fondo il tuo corpo. Non ha molto senso chiederselo quando posso tranquillamente darti il parere del medico che è passato di qua giusto cinquantatre minuti fa. In ogni caso, la mia era una domanda di cortesia.» concluse Holmes, guardandolo dall’alto in basso.

John sbatté un paio di volte le palpebre, stordito dal fiume di parole, e poi annuì lentamente, attento a non procurarsi altre probabili fitte. «Credo… penso di stare bene.»

«In questo caso posso assicurarti che hai ricevuto le migliori cure che sono riuscito a trovare e sei in buona salute. L’operazione è andata a dovere senza lasciare danni permanenti. Fortunatamente il proiettile ha evitato l’arteria femorale, anche se ci è andato molto vicino. Hai avuto… fortuna.»

Si passò una mano sulla fronte, ignorando le ultime parole dell’uomo: di certo non aveva nessuna intenzione di pensare a quanto fosse andato vicino alla morte, non dopo essersi risvegliato sano e salvo in un comodo letto di ospedale.

«E Sherlock? Dov’è? Sta bene?» chiese poi, quando il ricordo del volto dell’amico gli tornò alla mente, pallido e tirato sotto la pioggia continua.

«Si sveglia dopo aver rischiato la morte, senza sapere neanche come si è trovato in una simile situazione, e la prima cosa cui pensa è mio fratello. Mi sorprendi, John…»

Arrossì di colpo, trovando fastidioso il ritorno alla formalità nel suo tono. Ignorò il suo sorrisetto a fior di labbra e guardò da un’altra parte, cercando di far defluire via il sangue dal volto pensando a qualcosa che non fosse il viso di Sherlock a pochi centimetri di distanza dal suo.

«Sta… bene. Neanche un graffio per sua grande fortuna. È rimasto qui in ospedale fino a quando non abbiamo ricevuto la notizia che eri fuori pericolo, e a quel punto è tornato a casa senza una parola. Non ha voluto mettere piede fuori in questi giorni…»

A quelle parole John deglutì, sperando con tutto il cuore di non aver ferito in qualche altro modo l’amico. Ricordava fin troppo bene la sua rabbia quando era arrivato sul tetto, il suo volto furioso quando lo aveva visto, come se fosse arrabbiato con lui per essere venuto.

«Suppongo che avrete modo di vedervi una volta fuori da questo posto, non è così chiuso in se stesso da non volerti vedere. Credo.»

John annuì e sospirò. «Mia… madre? E mia sorella?»

«Oh, stavano andando a mangiare quando sono arrivato. Spero non se la prenderanno se non sono riuscite a vedere il tuo risveglio.» rimase in silenzio, forse aspettando altre domande, ma quando John gli lanciò un’occhiata di traverso si rese conto della domanda sottointesa e spalancò impercettibilmente gli occhi. «E ovviamente stanno bene. Un po’ preoccupate, ma suppongo che stiano bene…»

Chiuse gli occhi e sorrise divertito: gli Holmes non sarebbero mai cambiati. «Quindi… perché sei qui?» chiese infine.

L’altro sospirò. «Perché ho ragione di credere che tu voglia sapere qualcosa di tutto quello che è successo, e sono l’unico, a parte Sherlock, in grado di raccontarti come sono andate le cose per filo e per segno.»

«Bene. Era tutto organizzato? Nei minimi dettagli? Non c’era il rischio che Sherlock morisse se non fossi andato sul tetto?»

Mycroft sorrise, fortunatamente non visto dall’altro che aveva ancora gli occhi chiusi. «Esattamente. Non avevo calcolato il fattore John Watson, anche se ammetto che la piega che ha preso la faccenda è migliore di quanto avessi programmato.»

«Cos’era in programma?»

«Un finto suicidio.»

John aprì gli occhi e lo guardò, stupito. «Finto?»

«Sì, una cosa un tantino complicata. Penso che Sherlock sarà felice di illustrartela in un altro momento, magari quando sarai più lucido.»

«Quindi… Sherlock aveva un piano diverso?»

«Il mio adorato fratellino deve sempre fare di testa sua… Sì, aveva un piano tutto suo. Sono rimasto piacevolmente stupito dalla quantità di persone che è riuscito a coinvolgere.»

«In che modo?»

«Oh beh… mi pare di aver capito che la signorina Molly Hooper avesse il compito di sorvegliare Mary Morstan, Irene Adler di sorvegliare Sebastian Moran e arrivare in caso di bisogno, mentre Gregory Lestrade il compito di chiamarmi una volta giunto il momento. Ho fatto il possibile per arrivare quanto prima. E siamo riusciti ad evitare una probabile morte per dissanguamento, il che mi sembra un ottimo risultato.»

John si accigliò. «Perché non mi è stato detto niente di tutto questo?»

Mycroft stette un attimo in silenzio, soppesando le sue parole, poi scosse la testa. «Non so cosa passasse per la mente di mio fratello, perdonami.»

«E Moriarty che fine ha fatto?»

«Avremo il verdetto finale solo domani, ma credo che qualche annetto in carcere se lo farà. Per quanto la situazione potrà essere in mio potere tenterò di fare del mio meglio perché sia più tempo possibile.»

Avrebbe voluto fare un milione di altre domande, ma in quel momento la porta della stanza si aprì e Mycroft per poco non fu travolto dal passaggio di Jocelyn Watson e della figlia che accorsero subito al letto di John, la prima regalandogli un lungo abbraccio e la seconda rimanendo un attimo in disparte per poi prendersi il suo tempo nell’abbracciare il fratello a sua volta e ricoprirlo d’insulti per lo spavento che gli aveva fatto prendere.

John vide solo con la coda dell’occhio il maggiore degli Holmes alzarsi con un’assurda tranquillità, sistemarsi la giacca addosso e uscire in silenzio senza più alcuna parola.

Riuscì a sopportare tutte le chiacchiere delle due donne solo al pensiero che dopo quello che era successo avrebbe potuto non rivederle mai più, e quando la prima tempesta si calmò accettò di buon grado la chiacchierata che seguì, anche se non riuscì a fare a meno di estraniarsi dalla conversazione quando gli tornavano alla mente certi particolari che andava a confrontare direttamente con alcuni ricordi appartenenti al suo passato.

Ad un certo punto non riuscì più ad ignorare il mal di testa e una smorfia di dolore lo tradì agli occhi della madre, che gli consigliò di tornare a dormire, per poi rimboccargli le coperte e salutarlo con un bacio in fronte. Harriet lasciò che la madre uscisse prima di sussurrargli all’orecchio: «Sherlock è il ragazzo perfetto.»

Gli fece l’occhiolino, con l’aria di chi sa il fatto suo, per poi uscire rincuorata dal leggero rossore che aveva imporporato le guance del fratello.

L’ultima cosa cui John pensò prima di addormentarsi, stranamente, furono un paio di dolci labbra poggiate con delicatezza sulle sue, umide di pianto, un ricordo che non credeva di avere ma che ebbe il potere di trasportarlo nuovamente nel regno dei sogni.

~*~

«Allora come sta?»

Mycroft scrutò attentamente il ragazzo al suo fianco, spostando poi lo sguardo sul marciapiede e sulla strada, scivolando sull’auto nera che lo stava pazientemente aspettando.

«Sorprendentemente bene. Pensavo sarebbe stato per lo meno scosso, e invece…»

«E Sherlock?»

Sospirò. «A Baker Street. Non vuole saperne di uscire. Credo che sia… come si dice? Emotivamente provato.»

Greg lo guardò con una scintilla di divertimento nello sguardo. «Ma davvero? Sherlock emotivamente provato?»

«Ho tentato di fargli capire quando fosse inutile…»

«A volte mi chiedo come possano essere così idioti quei due.» continuò Lestrade, ignorando accuratamente l’affermazione che, sapeva, l’amico stava per fare. «Si vede lontano un miglio quello che provano l’uno per l’altro. Giuro che se non si mettono insieme dopo quello che è successo li strozzo, uno dopo l’altro.»

Mycroft sospirò, non cogliendo l’allusione dell’altro. «Dillo a Watson, Lestrade, mio fratello ha fatto di tutto per attirare le sue attenzioni.»

Il ragazzo lo guardò, stranito. «E cosa avrebbe fatto, esattamente?»

«Oh beh, di tutto… Si vedono tutti i pomeriggi, o almeno quasi tutti. Lo invita sempre a casa sua, parlano sempre… insieme. Parlano di cose che probabilmente interessano solo a Sherlock, temo, ma credo che sia il suo modo per dimostrargli quanto ci tiene a lui e-»

«Mycroft.»

Si girò appena verso Greg, sorprendendosi della sua espressione divertita. «Sì?»

«Siamo sicuri di star parlando delle stesse due persone?»

Deglutì a vuoto, rigirandosi l’ombrello tra le mani con aria distratta, una stretta al petto indesiderata lo distrasse per un attimo dal filo del discorso. «E di chi dovrei mai parlare, Lestrade?»

Sorrise. «Stai usando un tono troppo formale, Mycroft, stai mettendo le distanze…»

Spalancò impercettibilmente gli occhi. «No, non è vero.»

Greg sospirò debolmente e distolse lo sguardo. «Credo che accetterò il tuo invito.»

«Q-quale invito?»

«Quello che mi proporrai domani via telefono per discutere a casa tua di argomenti di cui non me ne importa una beata mazza.» Osservò con la coda dell’occhio il compagno arrossire violentemente sulle guance, prima di girarsi e cominciare a camminare.

«A domani Mike.» urlò quando fu a qualche metro di distanza, allungando un braccio in mezzo alla strada nel tentativo di fermare un taxi di passaggio.

«Mycroft.» ribadì l’altro a bassa voce, una volta che Lestrade salì a bordo dell’auto, senza tuttavia poter fare a meno di nascondere un sorrisetto soddisfatto.

~*~

Avanzò zoppicando tra le file di lastre in marmo, sostenuto da una parte dalla stampella e dall’altra da Harriet che, lentamente, procedeva al suo fianco tenendolo saldo per un braccio.

Sorpassarono decine e decine di nomi, date, foto sbiadite dal tempo e fiori avvizziti per mancanza d’acqua, fino a quando non raggiunsero la fila di tombe recanti una data che conoscevano molto bene. Sorpassarono varie lastre, fino a fermarsi davanti a una tomba nera come la pece, del tutto spoglia, recante solo il nome di Jonathan Watson e le date di nascita e morte in un’articolata scrittura a ghirigori.

Harriet lasciò il suo braccio e si chinò in avanti, posando sul terreno ai suoi piedi un mazzetto di fiori bianchi, i preferiti della mamma, sostituendoli a quelli già presenti che infilò noncurante nella borsa a tracolla, con l’intenzione di buttarli più tardi.

Rimasero in silenzio, gli sguardi posati su quelle parole che tante volte avevano visto, quelle due date che racchiudevano in un trattino una vita intera, passata prima in un campo di battaglia e poi in una casa, a crescere una famiglia.

John sentì le lacrime pungergli gli occhi ma si trattenne, ricacciandole indietro con forza. La consapevolezza di averlo perso era ormai parte della sua vita, era passato molto tempo da quel lontano giorno di primavera, ormai avevano metabolizzato la cosa. Solo che, in quel momento, dopo quello che era successo, sentiva di doversi sfogare in qualche modo, forse riversando quelle lacrime che aveva sempre trattenuto, come una prova di forza interiore.

Passò qualche minuto a osservare la pietra e i fiori, rimuginando tra sé e sé, poi si girò verso Harriet. «Posso… rimanere un attimo da solo?»

La ragazza lo guardò interrogativa, poi annuì e si avviò sul selciato, raggiunse un albero e si appoggiò al tronco, sorvegliando il fratello da lontano.

John la osservò distante, poi tornò a guardare la lastra di marmo nero e inspirò a fondo, lasciando che l’aria fredda di fine inverno lo invadesse, dandogli un po’ più di lucidità.

«Hai… ci hai sempre raccontato tante storie…» cominciò, ripercorrendo con la mente interi pomeriggi passati sulle ginocchia di suo padre, seduto sulla poltrona vicino al camino nella loro vecchia casa. «Amavo quelle di guerra. Lo sapevi, vero? Non facevi altro che raccontarmene, anche se Harriet le odiava.» Sorrise lievemente al ricordo. «Ti ammiravo molto… ero, ero orgoglioso. Il mio papà soldato, colui che combatteva per salvare vite. Avevo una fervida immaginazione.»

Sospirò e percorse con lo sguardo la fila di lastre accanto a quella del padre. «Ho sempre desiderato diventare come te. Arruolarmi e… e fare tutto quello che mi hai sempre raccontato. Volevo che fossi orgoglioso di me.»

Si bloccò e si morse un labbro, respirando a forza per scacciare la tristezza che rischiava di sopraffarlo. Tornò a guardare la tomba, cercando di concentrarsi e di eliminare ogni brutto pensiero.

«E ce n’era anche un’altra, di storia. Era quella che seguiva il congedamento dall’esercito. La preferita di Harriet. Beh, piaceva anche a me, ovviamente, forse era al secondo posto.» ridacchiò tra sé e sé. «Ci raccontavi di come avessi conosciuto la mamma; del primo momento in cui l’avevi vista, di come ti fossi innamorato subito di lei. Ho sempre pensato che l’avessi romanzata un po’ troppo…

«Insomma. Ho provato sulla mia pelle che l’amore a prima vista non esiste…» Sospirò nuovamente e spostò il peso da una gamba all’altra per non sforzare troppo il braccio che teneva la stampella.

«Dicevi che senza di lei probabilmente non saresti resistito al dopoguerra, che era stata il tuo sostegno, la tua ancora di salvezza. Mamma amava quella parte della storia…» Abbassò lo sguardo, chiudendo gli occhi e strizzando le palpebre nel tentativo di visualizzare il suo volto, così come lo ricordava. «Lei ti guardava, tu la guardavi e… e ci dicevi che un giorno l’avremmo trovata anche noi, la nostra persona speciale. Qualcuno di cui fidarsi ciecamente, alla quale avremmo affidato la nostra stessa vita. Qualcuno da amare, proteggere e…» la voce gli si spezzò e dovette rimanere in silenzio per un paio di minuti per recuperare il contegno.

«Io voglio arruolarmi, papà. Voglio… voglio seguire il mio sogno, voglio che tu possa essere fiero di me.» Una lacrima sfuggì al suo autocontrollo e gli rigò il volto.

«Ma cosa avresti fatto se avessi incontrato la mamma prima di partire?» strinse le labbra, il cuore che cominciava a battergli più forte nel petto. «Cosa avresti fatto se avessi subito incontrato la tua persona speciale? Avresti avuto il coraggio di abbandonarla?» deglutì e chiuse gli occhi, passandosi poi una mano sulla fronte.

Aspettò, in silenzio, aspettò una risposta che, sapeva, non sarebbe mai arrivata.

Voglio solo sapere, papà, voglio sapere cosa avresti fatto tu al mio posto pensò disperatamente, le mani chiuse a pugno nel tentativo di ascoltare quella voce di cui tanto parlavano, la voce della coscienza, quella voce che potesse dirgli cosa fare.

Una goccia. Due gocce caddero, seguite subito da una terza. Alzò lo sguardo, osservò quell’immenso spazio che si perdeva su, all’infinito, quelle nuvole grigie cariche di pioggia. Sorrise amaramente: perfino il cielo aveva cominciato a piangere per lui, per l’assurda situazione in cui si trovava.

Ripensò a sua madre, al suo sorriso triste ogni volta che vedeva la foto di Jonathan sulla mensola di sala. Ripensò a quella foto, dove l’uomo sorrideva con una spalla fasciata, quella spalla dove si trovava la cicatrice di quel proiettile che aveva rischiato di ucciderlo. Cosa sarebbe successo se suo padre avesse perso la vita durante qualche sua spedizione? O se non avesse mai conosciuto sua madre?

Cosa sarebbe successo se quella sera di qualche mese prima non avesse messo piede alla festa di Clara? Cosa sarebbe successo se fosse morto, là sul tetto?

Harriet si staccò dal tronco e cominciò a camminare verso di lui, aprendo un ombrello per ripararsi dalla pioggia sempre più fitta.

John gettò ancora un’occhiata al nome di suo padre, custodito per sempre nella pietra e tra i suoi ricordi, che custodiva gelosamente quasi fossero un secondo cuore. Guardò quel nome un’ultima volta e, tranquillamente, sorrise. «Lo so cos’avresti fatto. Lo so, e sono un idiota per averne anche solo dubitato.»

«Andiamo John? Comincia a farsi un po’ brutto…»

Annuì alle parole della sorella e sotto il suo sguardo rizzò la schiena, salutando suo padre come gli aveva insegnato da piccolo, petto in fuori e mano sulla fronte, poi prese sottobraccio la sorella e si avviò verso l’uscita del cimitero.

Era giunto il momento di prendere in mano la situazione.

~*~

La pioggia batteva violentemente sul vetro della finestra, coperta solo dal suono melodioso del violino. L’archetto scorreva leggero sulle corde, guidato dalle agili dita di Sherlock, che, rivolto verso la finestra ad occhi chiusi, si lasciava trasportare dalla dolce melodia, dando al piccolo salotto un senso di pace e tranquillità. Le note si susseguivano una ad una, creando un’armonia perfetta tra loro. Lo spartito dove erano state appuntate le note giaceva inosservato sul suo leggio: fin dall’inizio del brano non era stato consultato neanche per un istante.

John, seduto alla sua solita poltrona, osservava distrattamente il corpo smilzo dell’amico muoversi al ritmo incalzante della musica, una mano che stringeva nervosamente il bracciolo e l’altra che teneva in equilibrio tra le labbra una tazzina di the quasi fredda.

Per un attimo il motivo rallentò, fin quasi a spegnersi, per poi riaccendersi improvvisamente con un’acuta nota strascicata. John rabbrividì d’istinto e la sua mano tremò, tanto che dovette stringere più forte il bracciolo della poltrona per tentare di fermarla. C’era qualcosa di estremamente famigliare in quella straziante melodia, qualcosa che gli stringeva il cuore e che gli impediva di respirare correttamente. Ma non era solo quella composizione a fargli venire i brividi, c’era anche della paura, radicata nel profondo, quella stessa paura cieca che lo aveva colto alla sprovvista la mattina del suo risveglio, quando Sherlock non era lì all’ospedale, la stessa che aveva provato per giorni dopo il bacio nel bagno, quella paura che si riferiva sempre e solamente a Sherlock. Uno strano nodo gli strinse la gola, tanto che la mano tremò nuovamente e dovette sporgersi in avanti per riappoggiare la tazzina sul vassoio prima di rischiare qualche brutto danno.

Il moro dovette accorgersene, perché un attimo dopo girò di poco il capo verso di lui e abbassò di colpo l’archetto, interrompendo la musica.

«Non ti piace?» la sua voce risuonò roca e leggermente irritata mentre volgeva lo sguardo verso di lui e lo trafiggeva con i suoi occhi chiari.

John ricambiò lo sguardo e sorrise lievemente. «No… è bellissima. L’hai composta tu?»

Sherlock tornò a rivolgere lo sguardo verso la finestra. «È dedicata a una persona speciale.»

Lo stomaco gli fece una capriola mentre scrutava con gli occhi la sua figura avvolta nella vestaglia blu notte. Tremò ancora, impercettibilmente, e dovette trattenersi dal compiere gesti improvvisi, imponendosi di mantenere il piano che si era fissato in testa, quello che aveva programmato attentamente nei giorni di convalescenza. Immobile sulla poltrona ascoltò il cuore accelerare improvvisamente i suoi battiti e deglutì a forza, rimanendo in silenzio, lasciando che l'eco di quelle parole alleggiasse nell'aria intorno a loro.

Sherlock stava per ricominciare a suonare quando John spezzò il silenzio, stupendosi egli stesso per la fermezza del suo tono di voce. «Pensavo di vederti all'ospedale questo pomeriggio. Pensavo saresti stato lì quando mi avrebbero dimesso. Almeno quello…»

Il moro s’irrigidì, stringendo con un po’ più di forza il sottile legno nelle sue mani, rischiando di graffiarsi con le corde. Tuttavia non si scompose e tenne lo sguardo fisso fuori dalla finestra. «Perché?» mormorò, sicuro di essere sentito nonostante avesse parlato con un filo di voce.

John deglutì a vuoto e sorrise. «Perché è così che si fa con le persone speciali, con le persone cui vogliamo bene.»

«Ma davvero…» rispose secco il moro, azzardando un movimento veloce del braccio ed emettendo una nota stridula che gli fece venire la pelle d’oca.

Trattenne il respiro, guardandolo con profonda tristezza. «Ho per caso frainteso?»

Sherlock sbuffò sonoramente e roteò l’archetto come una spada, fendendo l’aria e producendo un sonoro schiocco, che, al contrario di quanto avrebbe voluto, non spaventò affatto John. Rimase a fissare la libreria di fronte a sé, posando gli occhi su tutto fuorché sull’amico.

«Mary mi avrà volentieri sostituito.»

Il biondo si lasciò sfuggire un sorriso. «Nessuno potrebbe mai sostituirti…»

Ecco la scintilla, quel guizzo veloce d’incomprensione nel suo sguardo. Osservò la reazione di Sherlock, mentre si girava e lo scrutava, impassibile.

«…neanche Mary. E non credo vorrà anche solo provarci, da qui in avanti.»

Un’ombra d’incertezza attraversò il suo volto, la mente che volava già alla ricerca di tutti quei dettagli che gli erano sfuggiti, collegandoli e cercando di dare un senso alle sue parole. «Perché?» chiese infine, una nota di curiosità nella voce. «È quello che fanno le persone che ci vogliono bene…» aggiunse sarcasticamente.

John non riuscì a trattenere un sorriso trionfante. «Perché ci siamo lasciati. Io l’ho lasciata, per la precisione.»

Questa volta il viso di Sherlock assunse un’espressione di pura sorpresa, mentre si voltava completamente verso di lui. Rimase immobile, senza neanche respirare.

John distolse lo sguardo e con un sospiro raccolse la stampella da terra. Facendo forza su di essa, si alzò lentamente, emettendo un grugnito infastidito alla fitta di dolore che gli attraversò la gamba, e fece qualche passo in avanti, avvicinandosi all’amico. Anche se non lo diede a vedere, il cuore cominciò a battergli all’impazzata per l’agitazione, sentendo che il momento si stava avvicinando.

Il moro osservò e registrò ogni suo movimento, ogni più piccola mossa delle sue mani e del suo corpo. Colse al volo il brusco piegamento della gamba malata sotto al suo peso, il tremolio della sua mano sulla stampella, il chiudersi e riaprirsi nervoso dell’altra nell’aria. Ma più di tutto, il suo sguardo fu catturato dai suoi occhi azzurro scuro, dalla morbidezza nelle piccole rughe della sua fronte, dalla dolcezza che emanava quel volto così famigliare ma allo stesso tempo ancora così sconosciuto. Perché l’espressione che John aveva in quel momento gli era del tutto nuova, un’espressione che mai era comparsa in sua presenza, che mai gli aveva rivolto.

E improvvisamente ebbe paura.

John si fermò a meno di mezzo metro di distanza, chiudendo gli occhi con forza nel ricercare quelle parole che aveva scelto con cura, ma che in quel momento sembravano essere state cancellate dalla sua mente.

«Ho… credo che…» deglutì, riaprendo le palpebre e fissandolo nuovamente dritto negli occhi, perdendosi nella bellezza di quell’assurdo colore a metà tra il verde chiaro e l’azzurro, il ghiaccio e una giornata poco nuvolosa. Alla complessità di quegli occhi si ammutolì, decidendo che i fatti erano decisamente meglio delle parole.

Ebbe ancora un momento d’esitazione, poi coprì definitivamente la distanza che li separava, allungando una mano verso il suo viso. Sherlock scattò istintivamente all’indietro, confuso e impaurito da quello che stava succedendo, ma non fu abbastanza veloce e John riuscì a bloccarlo con una mano dietro al collo.

John risalì lentamente verso il suo viso, accarezzò lentamente con il pollice la sua pelle, scivolando in una lieve carezza sullo zigomo e la mandibola, il cuore in gola.

Poi, con una lentezza quasi esasperante, si sporse definitivamente in avanti e poggiò le labbra sulle sue, spezzando una volta per tutte quella sottile barriera che le aveva tenute separate per tutto quel tempo. Chiuse gli occhi, lasciando che quel contatto lo inebriasse, ubriacasse, che il lieve peso di quelle labbra così dolci, così pure e inesplorate si sovrapponesse al ricordo che già ne aveva, quello di mesi prima.

Sherlock rimase immobile sul posto, rigido, il cuore che sembrava quasi volergli uscire dal petto da quanto batteva velocemente. Spalancò gli occhi in un muto grido di stupore, il cervello che tentava di registrare ogni singolo millimetro di pelle davanti ai suoi occhi, la sensazione di quelle labbra sulle sue, del tocco morbido del suo naso sulla guancia dell’altro. Andò in panne, sopraffatto dalla molteplicità di tutte le emozioni che lo attraversavano.

John si staccò dopo quelli che sembrarono interminabili secondi più tardi. Lo guardò, gli occhi colmi di una felicità che credeva essere impossibile da provare. «Ancora meglio di quello che ricordavo…» mormorò, il fiato caldo che andava ad infrangersi sul volto bollente dell’altro.

All’espressione totalmente persa di Sherlock, tuttavia, John sentì il proprio sorriso scivolare via, la sua felicità affievolirsi, toccata dalla fragilità di quegli occhi.

Lasciò cadere senza esitazione la stampella a terra e lo trasse a sé con il braccio finalmente libero, stringendogli la vita. L’altra mano scivolò sulla sua pelle e andò a infiltrarsi tra i suoi riccioli, spinse in avanti il capo e lo andò a posare sulla sua spalla, incassandolo poi nel collo. «Oh, Sherlock…» mugugnò, la voce che cominciava a tremargli per l’emozione. Chiuse gli occhi, sentendosi prossimo alle lacrime. «Mi dispiace, mi dispiace tantissimo…» premette il volto contro la pelle lasciata nuda dalla maglietta, aspirando a fondo il suo buon odore. «Ti prego perdonami… mi dispiace…»

Lo strinse ancora di più a sé, sentendolo fin troppo rigido tra le sue braccia. Perdonami, perdonami per la mia stupidità, per la mia cecità, per averti lasciato solo quando non avrei dovuto. Perdonami, ti prego…

Stava quasi per staccarsi, preoccupato di essersi spinto troppo in là, quando il corpo del ragazzo si ammorbidì, il suo volto fece per muoversi in avanti e trovare spazio contro la spalla di John.

Strinse di più gli occhi, il sorriso che tornava a prendere possesso delle sue labbra mentre le mani di Sherlock si arrampicavano goffamente sul suo maglione, risalivano timidamente lungo la sua schiena e lo stringevano, dapprima piano, poi con più forza. «John…»

Il ragazzo lasciò che una lacrima gli solcasse il volto mentre premeva le labbra contro il suo collo, lo accarezzava con gentilezza sulla nuca, aggrovigliando le dita tra i suoi riccioli. «Va bene, va tutto bene… sono qui.»

Lo sentì tremare contro il suo petto e lo strinse di più a sé, lasciando piccoli baci sulla sua pelle e cullandolo con un leggero ondeggiamento delle gambe, per quanto la sua ferita glielo permettesse. Lasciò che si rilassasse nel suo abbraccio, che cercasse conforto nella sua stretta. Quando un lieve singhiozzo uscì dalle sue labbra sciolse l’abbraccio per poterlo guardare in viso e venne travolto da un’ondata di dolore nel vedere le lacrime solcare le sue guance. Gli prese il volto tra le mani e tornò ad unire le loro labbra, lasciandoci una serie di baci a stampo, ancora non sicuro di volersi spingere troppo in là per paura di ferirlo. Gli sembrava di avere tra le braccia un prezioso vaso di ceramica, pronto a spezzarsi e andare in frantumi al minimo passo falso.

Dopo quelle che parvero ore Sherlock si calmò e strinse il suo maglione con più forza, tirandolo verso di lui.

Non seppe come finirono sul divano, come fece a camminare fin lì con la gamba malconcia.

Fatto sta che si ritrovò seduto in un angolo, adagiato contro una pila di cuscini, Sherlock accoccolato contro di sé, con gli occhi lucidi e il respiro che andava ad accarezzargli il petto. John lo stringeva, possessivamente. Gli mormorava parole di conforto, continuando il movimento delle dita tra i suoi capelli; gli stuzzicava il volto con il naso, regalandogli qualche bacio leggero sulle labbra, sulle guance, sulla fronte e tra i capelli.

Come aveva potuto rifiutarlo, come aveva potuto anche solo pensare di poter scappare da tutto quello. Guardava quel ragazzo fragile tra le sue braccia, ne sentiva il dolce peso, il calore che esso emanava e si beava di quella visione, come un bambino in un negozio di caramelle: il suo piccolo tesoro, il fiore sbocciato al sorgere del sole, una goccia d’acqua colorata in un bicchiere colmo fino all’orlo.

Il suo pericolo vivente.

Aveva sognato fin da piccolo di trovare il proprio campo di battaglia, di potersi sentire come suo padre. Ed era sempre stato tutto lì, a portata di mano. Era bastato Sherlock, senza inutili accademie e arruolamenti, bastava solo lui e sentiva di non volere nient’altro.

Troppo orgoglio, troppa infantilità nel suo relazionarsi con i sentimenti, troppa paura del giudizio altrui. Aveva evitato a lungo tutto quello, lo aveva tenuto lontano per paura di stravolgere il suo mondo. Ma il suo mondo era stato stravolto nel momento esatto in cui Sherlock aveva aperto bocca a quel cellulare, quella dannata – bellissima, benedetta – sera. Era come se in quell'istante le loro vite si fossero toccate, i fili delle loro esistenze incrociati, intrecciati col passare del tempo, per giungere infine al culmine, in quella stanza, in quel giorno, in quella situazione.

Intrecciò le dita con quelle del ragazzo, cominciando a muovere il pollice in circolo sul dorso della sua mano.

Sherlock aprì di poco gli occhi, alzando lo sguardo verso di lui.

Bellissimo, bellissimo e suo, soltanto suo.

Gli sorrise, inebriato della sua presenza. «Non lasciare che me ne vada, mai più…» sussurrò, chinandosi per sigillare quel patto con l’ennesimo bacio, questa volta cercando un contatto più approfondito. Gli prese il volto tra le dita, saggiando con cura le sue labbra, sfiorandole timidamente con la punta della lingua, rabbrividendo di piacere.

Quando si staccarono Sherlock stese le labbra in un sorriso colmo di gioia, e andò a sfiorare il suo naso con il proprio. «Non lo farò.» disse, respirando sulla sua pelle.

John sorrise, le lacrime che ormai non erano più trattenute, e lo strinse di più a sé in risposta.

Passarono il resto del pomeriggio così, accoccolati l'uno all'altro a scambiarsi baci e carezze, annebbiati dalla dolcezza del momento, e quando giunse la sera si addormentarono insieme, stanchi per i troppi spaventi e per le troppe nuove e forti emozioni appena scoperte.

Quella notte, John non tornò a casa.

 

 

*si asciuga lacrimuccia*

Ci sono voluti la bellezza di 11 capitoli ma alla fine ce l’abbiamo fatta! *applauso ai due protagonisti*

Ma non pensate che sia finita qui… *buahahaha*

E ora lasciamoli lì, i nostri due piccoli idioti *^*

Vi sussurro un veloce salutino, ci risentiamo con l'ultimo capitolo! (questa volta veramente l’ultimo xD)

(Ultimo capitolo… oddio, suona troppo triste… D:)

   
 
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