Il destino di Qayin
La
stanza da bagno era calda, così come l’acqua della vasca
nella quale riposavano in compagnia dopo un intero pomeriggio passato a
dare la caccia a un corriere dei Borgia sui tetti del ghetto. Caccia
finita male, tra l’altro, cosa che lo frustava più del
fatto stesso di trovarsi a dover condividere il momento del bagno con
altre tre persone.
Corella, ormai tornato al vecchio vizio di portarsi ovunque il
bicchiere colmo di vino, canticchiava una canzone da osteria al fianco
di Cristiano, il quale pareva assai più interessato a insaponare
i suoi boccoli biondi che a fare da coro al forlivese. Spallaci,
invece, se ne stava da parte e raccontava di quanto gli ci era voluto
per ammazzare due arcieri particolarmente agili.
Distante da tutto quel vociare, Bengiamino sospirò.
Ci aveva pensato e ripensato per almeno due settimane, insonne tra le
coperte della camerata, ed era arrivato alla conclusione che, vista la
sua totale e riconosciuta ignoranza in fatto di relazioni umane, un
consiglio non potesse che giovargli.
«Corella», esordì, quindi. Con una bracciata
attraversò a nuoto la vasca, portandosi accanto all’amico.
«Devo chiederti un parere circa una faccenda.»
«Devi essere particolarmente disperato se chiedi consiglio ad
Alessandro», disse divertito Cristiano, strappando il sorriso
dalla bocca del povero Corella, il quale pareva estasiato
all’idea di poter essere d’aiuto. «Di che si tratta?
Un discorso circa l’invecchiamento dei vini?»,
proseguì imperterrito il biondo, ricevendo una spruzzata
d’acqua in pieno volto.
«Insaponati bene, tu, che sul biondo lo sporco risalta ancor di
più», borbottò Corella, prima di voltarsi verso
Lorenzetti, appoggiandogli una mano sulla spalla nuda. «Di
qualsiasi cosa si tratti, io sono la persona giusta per te.»
«Sei sicuro di quello che vai cincischiando, vero?», si
intromise Spallaci, grattandosi con falsa indifferenza l’interno
dell’orecchio. «Questa me la voglio proprio godere:
Lorenzetti che chiede aiuto a qualcuno per qualcosa!»
Bengiamino sospirò rumorosamente, lasciandosi affondare un poco nell’acqua calda della vasca.
Forse, anzi, con buona probabilità, stava commettendo l’errore più grosso della sua intera esistenza.
«C’è una … persona», disse, soppesando
con minuzia ogni singola parola. «Due settimane fa, quando siamo
usciti …» Si prese una pausa per pensare. «Potrei
essermi esposto un po’ troppo. Non che sia stato respinto, ma non
ci parliamo da allora.»
Sospirò nuovamente, scivolando sul fondo fino a che l’acqua non arrivò a bagnargli le labbra.
Non si era mai vergognato tanto in vita sua, ma il fatto che Chiara
avesse accuratamente evitato di parlargli per tutto quel tempo lo stava
distruggendo.
Sorprendentemente, comunque, quelle parole riscossero uno strano successo.
All’inizio vi fu solo un lungo, brutto silenzio e sei paia di occhi che lo fissavano fuori dalle orbite.
Poi iniziò la cagnara vera e propria.
Corella si alzò in piedi, cercando di correre per la vasca
mentre starnazzava qualcosa riguardo alla perdita della virtù di
Bengiamino.
Cristiano si portò le mani ai capelli bagnati, tirandoli appena,
mentre Spallaci prendeva ad applaudire, gridando al miracolo come un
profeta.
In toto, sembravano impazziti di colpo.
«Dobbiamo festeggiare! A me il vino!», urlò Corella, senza smettere di correre.
Basito, Bengiamino spalancò la bocca. Rimase a guardare il
forlivese prendere il volo sul pavimento allagato del bagno, per poi
cadere di faccia sulle piastrelle.
Quel poco di silenzio che il rovinoso capitombolo di Corella
riuscì a riportare, Bengiamino lo utilizzò per dare le
dovute delucidazioni.
«Non c’è stato niente del genere»,
farfugliò, riemergendo appena dalla vergogna che lo aveva
trascinato sul fondo. «L’ho soltanto baciata, tutto
qui.»
Piantò lo sguardo sull’acqua che aveva dinanzi, quasi
nelle sue parole vi fosse davvero qualcosa per cui provare imbarazzo, e
restò in attesa della reazione dei suoi compagni.
«Di chi si parla?», domandò Spallaci, staccando
Pagni dalla bottiglia di vino che si era portato dietro solo per
potersi attaccare a sua volta.
«Che domanda idiota, solo dalla tua bocca poteva
provenire!», lo riprese subito Alessandro, ributtandosi in acqua
e aggrappandosi alle spalle di Lorenzetti. Gli prese il volto tra le
mani. «Chiara Filippi da Firenze, chi altre?! Dimmi, bacia
bene?»
«Non è questo, il punto!», protestò
Bengiamino, roteando gli occhi senza però scostarsi da Corella.
«Ti vanti sempre di essere esperto, in questo genere di cose,
perciò dimmi come posso attirare la sua attenzione.»
Sputato il nocciolo della questione, il milanese si sentì
più tranquillo. Si rilassò un poco, staccando lo sguardo
dal vuoto per portarlo sui suoi compagni.
Dopotutto, che Cristiano e Corella fossero due rubacuori era faccenda
ben nota; Spallaci, invece, nei mesi che avevano trascorso assieme
aveva speso più soldi in bordelli che in vino.
Incredibilmente, tutti e tre presero molto seriamente la situazione.
«Non c’è un protocollo scritto che valga per ogni
donna», iniziò Cristiano. «Ognuna ha un modo diverso
di venir conquistata.»
«Il punto focale è questo: far sì che apra la
gambe.» L’esordio di Corella fece perdere un poco la
fiducia del milanese nei suoi amici, visto che anche gli altri due
annuirono convinti. «Chiara è la più piccola,
è giovane e innocente. Ci vorrà un po’, per
cogliere il suo fiorellino.»
«Però è anche vero che è persa di te»,
si intromise il ferrarese. «Cerca di essere romantico, ma con
discrezione o la imbarazzerai. Falle complimenti, regalale qualche
fiore e in men che non si dica te la troverai sotto ad ansimare.»
Bengiamino sospirò.
Avrebbe dovuto capire nell’esatto istante in cui aveva scelto di confidarsi che quella non sarebbe stata una buona idea.
«Grazie tante», sbuffò, quindi, sguazzando fino alla
porta per poi abbandonare la vasca. «Credo andrò a
chiedere consiglio a Laura.»
Laura che probabilmente ne sapeva ancor meno di lui, in fatto di
conquiste romantiche, ma che sicuramente avrebbe quantomeno usato la
testa per aiutarlo. Dopotutto, lei e Chiara erano amiche.
Passò senza salutare dalla stanza della vasca a quella dove
un’ora prima si erano spogliati, allungando svogliatamente la
mano verso la parete alla ricerca della sua casacca.
Quando la sua pelle entrò in contatto con la superficie fredda
del vetro, qualcosa lo costrinse a realizzare che, nella stanza, non
erano rimasti che i suoi stivali.
I suoi stivali e quegli degli altri, certamente, ma nessuna traccia di bluse, cinture e mantelli.
Spariti, volatilizzati, scomparsi.
Trattenendo il fiato, Bengiamino tornò sui suoi passi.
«C’è un problema», decretò,
immergendosi nella vasca per stare al caldo. «Qualcuno ha preso i
nostri abiti.»
Cristiano non assimilò subito quelle parole, ma fu il solo ad
udirle visto che gli altri due sembravano chiusi in un discorso senza
sbocco riguardo ai seni delle donne.
«Che cosa intendi dire?», domandò, ingenuo, uscendo a sua volta e raggiungendolo alla porta.
Si affacciò, per poi sbiancare. Tornò quasi di corsa alla vasca a si lanciò dentro.
«Ci hanno preso i vestiti!», sbottò in faccia a
Spallaci e Corella, sperando così di farli desistere dai loro
discorsi.
Corella si scostò quel poco che bastava per non trovarsi i
capelli di Cristiano in bocca, poi si voltò verso
Bengiamino.
«E chi avrebbe dovuto prenderci i vestiti?», chiese, corrugando la fronte con fare perplesso.
Spallaci lo superò come un fulmine, tirandosi dietro Cristiano per uscire di nuovo dalla vasca.
«Ma quelle oche, è ovvio!», sbraitò. «Forza! Andiamo a riprenderceli!»
Bengiamino gli scoccò un’occhiata sconvolta. Senza almeno
qualcosa da mettersi addosso, da lì non sarebbe mai uscito.
Alessandro non si fece problemi di sorta. Uscì dalla vasca con
passo tronfio, esibendo così tutte le sue glorie insieme a
Spallaci lungo le scale del Covo.
Si udirono un paio di urla, tra cui uno ‘Scostumati!’ proveniente dalla madre di Auditore.
Cristiano attese ancora qualche secondo, prima di sospirare e seguirli.
«Forza, Bengiamino, non possiamo marcire qui dentro.»
Bengiamino roteò gli occhi.
Nel mentre Pagni lasciava la stanza, vagò con la mente per le
sale del Covo, focalizzando il corridoio che collegava il bagno alla
sala centrale. Il corridoio decorato con le bandiere recanti il simbolo
della fratellanza.
Raggiungerlo e spiccare un balzo verso una di esse per sistemarsela
attorno alla vita e coprire quantomeno bacino e gambe fu più
facile del previsto, tanto che, una volta resosi vagamente presentabile
con quello stendardo allacciato sotto l’ombelico, Bengiamino non
poté fare a meno di sentirsi soddisfatto.
Partì quindi alla ricerca di Chiara, più nervoso che
veramente adirato per quel brutto tiro, senza mancare di porgere i suoi
saluti a Madonna Auditore quando la incrociò nel salone.
Non trovò Chiara, ma Laura tartassata dai tre ragazzi.
Se ne stava zitta con gli occhi fissi su di un libro, non molto
interessata ad esso quando al voler evitare di guardare i tre ragazzi
nudi che stavano sbraitando attorno a lei.
«I nostri bauli sono vuoti, hanno portato via tutto eccetto le
bandane», disse disperato Corella, guardando poi come si era
coperto Bengiamino. «Oh, intelligente!»
«Stupida femmina, dicci dove sono i nostri vestiti!»,
sbraitò Spallaci, ottenendo come risposta uno sbadiglio della
milanese.
«Non ho idea di dove le altre abbiano nascosto le vostre
cose», gli rispose dopo un istante, voltando la pagina del libro
che stava leggendo per coprire una risatina imbarazzata. «Ma,
Alessandro: fossi in te mi procurerei una vanga e qualcosa con cui
coprirmi. Ha ripreso a piovere, fuori.»
E detto questo si alzò, salutando educatamente con un cenno del
capo e prendendo la scalinata che conduceva alle camerate. Si
fermò un istante a pochi passi da Bengiamino, prendendogli il
braccio e sussurrandogli qualche parola di scusa all’orecchio.
Peccato che non paresse affatto pentita.
«Fuori?!» Corella si sporse dalla finestra, notando poi
qualcosa di strano. «Ehi, Cristiano, quella su quell’albero
non è la tua divisa?»
Il biondo mugugnò, sporgendosi a guardare.
Pareva proprio lei.
Mentre cercava un modo per far soffrire Violante senza ucciderla, notò qualcosa. Anzi, due cose.
Piantata nel terreno c’era una bottiglia di vino rovesciata, vuota ovviamente, e sotto di essa solo terra smossa.
Senza dimenticare quello che pareva uno dei fazzoletti ricamati di Spallaci, arrotolato sulla porta della chiesa.
«Credo di sapere dove possiamo trovare le nostre cose, miseriaccia.»
Mentre i tre partivano di buon passo per uscire all’aperto, Bengiamino restò a guardarli allontanarsi.
Non pensò neanche per un istante di cercare tra la terra smossa
o su un albero; Chiara non avrebbe potuto essere così banale
neanche per sbaglio. Sebbene l’idea di costringere Spallaci ad
affrontare le suore di San Bartolomeo non era poi così mediocre.
Trovare la ladra delle sue vesti, ad ogni modo, restava l’unica possibilità di recuperare camicia e calzoni.
Fissandosi la bandiera alla vita per assicurarsi che quella trovata non
finisse per tradirlo, Bengiamino prese la via di sua sorella, salendo
le scale verso le camerate.
Se Chiara si fosse rifugiata nella stanza designata alle ragazze, non
si sarebbe di certo fatto problemi a fare irruzione. Dopotutto, ormai
era difficile immaginarsi più miserabile che errante per il Covo
coperto soltanto di un lembo di stoffa.
Come da previsione, trovò tutte le ragazze affollate alla
finestra a ridersela sotto ai baffi. Anzi, a ridere platealmente quando
qualcuno fuori riuscì a cadere sul fango.
Ovviamente si trattava di Corella.
Bengiamino si mise dietro di loro con le braccia incrociate, osservandole con un sopracciglio alzato.
«Guardate Cristiano!», Viola si portò una mano alle
labbra, indicando verso la piazza e il campo adiacente. «Si
farà malissimo se scivola e struscia sulla corteccia.»
«Puoi giurarci», ricalcò Laura con un sorrisetto
malevolo. «Anche se Spallaci è quello che rischia.»
Seccato, Bengiamino diede un colpo di tosse per annunciare la sua presenza nella camerata.
Le ragazze si voltarono tutte di scatto, dapprima con espressione di
sorpresa preoccupazione, poi con un lieve risolino a spiegare le loro
labbra.
Arrossendo appena, Bengiamino realizzò di essere appena entrato
in una camerata di sole ragazze vestito con nient’altro che una
bandiera attorno alla vita. Bandiera che non gli era parsa neanche
così coprente, ma preferì non indagare. Non in quel
frangente.
«I miei vestiti», ordinò, portando le braccia dietro
la schiena. Inspirò un paio di volte, imponendosi tutto il
contegno che suo padre aveva insegnato a lui e ai suoi fratelli e che
Laura pareva aver interamente gettato al vento. «Per
favore.»
Laura fu la prima a lasciare la stanza, tirandosi dietro Paola. Entrambe ridacchiavano come due ragazzine.
Violante abbassò lo sguardo su Chiara, la quale fissava il pavimento rossa in viso.
«Di lui ti devi occupare tu, secondo spartizione», le disse, facendola arrossire ancora di più.
Anche la bolognese lasciò la stanza, sussurrando un
‘complimenti’ a Bengiamino e dandogli una pacca sulla
spalla.
Sembrava un apprezzamento, ma il milanese decise di non sindacare nemmeno su quello.
Fulmineo, scattò verso Chiara, bloccandola nell’angolo tra
il letto e il muro senza lasciarle neanche il tempo di protestare.
«I vestiti», sospirò, accigliandosi appena. Allo
scuotere la testa della fiorentina, portò la mano a bavero della
bandiera attorno ai suoi fianchi. «Chiara», chiamò,
fermo, mentre con il braccio spingeva la stoffa ad abbassarsi. «I
vestiti. Ora.»
Chiara, dall’alto della sua innocenza, non comprese subito cosa
stava per accadere. Balbettò qualcosa, portando le mani al viso,
prima di scuotere nuovamente il capo.
«Ho promesso alle ragazze che sarei rimasta zittina!», confermò, tenendo le mani sugli occhi.
La non-risposta di Bengiamino la mise in allarme. Riuscì a
resistere sì e no due secondi, prima di togliere le mani
nell’esatto istante in cui il drappeggio scivolava lungo le gambe
magre di Lorenzetti, lasciandolo del tutto nudo.
Bengiamino dovette richiamare a sé tutta la buona volontà
di cui disponeva per non perdere il controllo e correre a coprirsi come
la più pudica delle vergini. Non si era mai mostrato senza vesti
dinanzi a una donna, neanche a sua sorella.
«Se non mi dici dove hai nascosto i miei vestiti»,
esordì, dapprima impacciato per poi guadagnare sicurezza man
mano che procedeva nell’illustrare il suo piano.
«Uscirò da quella porta e andrò a chiederlo alle
altre senza coprirmi in alcun modo.»
Tirò su col naso, un po’ per l’imbarazzo e un
po’ per il freddo, ma non staccò gli occhi seri da quelli
spalancati di Chiara.
Alla biondina parve bastare.
Il suo labbro tremò appena, mentre non riusciva proprio a
staccare gli occhi dal corpo perfetto di Bengiamino. Allungò una
delle mani, accarezzandogli appena lo stomaco, riportando gli occhi nei
suoi e facendosi più determinata di quanto lui avesse calcolato.
Si alzò sulle punte, attenta a non sfiorare il corpo nudo del
ragazzo, ma riuscendo al contempo a sfiorare le sue labbra con un
bacio appena accennato.
Poi tornò in sé e con un paio di passetti si allontanò, dandogli le spalle.
«Sotto al letto del Mentore. Non volevo rovinarli, portandoli sotto alla pioggia.»
Bengiamino sospirò, più intenerito da quel bacio che
dalla mera soddisfazione di potersi finalmente rivestire. Si
chinò a raccogliere la bandiera per poi rimetterla al suo posto
attorno ai fianchi e si lasciò sfuggire uno sbuffo soddisfatto.
Quando si voltò per ringraziare Chiara, lei era già sparita sul corridoio.
Di gran carriera, perciò, Bengiamino si decise ad abbandonare la
camerata delle ragazze per percorrere l’ultima scalinata che lo
separava dalla sua armatura.
Bussare alla porta del Mentore gli richiese più tempo del previsto.
Pensò più e più volte a come esordire, a come
spiegare, covando la speranza che Ezio fosse sgattaiolato via contro
gli ordini del guaritore.
Alla fine, optò per la via più giusta: la verità.
«Mentore», disse, quindi, bussando alla porta di legno con
compostezza. «Sono Bengiamino. Sto cercando i miei vestiti.»
Dall’interno arrivarono due risate, una maschile e una femminile, che gli fecero alzare gli occhi al soffitto.
Entrò, quindi, senza attendere il permesso, ed evitò
accuratamente di guardare sia Ezio che Viola, mentre si chinava per
raccogliere le sue cose sotto al letto. Sembrava esserci tutto.
«Voglio partecipare anche io, a queste cose», stava dicendo
il Mentore, così divertito dalla situazione da rendere
impossibile ogni suo tentativo di nascondere l’ilarità.
«La prossima volta verrai avvertito, promesso», lo
rassicurò la bolognese, rimanendo appoggiata alla finestra con
le braccia incrociate.
Con l’armatura ancora in mano, Bengiamino assottigliò lo sguardo su Violante.
«Paola ti cercava», le disse, tentando di coprire la sua
menzogna con un cenno del capo colmo di disinteresse. «Pare che
Spallaci si sia vendicato dello scherzo.»
Ricambiò vago l’occhiata preoccupata che la bolognese gli
lanciò, prima di seguirla con il capo per tutta la stanza fino a
che non sparì dietro la porta che dava sul corridoio.
Sentiti i suoi passi scattanti scendere le scale, Bengiamino si liberò della bandiera, prendendo a rivestirsi.
«Hai detto che vuoi partecipare a questo genere di cose», disse, allacciandosi gli spallacci sulle spalle.
Ezio ricambiò il suo tono serio con una risatina lieve.
Bengiamino non si scompose.
«Ebbene», continuò, mentre con immenso sollievo si
stringeva la cintura in vita. «Stanotte ci servirà il tuo
aiuto.»
Maria,
che si era intrattenuta per affari personali fuori da Roma per qualche
giorno, decise di tornare proprio nel momento meno opportuno.
Dopo aver aiutato un ignudo Cristiano a scendere da un albero e un
altrettanto scostumato Corella a recuperare tutti i suoi vestiti
coperti dal fango, si era vista costretta a salvare la vita a Spallaci,
inseguito da un intero ordine di suore munite di crocifissi e scope.
Quando le donne le avevano detto di aver beccato il ragazzo a frugare
sotto alle panche totalmente nudo, lei aveva quasi perso il nume della
ragione.
Grazie al cielo, avevano reso le vesti al romano, anche se Maria stava
ponderando l’idea di mandarlo a casa dalla madre completamente
spoglio di ogni cosa. Dignità compresa.
Prima della cena aveva fatto una bella ramanzina a tutti, ma come sempre era bastata una parola di Ezio per invalidare tutto.
Come se poi l’avessero ascoltata …
Li aveva fatti ritirare a letto molto prima del solito, promettendo
giri di corsa a non finire la mattina successiva, ma certa che la loro
obbedienza non fosse per paura ma solo perché pioveva ancora
fortissimo e quindi non aveva senso uscire dal Covo, nemmeno per andare
a bere.
Il solo temerario era stato Corella, ma nessuno degli altri era
sembrato incline ad accompagnarlo, così anche il forlivese aveva
desistito.
«Hai una brutta cera, Laura.» Maria poggiò una mano
sul viso della milanese, sentendolo bagnato di sudore freddo.
«Non ti senti bene?»
«Crampi all’addome, nulla di che», la
rassicurò Laura, stendendosi piano sul letto per paura di
rimettere la cena. «Passeranno presto, forse oggi ho riso davvero
troppo.»
Maria assottigliò lo sguardo.
«Domani manderò a chiamare il guaritore», rispose,
allontanandosi verso il suo giaciglio dove – finalmente –
riuscì a togliersi il mantello dopo un giorno intero passato in
viaggio. «Dirò a Ezio di lasciarti dormire.»
Frugò un po’ nella sacca, estraendo una lettera imbustata
da una calligrafia tanto pomposa quanto elegante, e la porse a Paola.
«Da Niccolò», spiegò.
Chiara fece capolino dal suo cumulo di coperte.
«Sei stata a Firenze?», chiese.
Maria annuì.
«Di passaggio, giusto ieri.»
«E Machiavelli?», chiese preoccupata Laura.
«Sua moglie è riuscita a calmarlo. Ancora qualche tempo e potreste vederlo tornare a Roma, chissà.»
«Festeggiamo», disse ironica Violante. «Anche se devo
ammettere che senza Machiavelli non si respira la stessa aria.
Sarà anche un po’ sadico, ma è l’essenza di
questo posto.»
Maria parve quasi impressionata dalle parole della bolognese, tanto che non aggiunse altro.
Violante aveva centrato il punto: senza Niccolò non sembrava nemmeno di star preparando un addestramento serio.
Forse perché, in effetti, non c’era serietà. Di nessun tipo.
Ezio era un grande Assassino e un buon mentore; stava insegnando molto
ai ragazzi, ma tendeva ad essere eccessivamente permissivo con loro.
«Paola, leggi la missiva e poi lumi spenti», disse Maria,
rimanendo con addosso solo i calzoni e una camicia sformata.
Si lasciò cadere con il capo sul cuscino, certa che si sarebbe
addormentata in un baleno, aiutata dallo scrosciare armonico della
pioggia.
«Com’era Firenze?»
La fastidiosa voce di Chiara le fece aprire gli occhi e sollevare un
poco il capo verso il giaciglio della ragazzina, la quale se ne stava
lì, con il viso rotondo tra i palmi delle mani, così
contenta di sentir nominare la sua città da apparire quasi
emozionata.
«Come Ezio Auditore quando non se ne va in giro
zoppicando», le rispose Maria, scrollando le spalle mentre si
tirava la coperta sul mento. «Frivola, scapestrata e piena di
buone intenzioni.» Fece una pausa, rendendosi improvvisamente
conto che Ezio e Firenze avevano addirittura lo stesso odore, ma si
costrinse a scacciare immediatamente quei pensieri. «E ora su,
spegnete le candele!»
Si voltò su un fianco, chiudendo gli occhi e concedendosi al
sonno. Tutti i discorsi che Machiavelli le aveva fatto prima di
lasciarla partire alla volta di Roma le rimbombavano in testa come
raccomandazioni inutili.
Si concesse un lungo sospiro rilassato, lieta di trovarsi tra le
lenzuola fresche di bucato, mentre fuori imperversava l’inferno
tra lampi e acqua. Stava prendendo sonno, quando sentì un
piccolo singhiozzo dal letto di Chiara.
Nonostante tutto, quella notte non era la sola a sentire un po’ la mancanza di casa.
Dormivano tutte profondamente, quando lo scricchiolare delle assi sotto
i passi leggeri di qualche insonne destò Maria dal sonno
profondo in cui era caduta non appena i lumi erano stati spenti.
Allarmata, la donna si tirò a sedere sul materasso, allungando
la mano sotto al cuscino per afferrare il coltello che le assicurava un
riposo tranquillo.
Qualcuno, nel buio della camerata, si muoveva più furtivo del solito.
Stava per alzarsi e andare a controllare i letti, quando una risatina sul corridoio la tranquillizzò.
Ezio.
Con la mente offuscata dal sonno, Maria non poté far altro che associarlo a Violante.
Si buttò sdraiata, coprendosi con le coperte e aspettando che la
porta si richiudesse con grazia, dopodiché chiuse gli occhi,
tornando a dormire.
Non riuscì neanche ad assopirsi.
La voce di Ezio arrivò così profonda e agitata che per poco le pareti della stanza non presero a tremare.
«I Templari!», urlava dal corridoio, mentre i passi veloci
degli altri Assassini si affrettavano a raggiungerlo.
«Attaccano il Covo!»
Nell’esatto istante in cui Maria scattò in piedi, le urla delle altre ragazze la colsero di sorpresa.
«Mi hanno presa per i capelli!», gridò con voce
strozzata Chiara, mentre la modenese cercava di accendere una candela
con l’aiuto di alcuni fiammiferi.
Quando finalmente ci riuscì, si trovò davanti uno
spettacolo a dir poco assurdo: tutte e quattro le altre giovani erano
attaccate per i capelli alle testate dei letti. Nel senso vero e
proprio della cosa.
Fu allora che capì.
Si sedette di peso sul letto, senza aiutarle, mentre i ragazzi facevano irruzione insieme al Mentore ridendo come pazzi.
Maria glielo concesse, ancora troppo stordita dalla paura che le aveva
attanagliato le viscere, ascoltando quello che stavano dicendo.
«Ben vi sta!», chiocciava Corella, saltellando soddisfatto
intorno al gruppetto dei ragazzi. «Avete avuto ciò che
meritavate!»
«Guardatele!», gli fece eco Spallaci. «Spaventate come le oche che sono!»
Di tutte le risate che accompagnavano quello scherzo, però, la
più fragorosa era quella di Ezio, il quale se ne stava in
disparte, in fondo alla stanza con le spalle appoggiate al muro.
Improvvisamente colma d’ira, Maria si alzò, lasciando che
il coltello che ancora stringeva in pugno cadesse sul materasso. Mosse
un passo in avanti, dopodiché superò i ragazzi con uno
scatto, buttandosi contro Ezio e prendendolo per la collottola.
«Adesso dammi una buona ragione per cui non dovrei
prenderti a schiaffi fino all’alba», soffiò,
spingendolo contro il muro con i pugni chiusi attorno al colletto della
camicia.
Ezio la guardò stranito, prima di prenderle i polsi e staccarsela di dosso.
«Smettila di fare sempre la rompiscatole, Maria», le disse,
con tono un po’ scocciato. «I ragazzi meritavano la loro
vendetta.»
«Ci mancherebbe!», disse con tono alto Spallaci, mentre
Bengiamino appoggiava la fronte alla sua spalla, colto da un eccesso di
risate. Fu il primo a cercare di ricomporsi, sedendosi sul letto di
Chiara e iniziando a liberarle i boccoli chiari. «Sono stato
picchiato da un branco di suore pazze, per colpa di questa
ragazzine!»
Corella fece lo stesso con Laura, mentre Cristiano aiutava Violante, ma il forlivese sembrava in difficoltà.
«Dopotutto, è un gioco. Che mai potrebbe esserci di male!»
Maria alzò gli occhi al cielo.
«Non dovresti essere tu a supportare queste ripicche
infantili!», puntualizzò, dando un ultimo strattone a Ezio
prima di lasciarlo andare. «Mi avevi promesso la testa del
Valentino, non un’orda di ragazzini!»
Si scostò scuotendo il capo e andò a raggiungere Laura al
suo giaciglio, spingendo via Corella con una manata in faccia.
«Che succede?»
Il tono spezzato della milanese la fece sussultare.
Con tutti i ricci che quella ragazza si ritrovava in testa, era un
miracolo che Corella fosse riuscito a scioglierne quasi due ciocche
dalla testiera del letto.
Recuperando un coltello dalla cintura di Bengiamino, Maria sospirò.
«Bisogna tagliarli», decretò.
Calò il silenzio.
Laura portò una mano alla bocca, ma Corella fermò il braccio di Maria.
«Stavo riuscendo a scioglierli, lasciami fare!»
La modenese lo fulminò con lo sguardo.
«Rimarrebbero dei nodi impossibili da sciogliere. Levati, ragazzino, lascia fare a chi capisce qualcosa.»
Fu davanti al dono così duro della donna che l’ultima
persona che tutti pensavano potesse perdere la testa, si fece avanti.
«Ma chi ti credi di essere?» Cristiano la guardò con
aria di sfida. «Sei solo una poveraccia che viene messa insieme
al ‘branco di ragazzini’ invece che dietro a missioni che
valgono.»
«Soprattutto, non sei nostra madre», concluse Spallaci.
«Se vuoi dei figli, fattene uno e levati dai piedi.»
Per la seconda volta, nella stanza calò il silenzio.
Maria rimase un istante con lo sguardo perso nel vuoto, prima di scostare il coltello dal capo di Laura.
«Hai ragione», mormorò, guardando Spallaci con pochezza.
Sentiva gli occhi lucidi e il respiro farsi pesante, ma non avrebbe
dato dimostrazione della sua debolezza lì davanti a tutti.
Si voltò verso Ezio, il quale era rimasto impietrito con la schiena addossata al muro.
«Prenditi i tuoi Assassini e vattene al diavolo», sibilò, scoccandogli un’occhiata di puro rancore.
Lui aprì la bocca per ribattere, ma subito la richiuse. Fece
cenno ai ragazzi di lasciare la stanza, guardandoli sfilare sul
corridoio uno dopo l’altro con tutte le lamentele dovute al caso.
Si trattenne un istante in più, lanciando un ultimo sguardo
nella direzione di Maria, per poi allontanarsi chiudendo l’uscio
dietro di sé.
Con lo sbattere della porta, la donna scosse il capo, passandosi la
manica della camicia sugli occhi umidi prima di recuperare il coltello.
«Mi dispiace», mormorò, rivolgendosi a Laura. «Non c’è altra soluzione.»
Laura annuì lievemente.
Si sentì un taglio e, quando la milanese si mise seduta,
metà dei sui capelli cadevano ancora fino a metà schiena,
mentre l’altra metà si fermava alle spalle.
Con determinazione, Maria glieli pareggiò, lasciando poi cadere le ciocche scure sul materasso.
Si buttò di nuovo sul suo letto, mentre anche Paola veniva
liberata da Violante, e lasciò cadere lacrime amare sul cuscino.
Chiara fu la prima ad avvicinarsi, incapace di realizzare la situazione.
Si sedette sul letto accanto a lei, accarezzandole una spalla.
«I capelli di Laura ricresceranno», le disse con un sorriso benevolo.
Paola roteò occhi, mentre Viola faceva un passo verso di loro.
«Non sta di certo piangendo per i capelli. Dio, Chiara, perché sei così stupida?»
Mugolando qualche sommessa parola di scusa, la fiorentina si ritrasse nel suo letto.
Cacciando via quelle poche lacrime che erano riuscite a scapparle,
Maria si stese sul fianco, rivolgendo lo sguardo sulle ragazze.
«Tornate a dormire», disse loro, mordendosi un labbro per
la poca convinzione con cui quelle parole risuonarono nella stanza
«Domattina occorre alzarsi prima del solito.»
Finalmente libera dalle attenzioni di Paola, Laura si alzò in
piedi, strattonando la rossa per il braccio fino al letto di Maria, sul
quale si sedette con grazia.
«Le parole di Augusto ti hanno ferita», disse dolcemente.
Viola si inginocchiò davanti al materasso, appoggiando il viso sulle braccia in attesa di un racconto.
Chiara stessa sembrava curiosa e dispiaciuta per la modenese, e non si
ritirò di certo nonostante le avessero appena dato della
stupida. Di nuovo.
Paola fu la sola, però, che parve smuovere qualcosa in Maria. Le
sorrise benevola, accavallando le gambe con eleganza dopo essersi
seduta accanto a lei.
«Spallaci è un idiota, e sbaglia. Tu per noi sei una mamma e dovremmo essere tutti grati delle tue cure.»
Maria le sorrise mestamente.
«Sono stata madre, molto tempo fa», confessò,
tirando quel sorriso in una smorfia addolorata dai ricordi. «Un
ragazzino tale e quale a voi, con la stessa voglia di rompersi
l’osso del collo ogni volta che metteva piede fuori di casa.
Dovrebbe esserci lui, qui, anziché io.»
Chiara si sporse in avanti, appoggiando una mano sulla spalla di Violante per mantenersi in equilibrio.
«Dov’è ora?»
Paola le scoccò un’occhiata che fu sufficiente a zittirla.
«L’Emilia non è sempre stata sotto il dominio dei
Borgia», rispose Maria, scrollando le spalle. «Quando il
Valentino iniziò a mettere le mani sul ducato, il popolo si
ribellò alla guardia. Io e Giovanni eravamo in prima fila, alle
porte di Modena in tempo per vedere Cesare Borgia entrare in
città.» Fece una pausa, stringendo i pugni per contrastare
la disperazione che i ricordi portavano con sé. «Quando
Giovanni lo vide a cavallo, fu troppo veloce ad attaccarlo
perché io potessi fermarlo. A Cesare bastò un colpo di
spada per ucciderlo. Impalò la sua testa dinanzi alle mura,
così come fece per tutti i ribelli.»
A quelle parole, tutte e quattro le ragazze rimasero impietrite.
All’improvviso, compresero molti dei comportamenti di Maria.
«Per questo ti sei attaccata tanto a Cesco?», si attentò Viola, con tatto.
«Assomiglia molto a Giovanni», confermò Maria,
cercando di sorridere mentre le lacrime tornavano a far capolino dalle
sue ciglia. «La stessa voglia di mostrare chi è e mettersi
in gioco, nonostante la poca esperienza.»
Laura tirò su col naso, asciugandosi un paio di lacrime che le solcavano le guancie con il palmo aperto della mano.
«Scusate», balbettò, rimettendosi composta
nonostante non riuscisse a smettere di singhiozzare. «Non so che
mi prende.» Ridacchiò, asciugandosi l’ennesima
lacrima mentre Chiara andava ad abbracciarla.
«Siamo tutte esauste», disse Maria, sforzandosi di apparire
più composta di quanto fosse in realtà. «Per oggi
andate a dormire; abbiamo bisogno di riposo.»
Contrariamente ad ogni aspettativa, Violante fu quella che ebbe l’ultima parola.
Lei e Maria non erano mai andate d’accordo, non si sopportavano
visto che entrambe smaniavano per le attenzioni di quel Mentore che
aveva raccolto entrambe dalla strada.
Mentre tutte si infilavano sotto alle coperte, la bolognese chiamò Maria, sorridendole sinceramente.
«Noi siamo una famiglia», disse, ricevendo l’appoggio
di tutte e una soffiata di naso da parte di Laura. «Come tale,
non permetteremo che tu possa mai rimanere sola. Niente ti
ridarà indietro Giovanni, ma ora hai nove figli a cui tirare le
orecchie.»
Maria ricambiò riconoscente il sorriso, prima di sporgersi per spegnere la candela.
«Non chiedo di meglio.»