Non dirò niente. Solo… passatemi l’OOC questa
volta.
E non uccidetemi.
(Ho scritto il capitolo ascoltando di sottofondo Yesterday cantata da Lea Michele. Se volete una colonna
sonora sotto…)
A quella meravigliosa persona
che si sta prendendo la briga di betare
ogni capitolo (e di sopportarmi, questa è una delle parti fondamentali di essere
la mia beta, forse^^). Perché senza di lei quasi sicuramente ora non saremmo qui.
Happy, a very very happy birthday, lalla <3
(Vero che mi vuoi bene in fondo in fondo? *^*)
Orgoglio e Pregiudizio
Capitolo 9 – parte III
Seppe di essere sveglio solo quando avvertì
distintamente il leggero scrosciare della pioggia, poco lontano, il ticchettare
delle gocce contro il vetro di una finestra.
Rimase immobile, ascoltando il suono del proprio
respiro, in attesa che la nebbia che gli affollava la mente si dissipasse almeno
un poco, permettendogli di riprendere completamente il controllo del suo corpo.
La prima cosa che lo colpì, quando riaprì lentamente
gli occhi, fu una forte luce bianca che tentò di mettere lentamente a fuoco sbattendo
più volte le palpebre ancora impastate dal sonno. Mosse di poco il capo, strizzando
di colpo le palpebre quando una fitta gli attraversò il cranio da parte a parte.
Aspettò immobile che il dolore si dissipasse, poi si azzardò a gettare una nuova
occhiata al soffitto. Respirò a fondo, rilassandosi qualche secondo, poi finalmente
tentò di tirarsi su puntando i gomiti.
«Fossi in te
non farei un simile sforzo.» La voce pacata
provenne direttamente dalla sua destra e John fece appena in tempo a sentirla
che una nuova fitta, questa volta alla gamba, gli mozzò il fiato. «Non ne ha alcun
bisogno.»
Una sedia strusciò sul pavimento e una figura
alta comparve nel suo campo visivo, avvicinandosi.
John rinunciò al tentativo di mettersi a sedere
e si accasciò contro il cuscino, voltandosi verso l’uomo che si rivelò essere nient’altri
che Mycroft Holmes.
«Buongiorno, John.» cominciò l’altro, un sorriso
tirato che andava a dipingersi sul suo volto. «Come stai?»
Il ragazzo accolse con una smorfia il cambiamento
di tono.
«Dovrei saperlo?» sbuffò, accennando comunque ad un sorriso.
«Il corpo è il tuo, nessuno può sapere meglio di te se stai bene o no. Anche
se, in effetti, dal tuo punto di vista preferiresti una risposta per capire esattamente
il tuo stato attuale di salute – in seguito alla ferita di arma da fuoco che ti
sei coraggiosamente procurato salvando mio fratello da quello che avrebbe potuto
essere un colpo mortale – e non un semplice controllo personale delle facoltà fisiche,
che potresti benissimo trovare ascoltando a fondo il tuo corpo. Non ha molto senso
chiederselo quando posso tranquillamente darti il parere del medico che è passato
di qua giusto cinquantatre minuti fa. In ogni caso,
la mia era una domanda di cortesia.» concluse
Holmes, guardandolo dall’alto in basso.
John sbatté un paio di volte le palpebre, stordito
dal fiume di parole, e poi annuì lentamente, attento a non procurarsi altre probabili
fitte. «Credo… penso di stare bene.»
«In questo caso posso assicurarti che hai ricevuto le migliori cure che sono
riuscito a trovare e sei in buona salute. L’operazione è andata a dovere senza lasciare
danni permanenti. Fortunatamente il proiettile ha evitato l’arteria femorale, anche
se ci è andato molto vicino. Hai avuto… fortuna.»
Si passò una mano sulla fronte, ignorando le
ultime parole dell’uomo: di certo non aveva nessuna intenzione di pensare a quanto
fosse andato vicino alla morte, non dopo essersi risvegliato sano e salvo in un
comodo letto di ospedale.
«E Sherlock? Dov’è? Sta bene?» chiese poi, quando il ricordo del volto dell’amico
gli tornò alla mente, pallido e tirato sotto la pioggia continua.
«Si sveglia dopo aver rischiato la morte, senza sapere neanche come si è trovato
in una simile situazione, e la prima cosa cui pensa è mio fratello. Mi sorprendi, John…»
Arrossì di colpo, trovando fastidioso il ritorno
alla formalità nel suo tono. Ignorò il suo sorrisetto a fior di labbra e guardò
da un’altra parte, cercando di far defluire via il sangue dal volto pensando a qualcosa
che non fosse il viso di Sherlock a pochi centimetri di distanza dal suo.
«Sta… bene. Neanche un graffio per sua grande fortuna. È rimasto qui in ospedale
fino a quando non abbiamo ricevuto la notizia che eri fuori pericolo, e a quel punto
è tornato a casa senza una parola. Non ha voluto mettere piede fuori in questi giorni…»
A quelle parole John deglutì, sperando con
tutto il cuore di non aver ferito in qualche altro modo l’amico. Ricordava fin troppo
bene la sua rabbia quando era arrivato sul tetto, il suo volto furioso quando lo
aveva visto, come se fosse arrabbiato con lui per essere venuto.
«Suppongo che avrete modo di vedervi una volta fuori da questo posto, non è così
chiuso in se stesso da non volerti vedere. Credo.»
John annuì e sospirò. «Mia… madre? E mia sorella?»
«Oh, stavano andando a mangiare quando sono arrivato. Spero non se la prenderanno
se non sono riuscite a vedere il tuo risveglio.» rimase in silenzio, forse aspettando
altre domande, ma quando John gli lanciò un’occhiata di traverso si rese conto della domanda sottointesa e spalancò
impercettibilmente gli occhi. «E ovviamente stanno bene.
Un po’ preoccupate, ma suppongo che stiano bene…»
Chiuse gli occhi e sorrise divertito: gli Holmes
non sarebbero mai cambiati. «Quindi… perché sei qui?» chiese
infine.
L’altro sospirò. «Perché ho ragione di credere che tu voglia sapere qualcosa
di tutto quello che è successo, e sono l’unico, a parte Sherlock, in grado di raccontarti
come sono andate le cose per filo e per segno.»
«Bene. Era tutto organizzato? Nei minimi dettagli? Non c’era il rischio che Sherlock
morisse se non fossi andato sul tetto?»
Mycroft sorrise, fortunatamente non visto dall’altro
che aveva ancora gli occhi chiusi. «Esattamente. Non avevo calcolato
il fattore John Watson, anche se ammetto che la piega che ha preso la faccenda è
migliore di quanto avessi programmato.»
«Cos’era in programma?»
«Un finto suicidio.»
John aprì gli occhi e lo guardò, stupito. «Finto?»
«Sì, una cosa un
tantino complicata. Penso che Sherlock sarà felice di illustrartela in un altro
momento, magari quando sarai più lucido.»
«Quindi… Sherlock aveva un piano diverso?»
«Il mio adorato fratellino deve sempre fare di testa sua… Sì, aveva un piano
tutto suo. Sono rimasto piacevolmente stupito dalla quantità di persone che è riuscito a coinvolgere.»
«In che modo?»
«Oh beh… mi pare di aver capito che la signorina Molly Hooper avesse il compito
di sorvegliare Mary Morstan, Irene Adler di sorvegliare Sebastian Moran e arrivare
in caso di bisogno, mentre Gregory Lestrade il compito di chiamarmi una volta giunto
il momento. Ho fatto il possibile per arrivare quanto prima. E siamo riusciti ad
evitare una probabile morte per dissanguamento, il che mi sembra un ottimo risultato.»
John si accigliò. «Perché non mi è stato detto
niente di tutto questo?»
Mycroft stette un attimo in silenzio, soppesando
le sue parole, poi scosse la testa. «Non so cosa passasse per la mente di mio fratello,
perdonami.»
«E Moriarty che fine ha fatto?»
«Avremo il verdetto finale solo domani, ma
credo che qualche annetto in carcere se lo farà. Per
quanto la situazione potrà essere in mio potere tenterò di fare del mio meglio perché
sia più tempo possibile.»
Avrebbe voluto fare un milione di altre domande,
ma in quel momento la porta della stanza si aprì e Mycroft per poco non fu travolto
dal passaggio di Jocelyn Watson e della figlia che accorsero subito al letto di
John, la prima regalandogli un lungo abbraccio e la seconda rimanendo un attimo
in disparte per poi prendersi il suo tempo nell’abbracciare il fratello a sua volta
e ricoprirlo d’insulti per lo spavento che gli aveva fatto prendere.
John vide solo con la coda dell’occhio il maggiore
degli Holmes alzarsi con un’assurda tranquillità, sistemarsi la giacca addosso e
uscire in silenzio senza più alcuna parola.
Riuscì a sopportare tutte le chiacchiere delle
due donne solo al pensiero che dopo quello
che era successo avrebbe potuto non rivederle mai più, e quando la prima tempesta
si calmò accettò di buon grado la chiacchierata che seguì, anche se non riuscì a
fare a meno di estraniarsi dalla conversazione quando gli tornavano alla mente certi
particolari che andava a confrontare direttamente con alcuni ricordi appartenenti
al suo passato.
Ad un certo punto non riuscì più ad ignorare il
mal di testa e una smorfia di dolore lo tradì agli occhi della madre, che gli consigliò
di tornare a dormire, per poi rimboccargli le coperte e salutarlo con un bacio in
fronte. Harriet lasciò che la madre uscisse prima di sussurrargli all’orecchio:
«Sherlock è il ragazzo perfetto.»
Gli fece l’occhiolino, con l’aria di chi sa
il fatto suo, per poi uscire rincuorata dal leggero rossore che aveva imporporato
le guance del fratello.
L’ultima cosa cui John pensò prima di addormentarsi, stranamente, furono un
paio di dolci labbra poggiate con delicatezza sulle sue, umide di pianto, un ricordo
che non credeva di avere ma che ebbe il potere di trasportarlo nuovamente nel regno
dei sogni.
~*~
«Allora come sta?»
Mycroft scrutò attentamente il ragazzo al suo
fianco, spostando poi lo sguardo sul marciapiede e sulla strada, scivolando sull’auto
nera che lo stava pazientemente aspettando.
«Sorprendentemente bene. Pensavo sarebbe stato per lo meno scosso, e invece…»
«E Sherlock?»
Sospirò. «A Baker Street. Non vuole saperne di uscire. Credo che sia…
come si dice? Emotivamente provato.»
Greg lo guardò con una scintilla di divertimento
nello sguardo. «Ma davvero? Sherlock emotivamente
provato?»
«Ho tentato di fargli capire quando fosse inutile…»
«A volte mi chiedo come possano essere così idioti quei due.» continuò Lestrade, ignorando accuratamente
l’affermazione che, sapeva, l’amico stava per fare. «Si vede lontano un miglio quello che provano l’uno per
l’altro. Giuro che se non si mettono insieme dopo quello
che è successo li strozzo, uno dopo l’altro.»
Mycroft sospirò, non cogliendo l’allusione
dell’altro. «Dillo a Watson, Lestrade, mio fratello ha fatto di tutto per attirare
le sue attenzioni.»
Il ragazzo lo guardò, stranito. «E cosa avrebbe
fatto, esattamente?»
«Oh beh, di tutto… Si vedono tutti i pomeriggi, o almeno quasi tutti. Lo invita
sempre a casa sua, parlano sempre… insieme. Parlano di cose che probabilmente interessano
solo a Sherlock, temo, ma credo che sia il suo modo per dimostrargli quanto ci tiene
a lui e-»
«Mycroft.»
Si girò appena verso Greg, sorprendendosi della
sua espressione divertita. «Sì?»
«Siamo sicuri di star parlando delle stesse
due persone?»
Deglutì a vuoto, rigirandosi l’ombrello tra
le mani con aria distratta, una stretta al petto indesiderata lo distrasse per un
attimo dal filo del discorso. «E di chi dovrei mai parlare, Lestrade?»
Sorrise. «Stai usando un tono troppo
formale, Mycroft, stai mettendo le distanze…»
Spalancò impercettibilmente gli occhi. «No,
non è vero.»
Greg sospirò debolmente e distolse lo sguardo.
«Credo che accetterò il tuo invito.»
«Q-quale invito?»
«Quello che mi proporrai domani via telefono
per discutere a casa tua di argomenti di cui non me ne importa una beata mazza.» Osservò con la coda dell’occhio
il compagno arrossire violentemente sulle guance, prima di girarsi e cominciare
a camminare.
«A domani Mike.» urlò quando fu a qualche metro
di distanza, allungando un braccio in mezzo alla strada nel tentativo di fermare
un taxi di passaggio.
«Mycroft.» ribadì l’altro a bassa voce, una
volta che Lestrade salì a bordo dell’auto, senza tuttavia poter fare a meno di nascondere
un sorrisetto soddisfatto.
~*~
Avanzò zoppicando tra le file di lastre in marmo, sostenuto da una parte dalla stampella
e dall’altra da Harriet che, lentamente, procedeva al suo fianco tenendolo saldo
per un braccio.
Sorpassarono decine e decine di nomi, date,
foto sbiadite dal tempo e fiori avvizziti per mancanza d’acqua, fino a quando non raggiunsero la fila di tombe recanti una data che conoscevano
molto bene. Sorpassarono varie lastre, fino a fermarsi davanti a una tomba nera
come la pece, del tutto spoglia, recante solo il nome di Jonathan Watson e le date di nascita e morte in un’articolata
scrittura a ghirigori.
Harriet lasciò il suo braccio e si chinò in
avanti, posando sul terreno ai suoi piedi un mazzetto di fiori bianchi, i preferiti
della mamma, sostituendoli a quelli già presenti che infilò noncurante nella borsa
a tracolla, con l’intenzione di buttarli più tardi.
Rimasero in silenzio, gli sguardi posati su
quelle parole che tante volte avevano visto, quelle due date che racchiudevano in
un trattino una vita intera, passata prima in un campo di battaglia e poi in una
casa, a crescere una famiglia.
John sentì le lacrime pungergli gli occhi ma
si trattenne, ricacciandole indietro con forza. La consapevolezza di averlo perso
era ormai parte della sua vita, era passato molto tempo da quel lontano giorno di
primavera, ormai avevano metabolizzato la cosa. Solo che, in quel momento, dopo quello che era successo, sentiva di doversi sfogare
in qualche modo, forse riversando quelle lacrime che aveva sempre trattenuto, come
una prova di forza interiore.
Passò qualche minuto a osservare la pietra
e i fiori, rimuginando tra sé e sé, poi si girò verso Harriet. «Posso… rimanere
un attimo da solo?»
La ragazza lo guardò interrogativa, poi annuì
e si avviò sul selciato, raggiunse un albero e si appoggiò al tronco, sorvegliando
il fratello da lontano.
John la osservò distante, poi tornò a guardare
la lastra di marmo nero e inspirò a fondo, lasciando che l’aria fredda di fine inverno
lo invadesse, dandogli un po’ più di lucidità.
«Hai… ci hai sempre raccontato tante storie…»
cominciò, ripercorrendo con la mente interi pomeriggi
passati sulle ginocchia di suo padre, seduto sulla poltrona vicino al camino
nella loro vecchia casa. «Amavo quelle di guerra. Lo
sapevi, vero? Non facevi altro che raccontarmene, anche se Harriet le odiava.» Sorrise lievemente al ricordo. «Ti ammiravo molto… ero, ero orgoglioso. Il mio papà soldato, colui che combatteva per salvare vite. Avevo una fervida
immaginazione.»
Sospirò e percorse con lo sguardo la fila di
lastre accanto a quella del padre. «Ho sempre desiderato diventare
come te. Arruolarmi e… e fare tutto quello che mi hai sempre raccontato. Volevo
che fossi orgoglioso di me.»
Si bloccò e si morse un labbro, respirando
a forza per scacciare la tristezza che rischiava di sopraffarlo. Tornò a guardare
la tomba, cercando di concentrarsi e di eliminare ogni brutto pensiero.
«E ce n’era anche un’altra, di storia. Era quella che seguiva il congedamento
dall’esercito. La preferita di Harriet. Beh, piaceva anche a me, ovviamente, forse
era al secondo posto.» ridacchiò tra sé e sé. «Ci raccontavi di come avessi
conosciuto la mamma; del primo momento in cui l’avevi vista, di come ti fossi innamorato
subito di lei. Ho sempre pensato che l’avessi romanzata un po’ troppo…
«Insomma. Ho provato sulla mia pelle che l’amore a prima vista non esiste…» Sospirò nuovamente e spostò
il peso da una gamba all’altra per non sforzare troppo il braccio che teneva la
stampella.
«Dicevi che senza di lei probabilmente non
saresti resistito al dopoguerra, che era stata
il tuo sostegno, la tua ancora di salvezza. Mamma amava quella parte della storia…» Abbassò lo sguardo, chiudendo
gli occhi e strizzando le palpebre nel tentativo di visualizzare il suo volto, così
come lo ricordava. «Lei ti guardava, tu la guardavi
e… e ci dicevi che un giorno l’avremmo trovata anche noi, la nostra persona speciale.
Qualcuno di cui fidarsi ciecamente, alla quale avremmo affidato la nostra stessa
vita. Qualcuno da amare, proteggere e…» la voce gli si spezzò e dovette rimanere in
silenzio per un paio di minuti per recuperare il contegno.
«Io voglio arruolarmi,
papà. Voglio… voglio seguire il mio sogno, voglio che tu possa essere fiero
di me.» Una lacrima sfuggì al suo
autocontrollo e gli rigò il volto.
«Ma cosa avresti fatto se avessi incontrato la
mamma prima di partire?» strinse le labbra, il cuore che cominciava a battergli
più forte nel petto. «Cosa avresti fatto se avessi subito incontrato la tua persona speciale? Avresti avuto il
coraggio di abbandonarla?» deglutì e chiuse gli occhi, passandosi poi una mano sulla fronte.
Aspettò, in silenzio, aspettò una risposta che, sapeva, non sarebbe mai arrivata.
Voglio solo sapere, papà, voglio sapere cosa avresti fatto tu al mio posto pensò disperatamente, le mani chiuse a pugno nel tentativo di ascoltare quella
voce di cui tanto parlavano, la voce della coscienza, quella voce che potesse dirgli
cosa fare.
Una goccia. Due gocce caddero, seguite subito
da una terza. Alzò lo sguardo, osservò quell’immenso spazio che si perdeva su, all’infinito,
quelle nuvole grigie cariche di pioggia. Sorrise amaramente: perfino il cielo aveva
cominciato a piangere per lui, per l’assurda situazione in cui si trovava.
Ripensò a sua madre, al suo sorriso triste
ogni volta che vedeva la foto di Jonathan sulla mensola di sala. Ripensò a quella
foto, dove l’uomo sorrideva con una spalla fasciata, quella spalla dove si trovava la cicatrice di quel proiettile
che aveva rischiato di ucciderlo. Cosa sarebbe
successo se suo padre avesse perso la vita durante qualche sua spedizione? O
se non avesse mai conosciuto sua madre?
Cosa sarebbe successo se quella sera di qualche mese prima
non avesse messo piede alla festa di Clara? Cosa sarebbe
successo se fosse morto, là sul tetto?
Harriet si staccò dal tronco e cominciò a camminare
verso di lui, aprendo un ombrello per ripararsi dalla pioggia sempre più fitta.
John gettò ancora un’occhiata al nome di suo
padre, custodito per sempre nella pietra e tra i suoi ricordi, che custodiva gelosamente quasi fossero un secondo
cuore. Guardò quel nome un’ultima volta e, tranquillamente, sorrise. «Lo so cos’avresti fatto. Lo so, e sono un idiota per averne
anche solo dubitato.»
«Andiamo John? Comincia a farsi un po’ brutto…»
Annuì alle parole della sorella e sotto il
suo sguardo rizzò la schiena, salutando suo padre come gli aveva insegnato da piccolo,
petto in fuori e mano sulla fronte, poi prese sottobraccio la sorella e si avviò
verso l’uscita del cimitero.
Era giunto il momento di prendere in mano la situazione.
~*~
La pioggia batteva violentemente sul vetro
della finestra, coperta solo dal suono melodioso del violino. L’archetto scorreva leggero sulle corde, guidato dalle agili dita di Sherlock,
che, rivolto verso la finestra ad occhi chiusi, si lasciava
trasportare dalla dolce melodia, dando al piccolo salotto un senso di pace e tranquillità.
Le note si susseguivano una ad una, creando un’armonia perfetta
tra loro. Lo spartito dove erano state appuntate le note giaceva inosservato sul
suo leggio: fin dall’inizio del brano non era stato consultato neanche per un istante.
John, seduto alla sua solita poltrona, osservava
distrattamente il corpo smilzo dell’amico muoversi al ritmo incalzante della musica,
una mano che stringeva nervosamente il bracciolo e l’altra che teneva in equilibrio
tra le labbra una tazzina di the quasi fredda.
Per un attimo il motivo rallentò, fin quasi
a spegnersi, per poi riaccendersi improvvisamente con un’acuta nota strascicata.
John rabbrividì d’istinto e la sua mano tremò, tanto che dovette stringere più forte
il bracciolo della poltrona per tentare di fermarla. C’era qualcosa di estremamente famigliare in quella straziante melodia, qualcosa
che gli stringeva il cuore e che gli impediva di respirare correttamente. Ma non
era solo quella composizione a fargli
venire i brividi, c’era anche della paura, radicata nel profondo, quella stessa
paura cieca che lo aveva colto alla sprovvista la mattina del suo risveglio, quando
Sherlock non era lì all’ospedale, la stessa che aveva provato per giorni dopo il
bacio nel bagno, quella paura che si riferiva sempre e solamente a Sherlock. Uno
strano nodo gli strinse la gola, tanto che la mano tremò nuovamente e dovette sporgersi
in avanti per riappoggiare la tazzina sul vassoio prima di rischiare qualche brutto
danno.
Il moro dovette accorgersene, perché un attimo
dopo girò di poco il capo verso di lui e abbassò di colpo l’archetto, interrompendo
la musica.
«Non ti piace?» la sua voce risuonò roca e
leggermente irritata mentre volgeva lo sguardo verso di lui e lo trafiggeva con
i suoi occhi chiari.
John ricambiò lo sguardo e sorrise lievemente. «No… è bellissima. L’hai composta tu?»
Sherlock tornò a rivolgere lo sguardo verso
la finestra. «È dedicata a una persona speciale.»
Lo stomaco gli fece una capriola mentre scrutava
con gli occhi la sua figura avvolta nella vestaglia blu notte. Tremò ancora, impercettibilmente,
e dovette trattenersi dal compiere gesti improvvisi, imponendosi di mantenere il
piano che si era fissato in testa, quello che aveva programmato attentamente nei
giorni di convalescenza. Immobile sulla poltrona ascoltò il cuore accelerare
improvvisamente i suoi battiti e deglutì a forza, rimanendo in silenzio, lasciando
che l'eco di quelle parole alleggiasse nell'aria intorno a loro.
Sherlock stava per ricominciare a suonare quando
John spezzò il silenzio, stupendosi egli stesso per la fermezza del suo tono di
voce. «Pensavo di vederti all'ospedale
questo pomeriggio. Pensavo saresti stato lì quando mi avrebbero dimesso. Almeno
quello…»
Il moro s’irrigidì, stringendo con un po’ più
di forza il sottile legno nelle sue mani, rischiando di graffiarsi con le corde.
Tuttavia non si scompose e tenne lo sguardo fisso fuori dalla finestra. «Perché?»
mormorò, sicuro di essere sentito nonostante avesse parlato con un filo di voce.
John deglutì a vuoto e sorrise. «Perché è così
che si fa con le persone speciali, con le persone cui vogliamo bene.»
«Ma davvero…» rispose secco il moro, azzardando un movimento veloce del braccio ed emettendo una nota stridula
che gli fece venire la pelle d’oca.
Trattenne il respiro, guardandolo con profonda
tristezza. «Ho per caso frainteso?»
Sherlock sbuffò sonoramente e roteò l’archetto
come una spada, fendendo l’aria e producendo un sonoro schiocco, che, al contrario
di quanto avrebbe voluto, non spaventò affatto
John. Rimase a fissare la libreria di fronte a sé, posando gli occhi su tutto
fuorché sull’amico.
«Mary mi avrà volentieri sostituito.»
Il biondo si lasciò sfuggire un sorriso. «Nessuno potrebbe mai sostituirti…»
Ecco la scintilla, quel guizzo veloce d’incomprensione
nel suo sguardo. Osservò la reazione di Sherlock, mentre si girava e lo scrutava,
impassibile.
«…neanche Mary. E non credo vorrà anche solo provarci, da qui in avanti.»
Un’ombra d’incertezza attraversò il suo volto,
la mente che volava già alla ricerca di tutti quei dettagli che gli erano sfuggiti,
collegandoli e cercando di dare un senso
alle sue parole. «Perché?» chiese infine, una nota di curiosità nella voce. «È quello
che fanno le persone che ci vogliono bene…» aggiunse sarcasticamente.
John non riuscì a trattenere un sorriso trionfante. «Perché ci siamo lasciati. Io l’ho lasciata, per la precisione.»
Questa volta il viso di Sherlock assunse un’espressione
di pura sorpresa, mentre si voltava completamente verso di lui. Rimase immobile,
senza neanche respirare.
John distolse lo sguardo e con un sospiro raccolse
la stampella da terra. Facendo forza su di essa, si alzò lentamente, emettendo un
grugnito infastidito alla fitta di dolore che gli attraversò la gamba, e fece qualche
passo in avanti, avvicinandosi all’amico. Anche se non lo diede a vedere, il cuore
cominciò a battergli all’impazzata per l’agitazione, sentendo che il momento si
stava avvicinando.
Il moro osservò e registrò ogni suo movimento,
ogni più piccola mossa delle sue mani e del suo corpo. Colse al volo il brusco piegamento
della gamba malata sotto al suo peso, il tremolio della sua
mano sulla stampella, il chiudersi e riaprirsi nervoso dell’altra nell’aria. Ma
più di tutto, il suo sguardo fu catturato dai suoi
occhi azzurro scuro, dalla morbidezza nelle piccole rughe della sua fronte,
dalla dolcezza che emanava quel volto così famigliare ma allo stesso tempo ancora
così sconosciuto. Perché l’espressione che John aveva in quel momento gli era del tutto nuova, un’espressione che mai
era comparsa in sua presenza, che mai gli aveva rivolto.
E improvvisamente ebbe paura.
John si fermò a meno di mezzo metro di distanza,
chiudendo gli occhi con forza nel ricercare quelle parole che aveva scelto con cura, ma che in quel momento sembravano
essere state cancellate dalla sua mente.
«Ho… credo che…» deglutì, riaprendo le palpebre
e fissandolo nuovamente dritto negli occhi, perdendosi nella bellezza di quell’assurdo
colore a metà tra il verde chiaro e l’azzurro, il ghiaccio e una giornata poco nuvolosa.
Alla complessità di quegli occhi si ammutolì, decidendo che i fatti erano decisamente meglio delle parole.
Ebbe ancora un momento d’esitazione, poi coprì
definitivamente la distanza che li separava, allungando una mano verso il suo viso.
Sherlock scattò istintivamente all’indietro, confuso e impaurito da quello che stava
succedendo, ma non fu abbastanza veloce e John riuscì a bloccarlo con una mano dietro
al collo.
John risalì lentamente verso il suo viso, accarezzò
lentamente con il pollice la sua pelle, scivolando in una lieve carezza sullo zigomo
e la mandibola, il cuore in gola.
Poi, con una lentezza quasi esasperante, si
sporse definitivamente in avanti e poggiò le labbra sulle sue, spezzando una volta per tutte quella sottile barriera che
le aveva tenute separate per tutto quel tempo. Chiuse gli occhi, lasciando che quel
contatto lo inebriasse, ubriacasse, che il lieve peso di quelle labbra così dolci,
così pure e inesplorate si sovrapponesse al ricordo che già ne aveva, quello di
mesi prima.
Sherlock rimase immobile sul posto, rigido,
il cuore che sembrava quasi volergli uscire dal petto da quanto batteva velocemente.
Spalancò gli occhi in un muto grido di stupore, il cervello che tentava di registrare
ogni singolo millimetro di pelle davanti ai suoi occhi, la sensazione di quelle
labbra sulle sue, del tocco morbido del suo naso sulla guancia dell’altro. Andò
in panne, sopraffatto dalla molteplicità di tutte le emozioni che lo attraversavano.
John si staccò dopo quelli che sembrarono interminabili secondi più tardi.
Lo guardò, gli occhi colmi di una felicità che credeva essere impossibile da provare. «Ancora meglio di quello che ricordavo…»
mormorò, il fiato caldo che andava ad infrangersi sul volto
bollente dell’altro.
All’espressione totalmente persa di Sherlock,
tuttavia, John sentì il proprio sorriso scivolare via, la sua felicità affievolirsi,
toccata dalla fragilità di quegli occhi.
Lasciò cadere senza esitazione la stampella
a terra e lo trasse a sé con il braccio finalmente libero, stringendogli la vita.
L’altra mano scivolò sulla sua pelle e andò a infiltrarsi tra i suoi riccioli, spinse
in avanti il capo e lo andò a posare sulla sua spalla, incassandolo poi nel collo.
«Oh, Sherlock…» mugugnò, la voce che cominciava a tremargli per l’emozione. Chiuse
gli occhi, sentendosi prossimo alle lacrime. «Mi dispiace, mi dispiace tantissimo…» premette il volto contro la pelle
lasciata nuda dalla maglietta, aspirando a fondo il suo buon odore. «Ti prego perdonami…
mi dispiace…»
Lo strinse ancora di più a sé, sentendolo fin
troppo rigido tra le sue braccia. Perdonami, perdonami per la mia stupidità, per la mia cecità, per
averti lasciato solo quando non avrei dovuto. Perdonami, ti prego…
Stava quasi per staccarsi, preoccupato di essersi
spinto troppo in là, quando il corpo del ragazzo si ammorbidì, il suo volto fece
per muoversi in avanti e trovare spazio contro la spalla di John.
Strinse di più gli occhi, il sorriso che tornava
a prendere possesso delle sue labbra mentre le mani di Sherlock si arrampicavano
goffamente sul suo maglione, risalivano timidamente lungo la sua
schiena e lo stringevano, dapprima piano, poi con più forza. «John…»
Il ragazzo lasciò che una lacrima gli solcasse
il volto mentre premeva le labbra contro il suo collo, lo accarezzava con gentilezza
sulla nuca, aggrovigliando le dita tra i suoi riccioli. «Va bene, va tutto bene… sono qui.»
Lo sentì tremare contro il suo petto e lo strinse
di più a sé, lasciando piccoli baci sulla sua pelle e cullandolo con un leggero
ondeggiamento delle gambe, per quanto la sua ferita glielo permettesse.
Lasciò che si rilassasse nel suo abbraccio, che cercasse conforto nella sua stretta.
Quando un lieve singhiozzo uscì dalle sue labbra
sciolse l’abbraccio per poterlo guardare in viso e venne travolto da un’ondata
di dolore nel vedere le lacrime solcare le sue guance. Gli prese il volto tra le
mani e tornò ad unire le loro labbra, lasciandoci
una serie di baci a stampo, ancora non sicuro di volersi spingere troppo in là per
paura di ferirlo. Gli sembrava di avere tra le braccia un prezioso vaso di ceramica,
pronto a spezzarsi e andare in frantumi al minimo passo falso.
Dopo quelle
che parvero ore Sherlock si calmò e strinse il suo maglione con più forza, tirandolo
verso di lui.
Non seppe come finirono sul divano, come fece
a camminare fin lì con la gamba malconcia.
Fatto sta che si ritrovò seduto in un angolo,
adagiato contro una pila di cuscini, Sherlock accoccolato contro di sé, con gli
occhi lucidi e il respiro che andava ad accarezzargli il petto. John lo stringeva,
possessivamente. Gli mormorava parole di conforto, continuando il movimento delle
dita tra i suoi capelli; gli stuzzicava il volto con il naso, regalandogli qualche
bacio leggero sulle labbra, sulle guance, sulla fronte e tra i capelli.
Come aveva potuto rifiutarlo, come aveva potuto anche solo pensare di poter scappare da tutto
quello. Guardava quel ragazzo fragile tra le sue braccia, ne sentiva il dolce peso,
il calore che esso emanava e si beava di quella visione, come un bambino in un negozio
di caramelle: il suo piccolo tesoro, il fiore sbocciato al sorgere del sole, una
goccia d’acqua colorata in un bicchiere colmo fino all’orlo.
Il suo pericolo vivente.
Aveva sognato fin da piccolo di trovare il
proprio campo di battaglia, di potersi sentire come suo padre. Ed era sempre stato
tutto lì, a portata di mano. Era bastato Sherlock, senza inutili accademie e arruolamenti,
bastava solo lui e sentiva di non volere nient’altro.
Troppo orgoglio, troppa infantilità nel suo relazionarsi con i sentimenti, troppa paura del giudizio
altrui. Aveva evitato a lungo tutto quello, lo aveva tenuto lontano per paura di
stravolgere il suo mondo. Ma il suo mondo era stato stravolto
nel momento esatto in cui Sherlock aveva aperto bocca a quel cellulare, quella dannata
– bellissima, benedetta – sera. Era come se in quell'istante le loro vite si fossero toccate, i fili
delle loro esistenze incrociati, intrecciati col passare del tempo, per giungere
infine al culmine, in quella stanza, in quel giorno, in quella situazione.
Intrecciò le dita con quelle del ragazzo, cominciando
a muovere il pollice in circolo sul dorso della sua mano.
Sherlock aprì di poco gli occhi, alzando lo
sguardo verso di lui.
Bellissimo, bellissimo e suo, soltanto suo.
Gli sorrise, inebriato della sua presenza. «Non
lasciare che me ne vada, mai più…» sussurrò, chinandosi per sigillare quel patto
con l’ennesimo bacio, questa volta cercando un contatto più approfondito. Gli prese
il volto tra le dita, saggiando con cura le sue labbra, sfiorandole timidamente
con la punta della lingua, rabbrividendo di piacere.
Quando si staccarono Sherlock stese le labbra
in un sorriso colmo di gioia, e andò a sfiorare il suo naso con il proprio. «Non
lo farò.» disse, respirando sulla sua pelle.
John sorrise, le lacrime che ormai non erano
più trattenute, e lo strinse di più a sé in
risposta.
Passarono il resto del pomeriggio così, accoccolati
l'uno all'altro a scambiarsi baci e carezze, annebbiati dalla dolcezza del momento,
e quando giunse la sera si addormentarono insieme, stanchi per i troppi
spaventi e per le troppe nuove e forti emozioni appena scoperte.
Quella notte, John non tornò
a casa.
*si asciuga lacrimuccia*
Ci sono voluti la bellezza di 11 capitoli ma alla fine ce l’abbiamo fatta!
*applauso ai due protagonisti*
Ma non pensate che sia finita qui… *buahahaha*
E ora lasciamoli lì,
i nostri due piccoli idioti *^*
Vi sussurro un veloce salutino, ci risentiamo
con l'ultimo capitolo! (questa volta veramente l’ultimo xD)
(Ultimo capitolo… oddio, suona troppo triste…
D:)