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Autore: RobynODriscoll    14/05/2014    5 recensioni
"Sono stata molte cose nella mia vita. Figlia e assassina, sposa e puttana, sorella e traditrice, amante e spergiura; a volte saggia, a volte folle, a volte sciocca e inerme. Ho creduto e ho dubitato, ho osato e ho fallito. Tante, troppe volte, ho avuto paura, tranne quando avrei dovuto averne per davvero.
Mi chiamo Bianca Auditore, sono figlia di un assassino e di una ladra. Cesare Borgia è stato il mio primo amante: diceva che era la mia purezza a istigarlo al peccato, come una macchia nera sulla mia pelle. Ma sbagliava; perché il peccato non è una macchia. Il peccato è di un bianco accecante. Come la neve e il vuoto, la morte e l’assenza. Come il lutto, la gioia, e la veste degli Assassini."
Genere: Azione, Introspettivo, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Crack Pairing | Personaggi: Claudia Auditore , Ezio Auditore, Leonardo da Vinci , Maria Auditore , Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Io venni dove le campagne rosse
eran del sangue barbaro e latino

che fiera stella dianzi a furor mosse.
E vidi un morto all’altro sì vicino
che, senza premer lor, quasi il terreno
a molte miglia non dava il cammino.
E da chi alberga fra Garonna e Reno
vidi uscir crudeltà, che ne dovrai
tutto il mondo d'orror rimaner pieno
.

(Ludovico Ariosto, riguardo la Battaglia di Ravenna.)


 

Ci eravamo riuniti da poco agli eserciti di De Foix, quando, la sera dell'8 aprile, i francesi iniziarono a bombardare le mura di Ravenna. Ogni sparo era un tuono che squarciava il cielo. Nessun tamburo di battaglia scandiva le nostre ore; solo quel suono devastante, che faceva tremare le ginocchia ogni volta con identico terrore.

Il giorno successivo, una parte dei nostri attaccò la città e un’ altra si schierò, pronta per la battaglia, nel caso l’esercito nemico fosse giunto in soccorso dei ravennati. L’attacco fu massiccio, e venne respinto comunque. Noi subimmo le perdite maggiori.

Parlo di un noi che, naturalmente, non significa nulla: io non facevo parte dei combattenti che attaccarono la città. Mio padre non permise che mi unissi a quel primo scontro.

«Assaggerai la battaglia. Presto.»

Non capivo se me lo stesse promettendo, o se mi stesse mettendo in guardia. Di certo, la cupezza della sua voce mi faceva propendere per la seconda interpretazione.

«Dovremmo approfittarne ora. Mentre sono distratti con questi attacchi...conosco quelle mura, posso infiltrarmi senza difficoltà. Ucciderò il Papa e prenderò il Serpente.»

«Abbiamo già i nostri infiltrati in città» disse laconicamente Ezio, prima di voltarmi le spalle. Quel suo atteggiamento non cessava mai di farmi infuriare. Lo afferrai per il braccio, costringendolo a voltarsi.

«Giovanni De' Medici non si sporcherà le mani. E' un uomo troppo intelligente per mettere a repentaglio la sua occasione di diventare Papa, lo sapete.»

«Non è quello che intendevo.»

«Cosa intendevate, allora?»

«Che i nostri uomini proteggono il cardinale De' Medici. Loro compiranno il lavoro al momento debito.»

Serrai la mascella. «Perché non possono intervenire ora? Perché non possiamo evitare la battaglia?»

Ezio resse il mio sguardo accusatorio. «Perché sarà più semplice per loro fuggire in una mischia, piuttosto che scappare da una città presidiata.»

«Quindi lascerete che migliaia di uomini perdano la vita per dare una possibilità ai nostri infiltrati?»

Mio padre annuì, gravemente. «Tutti meritano la possibilità di scegliere, Bianca. Chi morirà sul campo di battaglia avrà soltanto incontrato le conseguenze delle proprie decisioni: me e te compresi.»

Aveva ragione, naturalmente. Lo sapevo, eppure non riuscivo a togliermi dalla mente l'idea che, forse, il possibile sacrificio di alcuni era un prezzo accettabile per la salvezza di tanti altri.

Poi, mi pizzicai forte. Avevo, per un breve momento, pensato come un templare. La vicinanza dei nostri alleati mi stava corrompendo? Non saprei dirlo; ma volevo evitare qualsiasi associazione con loro, anche la più lieve. Perciò, mi misi il cuore in pace. Avremmo dovuto attendere lo scontro aperto.

La sera, l’esercito nemico si accampò a quattro miglia da noi, con i suoi stendardi, i suoi elmi, e le sue macchine da guerra che si confondevano in lontananza come un'unica macchia scura. Segnalarono la loro presenza ai difensori di Ravenna con tre colpi di cannone, ravvicinati. Strano. Il mio cuore non sanguinò quanto aveva fatto quando avevamo attaccato Ravenna con la nostra artiglieria.

Durante l'assalto di quel giorno, il comandante dell’artiglieria francese era stato ferito gravemente dall'esplosione di un colpo di bombarda ravennate. Adesso, i cannoni erano passati sotto la stretta supervisione di Martino e di una squadra di bombardieri scelti, a cui mio marito dava ordini direttamente in francese. I Templari non erano stati felici di vedersi scalzare da un Assassino, ma a quanto pareva anche a loro toccava ingoiare bocconi amari per il bene dell'alleanza. De Foix, comunque, li tenne a bada con il suo rinomato polso di ferro. Quel maledetto serpente di sangue reale sapeva essere un capo inflessibile, e sembrava riservare a Martino una sorta di muto rispetto che mi colpì. Mentre li osservavo discutere di strategia in un francese piuttosto stretto, ricordai il loro duello tra le mura del Castello Sforzesco, due anni prima. Non avremmo mai pensato, allora, che saremmo stati costretti a combattere fianco a fianco.

Ermes e Vanni erano arrivati insieme al loro comandante, ovviamente. In quella prima giornata di assedio cercai di evitare mio fratello il più possibile; lui mi fece il favore di fare lo stesso con me. Per quanto riguarda mio padre, lo vidi ignorare a lungo la sua presenza, rivolgerglisi solo se era necessario per impartire ordini. Vanni stringeva i denti, chinava il capo e ubbidiva. La freddezza tra loro avrebbe dovuto parlarmi di odio e risentimento, ma dopo aver parlato con Margherita vedevo quel comportamento per ciò che realmente era: amore andato a male. La tristezza che nasceva dentro di me all'idea è difficile da raccontare, e perfino da ammettere.

Dovevo metterla da parte, comunque. L'amarezza e il rimpianto non ci avrebbero aiutati a vincere.

Lentamente, le nostre fila si ingrossarono. Il 10 aprile, mentre i papalini si accampavano dalle parti del Molinaccio, noi ricevevamo rinforzi da Bologna: quando ci raggiunse, mia madre baciò mio padre, mi abbracciò. Poi si fece largo tra i templari e strinse Vanni nello stesso modo, senza esititare un momento. Dopo un istante di indecisione, Vanni ricambiò l'abbraccio.

Fu un fatto strano, quasi stonato per tutti, lì in mezzo. Una divisa di assassino premuta contro una casacca da templare. Come vedere l'inverno camminare al fianco dell'estate, o il sole correre in cielo accanto alla luna.

Lo sconcerto durò solo qualche istante, comunque. Insieme al drappello bolognese, arrivò Jacopo, con una sorpresa. In sella di fronte a lui stava una figuretta incappucciata, che riconobbi solo quando alzò il viso, e gli occhi cangianti si misero nei miei.

«Ho provato a dissuaderla» disse subito l'ambasciatore, calcandosi gli occhiali sul naso prima di scendere da cavallo e aiutare Simza a fare altrettanto. «Mi ha scritto una lettera di venti pagine su tutti i motivi per cui avremmo avuto bisogno della sua esperienza come cerusico...e lo sapete tutti quanto leggere mi annoi. Ho preferito dargliela vinta e portarla con me.»

Simza gli scoccò un'occhiata esasperata, e roteò gli occhi al cielo. Jacopo sorrise; poi le strinse lievemente il braccio, indicandole la figura del Mentore poco lontano.

Ezio osservava la giovane zingara con un'espressione imperscrutabile. Lei sussultò sotto quello sguardo rapace; io mi misi tra di loro.

«Padre, vi prego...»

Non feci in tempo a terminare, che la mano sottile della zingara si posò sul mio braccio. Mi scostò, e si fece avanti. Quando arrivò di fronte ad Ezio, si inginocchiò, chinando il capo per attendere la condanna.

Solo in quel momento, la gravità del gesto di Simza mi colpì con tutta la sua forza. Era venuta qui per consegnarsi. Agli occhi di noi assassini e, ancor peggio, dei templari di Lucrezia, lei era una traditrice. Come aveva potuto Jacopo permetterle di farlo? Lo interrogai con uno sguardo duro, a cui lui rispose ammiccando lievemente. Era tranquillo. Che non gli importasse?

«Bruciamola» ringhiò Ermes, portandosi accanto a mio padre. «E' una strega figlia di strega, ci ha pugnalati tutti quanti alle spalle.»

«E' una ragazzina innocente» disse Ezio, ma la sua voce era pensierosa. «Trascinata in giochi di potere più grandi di lei da qualcuno di cui si fidava.»

Il Bentivoglio non demorse: lo sguardo nei suoi occhi rossi era furente. «E se fosse una spia? Lei è il cane fedele di Tancredi, chi ti dice che non sia qui per spiattellare i nostri piani al nemico?»

«Garantisco io per lei!» esclamai. «Simza è l'unica ragione per cui non sono morta nelle prigioni di Castel Sant'Angelo...padre, lo sapete che le devo la vita, non potete permettere che le facciano del male.»

«Ascoltala, Maestro» intervenne Vanni, posando una mano sulla spalla di Ermes. «Simza mi ha portato i tuoi messaggi durante la prigionia. E' lei che vi ha fatti entrare. Se non fosse stato per lei, Bianca ed io saremmo morti e il Papa avrebbe già vinto.»

Guardai mio fratello, sorpresa e insieme grata di quel sostegno inaspettato. Chinai appena il capo nella sua direzione, in segno di cauta riconoscenza. Lui non replicò, se non distogliendo gli occhi dai miei.

Il clamore aveva attirato Gaston, che si fece largo tra i soldati di entrambe le fazioni, muovendosi sinuoso e letale nel suo mantello di velluto blu ricamato con il Giglio di Francia. Chiese, nella sua lingua madre, cosa stesse accadendo. Poi incontrò la figuretta china a terra, e sembrò riconoscerla. Mise mano alla spada.

Ero pronta a snudare la mia lama e rompere l'alleanza in quel preciso istante, ve lo giuro. Se non lo feci, fu perché la mano di Jacopo fu più rapida a toccare il piatto della spada di Gaston.

«Vostra Grazia» disse l'ambasciatore, con un sorriso placido dipinto sulle labbra. «Comprendo il vostro scorno per ciò che questa ragazza rappresenta...tuttavia, vi chiedo di aspettare. Non lasciate che un atto di giustizia sommaria ci privi della nostra più concreta possibilità di vittoria.»

Mentre lui parlava, mi chinai accanto a Simza, e le presi le spalle per darle conforto. Tremava. Come avrebbe potuto non farlo, di fronte a tutti quegli uomini potenti che si contendevano il diritto di decidere della sua vita e della sua morte? Tuttavia, non alzò la testa. Rimase rassegnata, in attesa del verdetto.

Gli occhi obliqui di Gaston fissarono Jacopo, come a sfidarlo a persuaderlo. «Ti ascolto, assassino», disse, ma non abbassò la lama.

L'ambasciatore, dal canto suo, non ritrasse la mano. Una scintilla di determinazione illuminò le iridi azzurre.

«Questa giovane è la figlia della zingara Zenobia, colei che il Papa ha catturato per costringerla ad usare il Serpente. Secondo ciò che Bianca e Giovanni ci hanno detto del Terzo Frutto, per attivarlo è necessario desiderare qualcosa in modo intenso e sincero. E come può Zenobia desiderare di distruggerci, se tra le nostre fila c'è sua figlia?»

«E avete considerato» sibilò il generale templare «che potrebbe non essere la zingara a manovrare il Frutto?»

«Sì. E ho ne ho tratto la conclusione che questo scenario non si presenterà.»

«Cosa vi fa essere così sicuro?»

«Vostra Grazia, vedrete bene da voi che Giuliano della Rovere non metterebbe a repentaglio la propria vita, quando può sacrificare quella di una pedina. Se avesse voluto sperimentare da solo sul Serpente, a che pro rapire i figli di Ezio Auditore?»

«Potrebbe averle spremuto il segreto, e averla uccisa. Potrebbe usare altre pedine, il suo esercito di marionette ne è pieno.»

«Potrebbe, sì. Se ne siete sicuro, avanti» con un gesto drammatico, Jacopo indicò la testa di Simza, la cascata di capelli scuri a coprirle il volto. Io la strinsi più forte. «Uccidete questa ragazza, qui, ora. Ma se vi foste sbagliato, Vostra Grazia, avreste distrutto con un colpo di spada la nostra unica possibilità di sopravvivenza. È davvero un rischio che siete disposto a correre?»

Fu una battaglia di volontà, silenziosa e feroce, quella che si consumò tra Jacopo D'Atri e Gaston De Foix negli istanti che seguirono. Simza non emise un fiato, ed io non abbassai la guardia fino a che non vidi la spada del generale francese rientrare lentamente nel fodero.

«Siete responsabile della ragazza, monsieur Jacopo. Se fugge, se passa i nostri piani al nemico, se ci tradisce ancora una volta... sarà la vostra testa a farci da vessillo in battaglia.»

L'ambasciatore si sistemò gli occhiali sul naso, e sorrise. «Sarebbe un gran bel vessillo. È quasi un peccato che io non corra questo rischio.»

Nonostante il consenso di Gaston e la risata leggera che la battuta di Jacopo aveva strappato ai presenti, Ermes Bentivoglio ancora non trovava requie. Lo leggevo sul suo volto pallido: aveva ancora la sua dose di veleno da sputare, e lo fece inginocchiandosi accanto a Simza e alzandole il mento con due dita. Il gesto fu delicato, in netto contrasto con la violenza delle sue parole.

«Se c'è una cosa che tu e il mio fratello bastardo mi avete insegnato, cagna, è a non fidarmi del seme di una strega.»

«C'è chi ha riservato lo stesso appellativo a tua madre, Ermes» disse mio padre, incombendo alle sue spalle. «Tu più di ogni altro dovresti sapere che è l'accusa più facile da muovere a una donna di potere...lascia stare la ragazza. Abbiamo altro a cui pensare, ora.»

E aveva ragione. C'erano piani da articolare, accampamenti da muovere e ordini da distribuire. Ermes lasciò il volto della giovane zingara, e quando si rialzò in piedi sputò a terra. Il gesto mi incendiò il sangue, ma a quanto pare lasciò Simza completamente indifferente. Fissò quella macchia liquida sul terreno come se fosse una goccia di pioggia, qualcosa che non aveva alcun legame con ciò che lei era.

Quando i generali si furono allontanati per discutere e curiosi di furono dispersi, Jacopo mi aiutò a risollevare Simza. Era ancora pallida, ma pareva determinata.

«Te l'avevo detto che non c'era di che preoccuparsi» le disse l'ambasciatore, riavviandole i capelli dietro le orecchie. «I miei piani non falliscono mai.»

La zingara abbassò lo sguardo, per poi rivolgerlo verso di me. Mi strinse la mano.

«Saresti potuta scappare via da questa guerra. Avresti dovuto farlo» le sussurrai. Lei aprì il mio palmo verso l'alto, e con la punta del polpastrello scrisse rapida:

Ve. Lo. Devo.

Sorrisi, ma tristemente. Le lasciai un bacio sulla guancia.

«Guai a te se non avrai cura di lei in battaglia, Jacopo d'Atri» dissi. Il mio amico accennò ad un ghigno.

«Ed è qui che la mia superiore intelligenza risplende su quelle mediocri. Io combatterò accanto al nostro migliore cerusico: ho più speranze di voialtri di non lasciarci le penne.»

Risi, quando lui soffocò un'imprecazione. Simza gli aveva pizzicato il braccio, e rispondeva al sogghigno, come a dirgli di abbassare le penne: un bel buco nella pancia forse avrebbe fatto fluire via un po' del suo smisurato ego, prima che esplodesse.

Jacopo la prese sotto braccio, fingendo un piglio militaresco che gli si confaceva molto poco. «Come tuo carceriere, riterrò ogni ulteriore provocazione nei miei riguardi un'autorizzazione a deporre i miei modi da gentiluomo.»

Il pallore sul volto della giovane zingara si era un po' disperso; quando si allontanarono insieme, fui quasi certa che stesse sorridendo con calore.

Martino mi si accostò, le mani sui fianchi e un sopracciglio alzato mentre osservava quella strana coppia che si disperdeva nella fiumana dei soldati.

«Poveraccia! Come fa a soppottallo? Quer bellimbusto nun fa artro che pallà, e pallà, e pallà ancora!»

Io sorrisi. Non ci voleva un genio per capire che si era stabilita un'intesa tra Jacopo e Simza, né per vedere dove questo li avrebbe con tutta probabilità condotti.

«Sono ben assortiti. Lei dice tutto con uno sguardo e lui non dice nulla con diecimila suoni.»

«Si nun artro so che nun ce prova più co' te.»

«Peccato. Dovrò trovare un altro uomo con cui farti ingelosire.»

Martino mi circondò le spalle con un braccio.

«C'hai già l'occasione tua. Stamo estraenno a sorte pe' li turni de guardia.»

La sorte ha sempre avuto una predilezione per me. Le piace prendermi a calci, fingere di sorridermi per schiaffeggiarmi d'improvviso, ridere ogni volta che cado. Quel giorno il suo scherzo si concretizzò nel momento in cui Vanni ed io tirammo i dadi che ci condannarono a restare di guardia all'artiglieria per due ore.

Ci scambiammo un lungo sguardo. Ci fu offerto di fare a cambio con altri compagni. Rifiutammo, quasi in coro. Era una questione d'orgoglio, una vera sfida. Nessuno doveva pensare che non fossimo in grado di dividere la stessa aria per due giri di clessidra. Soprattutto, non doveva pensarlo l'altro.


 

Credevo che la tortura non sarebbe finita mai. Ci era toccato il turno nel cuore della notte, e già essere strappati dal sonno leggero che ti avvolge quando cerchi di accoccolarti sulla dura terra è sufficiente a metterti di pessimo umore. La consapevolezza di dover dividere il tempo della pattuglia con Giovanni Antonio Auditore doveva avermi messo in viso una maschera ancora più truce, perché i compagni che mi svegliarono si allontanarono in fretta dopo le mie risposte secche e brusche. Lasciai a terra il mantello, mi avrebbe soltanto ricordato il torpore del sogno: il freddo della notte mi avrebbe svegliata a sufficienza per sorvegliare il tesoro portato in dote dagli Este, composto di otto cannoni grossi, quattro cannoni sacri, sei colubrine e dodici falconetti1. Erano stati portati in dote dai Ferraresi di Alfonso d'Este, marito della Borgia, e rappresentavano lo strumento principe per stanare il Papa guerriero.

A malapena rivolsi un cenno a Vanni, e lui a me. L'ombra di una barba incolta gli orlava il viso; con gesti lenti, meccanici, lui si diresse verso una colubrina e iniziò a caricarla. Io sedetti sulle palle con cui avrebbero caricato i cannoni, e fissai lo sguardo oltre la corona di luce descritta dai tenui fuochi da campo, quasi sperando che un nemico invisibile giungesse a spezzare quell'estenuante silenzio. Cercai contro il cielo nero le stelle e i pianeti che Agamennone mi aveva insegnato. Non c'era la luna, quella notte, a rischiarare la riva del Ronco. Potevo vedere Marte, rosso di boria, che risplendeva dentro la costellazione del Sagittario, come un dardo incoccato pronto per uccidere.

Secondo il mio amico bolognese, quelle stelle sarebbero state testimoni della sua morte. Che sciocchezza, lui era al sicuro a Milano con la sua famiglia. Il che non mi garantiva che si trovasse completamente al sicuro dal destino; di certo, però, mi consolava pensare che fosse il più lontano possibile dallo spargimento di sangue che ci attendeva.

«Bell'anello» disse Vanni d'improvviso. Non aveva smesso di curare l'arma. Gettai un'occhiata alla mia fede d'oro, con l'onice nera. «Sei stata iniziata?»

«No.» Trattenni l'istinto di dirgli che non erano affari suoi, e ripresi a guardare il confine confuso tra cielo e colline. «Martino ed io ci siamo sposati.»

«Oh.» Lui ammiccò, con genuina sorpresa. «Congratulazioni.»

«La mamma non deve saperlo. Nemmeno gli altri. E' stata una decisione improvvisa.»

«Capisco. Non gliene farò parola.»

Continuammo a sedere uno accanto all'altra, in completo silenzio. Lo schiocco del pallettone che correva dentro la colubrina fu l'unico suono tra di noi, prima che io chiedessi:

«Come sta tua moglie?»

Il matrimonio tra Vanni e Margherita era stato celebrato il settembre scorso. Ancora non riuscivo a capire fino a che punto si trattasse di un'alleanza politica, e fino a che punto invece mio fratello ricambiasse i sentimenti incondizionati di quella ragazzina.

«Bene», si strinse nelle spalle. «Stiamo cercando di avere un figlio.»

Dovetti deglutire.

«Oh.» Mi umettai le labbra. «Questa faccenda della paternità ti ha proprio preso la mano.»

Lui si limitò ad un sogghigno amaro. «Il Gran Maestro desidera che assicuriamo una discendenza alla casa Auditore-Borgia il prima possibile.»

Auditore-Borgia. Era aberrante anche solo pensare a quei due cognomi accostati. Chissà quale orrenda creatura mitologica ne sarebbe nata: un minotauro che avrei volentieri rinchiuso nel mio personale labirinto, per nascondere al mondo la vergogna di quella contaminazione che non sarebbe dovuta accadere.

«Avanti, dillo» mormorò Vanni, dopo qualche istante di silenzio. «So che vuoi chiedermelo.»

«Cosa?»

«Chi amo delle due.»

«Non sono faccende di cui devi giustificarti con me.»

«Vuoi una risposta sincera? Non lo so, Bianca. Le amo entrambe. In modo diverso.» Si strinse nelle spalle. «Forse, se avessi incontrato Ilaria prima di unirmi ai templari...molte cose sarebbero state diverse. Ma non voglio che lei entri nella nostra guerra. Deve restare al sicuro da tutto questo...anche da me. Soprattutto, da me.»

Osservai quel suo monologo, in silenzio. Fui sorpresa io stessa quando la domanda uscì dalle mie labbra. «E Margherita?»

Vanni mi guardò, gli occhi grigio-verdi calmi come non li avevo mai visti.

«Margherita conosce ogni parte di ciò che sono, e mi accetta lo stesso. Lei è nata in questa guerra come noi due, sa cosa significhi. Non devo raccontarle il peso del sangue. Non devo spiegarle i miei silenzi.»

Sì, capivo entrambe le sue giustificazioni. Anche se non le avevo richieste. Anche se non volevo ascoltarle...le sentii comunque.

Dicono che non si possano amare due persone contemporaneamente. Ebbene, chi parla così non ha mai incontrato un uomo con due anime, un uomo diviso tra un credo fortissimo che lo spinge verso il cielo e delle radici ben piantate nel terreno che non riesce a tagliare. Un uomo contraddittorio e a volte incoerente, come Giovanni Antonio Auditore.


 

L'accampamento si risvegliò poco prima dell'alba, e il prete che accompagnava l'esercito francese disse messa. Il sole era appena sorto sul giorno di Pasqua, l'avevo dimenticato. Per noi c'era in serbo la rinascita, o una Passione senza fine. La morte? Magari fosse stato l'esito peggiore che poteva profilarsi all'orizzonte. La schiavitù per noi e per il genere umano era ciò a cui Giulio II ci avrebbe condannati, liberando la forza di Plutone su di noi. Il nostro compito era annientarlo prima che potesse mettere in atto il suo folle piano.

Osservai i templari allinearsi ordinatamente per ricevere la Comunione. Accanto a me c'era Ludovico Ariosto, giunto con i ferraresi di Lucrezia. Gli rivolsi un'occhiata scettica.

«Voi siete un chierico. Spiegatemi perché ritenete necessario divorare carne e sangue del vostro Dio.2»

Ariosto si limitò a scuotere appena il capo. «Berengario di Tours e San Tommaso d'Aquino hanno sprecato molte parole su questo argomento. La mia teoria è più incisiva: io credo che vogliamo rinnovare il senso di colpa.»

«Che intendete?»

«Si tratta della commemorazione di un sacrificio, Bianca. Cristo si è sacrificato per gli esseri umani: mangiando il suo corpo e bevendo il suo sangue, i cristiani impediscono a se stessi di dimenticare che gli uomini furono i primi carnefici di Dio.»

Avvertii un senso improvviso di freddo, tanto che mi strinsi le braccia al petto. Le parole strascicate del nostro prete ubriacone a Monteriggioni mi erano sempre suonate vuote litanie, ma sì: ricordavo vagamente che parlava di un Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo. Dio – una sua incarnazione, per lo meno – si fa bestia da macello per salvare l'Uomo. Si sacrifica per qualcuno che non ha meritato il suo amore. Si sacrifica...

Quelle parole rimasero con me mentre attraversavamo il Ronco, senza il suono delle trombe ad accompagnarci, e ci schieravamo in forma di mezzaluna. Era stata una disposizione di De Foix: a quel modo i fanti non avrebbero avuto il vento in faccia e il sole negli occhi. Avevamo lasciato la retroguardia al di là del fiume, sotto la responsabilità di zia Claudia e Jacopo, perché potesse intervenire in caso di necessità o contrastare un’eventuale sortita nemica da Ravenna. Il duca di Ferrara Alfonso d'Este e mio padre comandavano un'avanguardia composta di novecento lance. Seguivano le seicento lance del corpo di battaglia, tra cui avevano preso posto mia madre, Ermes e messer Ariosto; a sinistra si schieravano le fanterie di lanzichenecchi, guasconi e francesi, insieme ai fanti italiani al comando di Federico Gonzaga; tremila arcieri completavano le nostre fila. Per il mio terrore, l'artiglieria – e con essa il mio Martino – era stata posta davanti all'avanguardia. Vanni ed io eravamo con Gaston de Foix e il suo reparto scelto di cinquanta lance. Non avevamo un posto particolare in uno dei battaglioni: ci saremmo mossi per intervenire dove ce ne fosse stato bisogno.

I cavalli pestavano il terreno, fiutando nell'aria l'acciaio, la paura, e il fiato ansioso di uomini in attesa di gettare i dadi del fato e conoscere l'esito della propria partita. Era la mia prima battaglia campale. Indossavo corazza, spallacci, schinieri. Nessun cappuccio a coprirmi il volto. Avrei ucciso alla luce di un sole fulgido e caldo, pronto a giudicarmi con più asprezza della luna. Ci sarebbero state molte vittime, di lì a poco, e molti carnefici. In qualunque dei due schieramenti fossi finita, sarei stata in buona compagnia.

Le truppe della Lega Santa avanzarono fino al limite del loro campo trincerato, sotto lo stendardo delle chiavi papali. Carrette armate di archibugi stavano nel mezzo dello schieramento, protette da un ampio squadrone di cavalleria in avanguardia che si poneva di fronte a noi come un muro. Altri cavalleggeri proteggevano i lati di un nutrito corpo di fanteria. Giulio II, il Papa guerriero, torreggiava come un vecchio, astuto rapace al centro del campo trincerato. Teneva accanto a sé una Zenobia in catene; il volto della zingara era cinereo, ma si reggeva comunque in piedi, accanto al cavallo di Sua Santa Perfidia. Al suo fianco vidi Tancredi Bentivoglio, protetto da due carcerieri bardati con elmi lucenti, immobili a capo chino, come se scrutassero meglio il nostro esercito sotto l'orlo d'acciaio, per valutarne le debolezze. Per arrivare a Zenobia saremmo dovuti passare sui loro corpi.

In un incontro diplomatico ci si scambia cortesie: noi ci salutammo a colpi di cannone. Per due ore cercammo di stanarli dalle loro buche come la volpe fa con il coniglio. Il mio cavallo stolzava le orecchie, ma non per i rumori assordanti: era la mia tensione a portare allo stremo i suoi nervi.

«Dobbiamo fare qualcosa» sibilai, senza staccare gli occhi dall'armatura coperta di scaglie dorate che il Papa Guerriero indossava con orgoglio. «Se la situazione non si smuove, sarà la dannata partita a scacchi più lunga della storia.»

«I nostri non possono avanzare» replicò Gaston, secco «i loro non si decidono ad arrendersi.»

«Attacchiamoli direttamente.»

«Sarebbe il modo più sicuro di perdere la mia avanguardia in cinque minuti netti.» Il capo del francese compì una torsione insieme melliflua e inquietante, per potermi guardare. «Per essere la figlia di uno stratega, non mi sembri molto esperta nel campo.»

Touché, lo ammetto. Ma negai con il mio sorriso migliore.

«Per essere la Folgore d'Italia e il successore ideale di Alessandro Magno, non sembri molto vicino alla vittoria.»

Lui rilasciò un secco ah!, arrogante e insieme scocciato.

«Donna impaziente» sussurrò. Poi, riportò lo sguardo sulla linea nemica, solo vagamente sfoltita dai colpi di cannone.

 

*

 

Nel frattempo, in avanguardia.

Martino lo sa, lo vede. Non stanno infliggendo nemmeno la metà del danno che potrebbero portare. Non staneranno mai gli spagnoli dal dannatissimo campo fortificato.

«Vojono che finiamo 'e munizioni» ringhia tra i denti. Accanto a lui, il soldato barbuto grugnisce. Gli hanno detto che è un Duca, e che è il marito della Borgia. A lui sembra più un orso, e che sia marito di qualcuno è già abbastanza incredibile. Ma ci sa fare con i cannoni. Ha forgiato questi pezzi con le sue mani.

«Se continua così, le finiremo presto. Sono fuori gittata, è tutto inutile.»

Martino si passa una mano sulla fronte, porta via sudore e cenere e lascia una striscia di chiaro sul volto, come una pittura antica di battaglia. Sì, appena resteranno senza munizioni i papalini potranno attaccare.

«La spiaggia» dice il Duca. Gli occhi di Martino seguono il percorso che lui gli indica. Lo guarda, perplesso. Quello spiega: «Se portiamo i cannoni alla spiaggia, avremo a linea di tiro sgombra e potremo abbattere la loro fanteria.»

«Nun è sgombra pe' niente. Ce stanno li guasconi de mezzo. Alleati nostra.»

«Ragazzo...quelli sono alleati della borsa di Gaston. Venderebbero la madre per avere un buon riscatto...sono invasori, e al nostro posto non si farebbero scrupoli.»

«So' tanto 'nvasori che rischiano 'a pelle 'nzieme a noartri, e nun li ho visti vennere proprio nessuno.»

«Andiamo, non puoi essere così ingenuo.» Alfonso nemmeno sussulta, mentre un falconetto poco lontano spara la sua carica. «Non l'hai ancora capito che qua in mezzo sono tutti nostri nemici?3»

Martino guarda il Duca, e il Duca guarda i cannoni. Figlio di una puttana templare...che tu sia dannato, fino alla fine dei tempi. E che sia dannato anche io, perché lo so, che hai ragione, e non possiamo fare altro se vogliamo vincere.

In francese, Martino grida ai ragazzi di spostare l'artiglieria verso la spiaggia. Ha una famiglia da proteggere, giù a Capodimonte, e una che combatte in questo stesso campo. Se oggi vengono sconfitti, potrebbe perderle entrambe. Gli uomini imprecano mentre spostano l'artiglieria, il legno singhiozza sotto il peso di quello sforzo. Nel cuore di Martino c'è spazio per una sola preghiera: che quei poveri ragazzi guasconi non si rendano conto che la bocca dei cannoni è rivolta su di loro.

 

*

 

Non lo sta facendo davvero.

Lo pensai quasi con calma, perché era talmente lontano da ogni mia possibile concezione che pensavo avrei visto più facilmente un unicorno. Invece sì, i cannoni si erano mossi verso la spiaggia. E sì, stavano trucidando i picchieri spagnoli, portandosi via pezzi di fanti francesi nel processo.

«Una mossa magnifica» commentò Vanni.

«Una barbarie» singhiozzai quasi. «Martino non può averlo permesso. Non ci credo.»

Con volto severo, Gaston replicò: «E' dovere di un buon capitano cercare di vincere, in qualunque modo. Se non è sciocco, anche il vostro Martìn lo sa.»

Io mi rifiutai di ascoltarlo. Mio marito non poteva aver acconsentito a una manovra del genere. Il mio Martino, che era rimasto puro nonostante tutto...

Mi morsi un labbro così forte che il sangue iniziò a scorrermi sulla lingua, mentre osservavo i bombardieri spazzare via linee intere di cavalieri spagno'li con precisi, crudeli tiri diretti. Che gli alleati francesi si trovassero sulla traiettoria, poi, sembrava irrilevante: i pallettoni di ferro4 non conoscevano bandiera.

Non fu il sangue, a sconvolgermi. Ne conoscevo l'odore, lo accoglievo come un famigliare veleno nei polmoni. Non furono nemmeno i cadaveri che si ammassavano ai piedi dei soldati, confondendo umori di ogni sorta con la terra bruna: era uno scenario che avevo già visto in molte forme. C'era però una vista a cui tutti gli anni di addestramento e missioni non mi avevano preparato: i soldati che continuavano a restare in piedi, immobili, con le caviglie abbrancate in un tappeto di arti senza vita, per non spezzare la formazione. La ragione portata allo stremo, l'obbedienza disperata anche di fronte all'evidenza della fine imminente. Non c'è nulla di più innaturale di chiedere a un uomo di non difendersi dal pericolo. Temevo il momento in cui il terrore che tendeva quei corpi avvolti nel metallo si sarebbe trasformato in ferocia, e sarebbe traboccato in una carica. Non potevano resistere ancora a lungo. Si sarebbero lanciati su di noi.

Invece, non caricarono. Rimasero immobili, i cavalier spagnoli, agli ordini di un ferreo generale dallo sguardo cupo che attendeva soltanto un cenno del Papa per iniziare l'attacco. Quel cenno non arrivò. Altri cavalli gettarono un nitrito di morte, trascinando con sé i propri cavalieri per l'ultima corsa verso l'Inferno. I comandanti italiani si agitavano, chiedevano disperatamente il permesso di avanzare verso di noi, ma il generale guardava il Papa, non riceveva alcun cenno, e negava quell'ordine che avrebbe interrotto l'unilaterale carneficina.

Poi, come temevo, l'indignazione degli uomini costretti a fare da bersaglio ebbe il sopravvento. Con un urlo di sdegno e disperazione, i primi scavalcarono il campo trincerato, e si gettarono contro i nostri gendarmi già coperti del sangue dei loro compagni, inferociti come bestie ferite, terribili.

Strinsi forte le dita intorno all'elsa della spada.

«Ora?»

Gaston non rispose. Assistemmo all'impatto delle lance spagnole contro gli scudi dei nostri fanti; le armi dei nemici si spezzarono, per l'impeto. I nostri falciarono la nuova ondata, infilzandola con le loro picche. Un altro reggimento di Papalini stava correndo in soccorso degli attaccanti.

De Foix alzò il braccio. «Ora!» gridò.

I miei talloni si piantarono nei fianchi del cavallo, la spada vibrò di aspettativa mentre veniva snudata. Ora, sì. Dritta verso il mio bersaglio. Il Papa.

Gettarmi nella mischia cambiò completamente la mia percezione dello spazio intorno. Quella che dai nostri ordinati ranghi mi era parsa una metodica partita a scacchi si trasformò in un caos di grida, umane e metalliche, che presto faticai a distinguere le une dalle altre. Devo al mio addestramento se sono sopravvissuta. La mia pelle riconobbe il sibilo di una picca prima che potessero farlo le orecchie: feci voltare il cavallo bruscamente, caricando tutta la forza possibile nel colpo di taglio della mia schiavona. Una bestemmia spagnola seguì il volo del braccio, che cadde a terra con l'arma ancora stretta in pugno. Uccisi il poveretto con un affondo nella gola. Fu uno dei pochi atti di pietà che mi concessi.

 

*

 

Simza ha promesso che resterà accanto a Jacopo D'Atri, in retroguardia. Hanno deciso che avrà un suo cavallo, per non impacciare lui nel combattimento. All'inizio, lui ha protestato. Protesta sempre, Jacopo, solo per dare aria a quella bocca grande che si ritrova. Poi ha capito che non l'avrebbe avuta vinta, e ora si limita a guardarla, stringendo un po' gli occhi che senza la cornice di quelle sue lenti buffe sono più belli, ma tanto, tanto più miopi. Simza ha intenzione di rispettare l'impegno che l'ambasciatore ha preso per lei, davvero. Si è dato tanta pena per salvarla da Castel Sant'Angelo, e per tenerla al sicuro. Ha dato la sua parola d'onore, e la giovane zingara la rispetterà. Rispetta sempre la parola degli amici.

Le parole, per Simza, sono sacre. E' per questo che non può pronunciarne nemmeno una. E' stata già toccata dal sacro, ne ha ospitato dentro di sé tanto da bastare per una vita intera. Il giorno in cui Plutone le è venuto in sogno e le ha tolto via i suoni, ha capito che sarebbe stata esclusa dal rito per sempre.

Anche questa battaglia è un rito: ma macabro, di sangue. Dèi bastardi vogliono questa guerra, e richiedono in tributo carne umana, sofferenza, grida. Si chiamano Oro, Cupidigia, Credulità. Si chiamano Potere e Cecità. Non vivono nel Cielo né nell'Olimpo, ma nel cuore di chi comanda e nella mente di chi brama di farlo.

Freme. Ha freddo, l'improvviso. E non è dovuto al massacro che si sta consumando: quello è lontano, e anche se avverte gli odori nauseanti di quei corpi furiosi e ode ruggiti e grida le sembra che tutto stia accadendo sotto una cupola di vetro. Simza non sente. Simza percepisce soltanto, sulla pelle, la sua presenza.

Gli Dèi sono qui. E non quelli falsi che hanno trascinato gli uomini in questo conflitto, no...Dèi reali, Dèi maestosi che vengono da un altro tempo, da un altro mondo, e hanno il potere necessario realizzare tutto ciò che vogliono. Plutone. Minerva. Cerere. Sono schierati con questi eserciti, e combatteranno uno contro l'altro fino a distruggersi, e distruggerli, tutti.

E' per questo che hanno lasciato che gli uomini rubassero i Frutti? Perché cadessero da soli nella propria fine?

Simza non lo sa, ma è già stata toccata dal sacro. Se c'è qualcuno che i Veri Dèi non possono distruggere, quel qualcuno è lei.

Per questo sprona il cavallo, fino a raggiungere il cuore della battaglia. Jacopo impreca, le grida dietro mentre la segue. Ma Simza non può fermarsi. Sa che c'è sua madre, laggiù, perché ha avvertito la presenza del Serpente. Se vuole che i suoi alleati siano salvi, deve fare sì che sua madre la veda.


 

*

 

Ricordo quegli attimi come lampi, immagini veloci che seguivano gli spostamenti frenetici del mio campo visivo. Quando il mio cavallo fu ferito, dovetti saltare giù di sella rapidamente per non essere schiacciata dal suo peso morente. Mi aprii la strada verso il campo fortificato dei nemici a colpi di schiavona, fendendo, tranciando. Sentivo grida, avvertivo il peso di quei corpi che stavo svuotando dell'anima, venivo ricoperta dal loro sangue. Eppure, coloro che ferivo non avevano volto. Fu come uccidere ripetutamente lo stesso uomo. Nessuno di loro aveva un nome, né una storia. Erano il nemico, ed io sapevo soltanto che, per quanto furiosamente lottassi, il nemico non moriva mai...e continuava a frapporsi come un muro di scudi umani tra me e Giuliano Della Rovere.

La pioggia di frecce guascone che calò sui fanti spagnoli mi lasciò paralizzata qualche istante, come un animale che vede il fulmine lacerare l'aria per la prima volta. Seguii la loro traiettoria con lo sguardo, incassando il mento nelle spalle: forse temevo che mi sarebbero ricadute tutte sulla testa, trafiggendomi come mille aghi. Così non fu. Il bersaglio fu centrato, i picchieri spagnoli sfoltiti dietro il muro di speroni di legno acuminati che difendeva i nostri nemici. Il cavallo del Papa si impennò, ed io lo sentii nel sangue: stava per agire. Sì...vedevo le mani di Zenobia strette intorno al bracciale dorato, e il sorriso del Papa, così lontano, eppure talmente affilato che avrebbe potuto raggiungere la mia corazza e distruggerla. Stava per farlo. Ci avrebbe annientati tutti.


 

*

La vecchia zingara guarda la ragazza che duella per la propria vita tra le file nemiche, e a stento la riconosce. Il volto insanguinato, vestito di un grido terribile che le tira la bocca e gli occhi. Non più umana. Solo una macchina di morte.

Ricorda, il giorno in cui le ha detto di credere solo nel sangue. Stella strappata al cielo, bambina che non è mai stata bambina. Che cosa ti hanno fatto? Che cosa ti abbiamo fatto, tutti noi?

Zenobia stringe forte il Serpente tra le mani, le catene che le piagano i polsi tintinnano una contro l'altra. Forse, Plutone, dovresti prenderci tutti oggi. Falcia le nostre vite, siamo il tuo tributo. In cambio ti chiedo un mondo migliore. Per Simza. Solo per lei.

L'ho vegliata da lontano, per tutta la vita. Cosa cambia se ora muoio? Continuerò a vegliarla, e sarò con Mario, e sarò con Gentile. Mi senti? Portami via, Plutone. Portaci via tutti quanti...

Ma proprio quando la lacrima le solca il viso in una scia di fuoco, e il desiderio è così intenso che può sentire il Serpente scaldarsi sotto il suo tocco, Zenobia la vede. Nella polvere, nell'intreccio di corpi e spade, vede la sua bambina senza voce, che le fa cenno da lontano. Stanno per colpirla, Dèi, no! Ma un uomo accorre e uccide il suo aggressore. Simza viene tirata giù da cavallo, e allora l'uomo scende di sella, trapassa con la spada i soldati che cercano di atterrare la ragazza, le stringe le braccia intorno alla vita e fa per trascinarla via di peso.

Simza esita. Guarda ancora la madre, con quegli occhi incredibili che hanno dentro tutte le sue emozioni inespresse. Poi, si lascia trascinare via dall'uomo, che apre loro a colpi di spada la strada verso le retrovie.

Zenobia si morde forte il labbro. Non aveva calcolato...non avrebbe mai immaginato che la sua bambina fosse qui.

Alza gli occhi sulle due guardie accanto a lei. L'uomo è alto, magro; ha visto i suoi occhi color nocciola sotto l'elmo, sembrano buoni. L'altro è più basso, e anche se ha compresso il petto sotto la corazza Zenobia lo sa che è una donna...una madre. Odora ancora del latte che quel seno martoriato dalle fasce deve essersi lasciato sfuggire. Benché siano sempre stati accanto a Tancredi, la vecchia zingara non ha dubbi. Sono assassini.

«Uccidetemi» mormora piano, perché solo la donna possa sentire.

Lei la guarda, e con la voce il più possibile bassa risponde: «Siamo qui per salvarti.»

Allora, un'altra lacrima scende sulle guance che la vita di strada ha reso butterate. Seguita da un'altra ancora. No, Zenobia lo sa che non c'è scampo se lei vive. E allora prega il dio dentro il Serpente di prenderla, ora, perché nessuno di loro avrà il coraggio di farlo. Sarà il suo agnello sacrificale, ma in cambio Simza deve vivere. Lei è l'unica creatura per cui valga la pena salvare il mondo intero.

 

*

Mi feci largo tra i soldati impegnati nelle loro danze mortali, ignorando gli ordini di Gaston e la posizione di quello che avrebbe dovuto essere il mio reggimento. Non ero mai stata brava nel gioco di squadra, e non avrei cominciato adesso. Una nuova pioggia di frecce cadde, questa volta, più vicina alla mia posizione. Avanzai, ingaggiando brevi duelli furiosi con chiunque mi si frapponesse. Loro erano forti, ma io ero veloce. Loro erano addestrati, ma io avevo avuto la Morte come compagna di giochi. Lasciai sangue sulle loro lame, ma nessuna di esse mi rubò la vita. L'animale che dorme dentro di me mi guidò verso la sopravvivenza, ancora una volta.

Quando riuscii ad aprirmi un varco in quella calca ormai disordinata di corpi, feci scivolare tra le dita la piccola balestra da caccia che portavo alla cintura. Gli occhi di Zenobia erano solo due punti bui nella distanza, eppure sapevo che mi stavano implorando: uccidimi, prima che Lui mi costringa a usare il Serpente. Stesi il braccio, mirai a quella chiazza di stracci in lontananza. Faticavo a mettere a fuoco.

«Troppo lontana» sibilò una voce sulla mia spalla. Mi voltai, per trovarmi di fronte il viso inzaccherato di sangue e fango di mio padre.

«Dobbiamo fermarla!» singhiozzai quasi, a corto d'aria. Ezio annuì, e mise mano alla scarsella dentro cui portava la Mela. Sciolse i cordoni, la impugnò e l'alzò in alto.

A questo punto non posso dirvi se siano stati i raggi del sole a colpirla; non posso dirvi con chiarezza se tutto ciò che seguì sia stata un'allucinazione, dovuta al furore della battaglia e al clamore del sangue. Tutto ciò che so, è che la Mela dell''Eden prese ad emanare una luce accecante, e la luce sprigionò i suoni, e i suoni fecero imbizzarrire i cavalli, crollare i soldati sulle ginocchia, scricchiolare il legno che teneva insieme le carrette armate. Lo spargimento di sangue si fermò, catalizzando l'attenzione di tutti verso quell'intervento soprannaturale e incredibile, che stava svuotando il volto di mio padre di ogni colore. Eravamo annichiliti di fronte a quell'arma, di cui nessuno aveva ancora visto dispiegarsi il vero potere. I soldati più crudeli e feroci scoppiarono a piangere come bambini, facendosi il segno della croce e chiedendo perdono di tutti i loro innumerevoli peccati.

La luce non era ancora cessata, quando il Papa scese da cavallo. Quel suo corpo che a Castel Sant'Angelo mi era parso incartapecorito si mosse, terribile quanto quello di un dio antico, quando alzò il Pastorale e lo conficcò ai propri piedi. Allora, ve lo giuro, la terra tremò, spaccandosi, e un bagliore violento si riversò su di noi, cantando la sua canzone stridente, per scontrarsi con la luce emanata dalla Mela che mio padre ancora reggeva tra le mani.

Tutte le ere del mondo si incisero sulla pelle cinerea di mio padre, tanto che per un attimo mi parve che sul suo viso non ci fossero più muscoli, ma solo pelle drappeggiata su un teschio ormai buono per i vermi. Con un grido disperato, afferrai anche io la Mela, unendo le mie dita alle sue.

Quello che provai in quel momento è difficile da descrivere a parole. Immaginate di essere esposti a un vento gelido, nudi e alla mercè di piccoli aghi di grandine che penetrino in ogni poro, senza la possibilità di scappare né trovare riparo. I vostri piedi sono roccia inscalfibile che vi strascina verso il basso. Il vento e la pioggia ghiacciata incidono solchi sulla vostra carne, affondando come se foste fatti di cera, raggiungendovi l'anima per mutarla in brina. Questo, sentii. Insieme alle voci ormai famigliari di due uomini vissuti molto tempo prima di me.

 

«Tu sei...mio fratello. Ti prego. Ti prego...»

«Abele, non puoi chiedermi questo...non posso!»

«Non c'è altro modo. Ti supplico...voglio soltanto la pace. Solo tu puoi farlo per me, Caino. Solo tu...»

 

Quando la luce scemò, lasciandoci spossati, feci a malapena in tempo a sentire un velo di dolore scivolarmi di dosso e disperdersi nell'aria ancora sfrigolante. Grida...spezzarono presto il silenzio reverente dei due eserciti che avevano assistito al miracolo. Il Papa: lo cercai con lo sguardo. Si appoggiava pesantemente al Pastorale, e ansimava...un Tancredi ancora tremante, al suo fianco, si era slanciato all'inseguimento di qualcuno. Sì...le due figure sconosciute di poco prima, quegli strani soldati dalla celata abbassata. Stavano portando via Zenobia, e il Cardinale De Medici.

Nostri infiltrati. Ricordai d'improvviso le parole che ci eravamo scambiati poche ore prima, Ezio ed io. I nostri uomini proteggono il cardinale De' Medici. Loro compiranno il lavoro al momento debito.

Il gelo mi calò nelle ossa. Cercai di non associare la figura più alta a una capigliatura leonina, e quella più bassa a una chioma di capelli rossi probabilmente nascosta sotto l'elmo.

Agamennone? Veronica?

Cosa avevano fatto? Perché? Avevano una figlia a cui pensare, maledizione...perché?

«Va'» disse mio padre, e i suoi occhi scuri mi supplicavano. «Copri la loro fuga.»

Inghiottii bile e paura, prendendo il Frutto dalle sue dita. Tuttavia, esitai ad allontanarmi. Non potevo lasciarlo lì, debole come sembrava...presto i nemici si sarebbero riscossi dall'atterrimento, la battaglia sarebbe ricominciata. Fui sorpresa di vedere Vanni prendere nostro padre per le spalle, e gridarmi in un tono che non ammetteva repliche: «Hai sentito? Vai!»

Che potevo fare? Mi allontanai da loro, strinsi il Frutto al petto e corsi. Non ne avevo la forza: me la diede la disperazione.

Tancredi e un manipolo di soldati stavano correndo a spade sguainate dietro ai miei amici, che cercavano di portare in salvo insieme il Serpente, la gitana e il cardinale De Medici. Altri del gruppo dei papalini si rivoltarono contro i loro compagni, rivelandosi nostri infiltrati. Cercarono di ostacolare l'avanzata degli inseguitori, ma era troppo tardi. Tancredi puntò la pistola contro il cardinale. Il colpo scoppiò, e un corpo cadde.

Quello di Zenobia.

 

Agnus Dei, qui tollis peccata mundi...

 

La zingara che aveva cercato per tanto tempo la morte la trovò quel giorno, per mano del figlio della donna che aveva servito tutta la vita. Si era messa sulla traiettoria, per salvare Giovanni De Medici e, insieme, impedirsi di usare l'arma che Giulio II le aveva messo tra le mani. Sentii le lacrime scendermi a fiotti sulle guance e scavarle, un urlo muto mi lacerò i polmoni. Mentre Agamennone e Veronica spianavano le armi per rispondere al fuoco, io affondai le unghie nelle scanalature della Mela. Come per ribattere all'improvvisa violenza con cui lo stringevo, il Frutto dell'Eden mandò un'altra vampata di luce furente. L'ondata di ghiaccio mi investì di nuovo.

Nemici e alleati serrarono gli occhi per non soccombere alla ferocia di quei raggi. Qualcuno cadde a terra, gridando di essere diventato cieco. Qualcuno se la fece addosso per la paura. La pistola si sciolse nelle mani di Tancredi, facendogli cacciare un grido mentre lasciava cadere il metallo bollente che gli avrebbe altrimenti liquefatto le dita. Più caldo era il raggio proiettato all'esterno, e più fredda mi sentivo dentro.


 

...miserere nobis...

 

Tremavo violentemente, e a malapena le ginocchia mi reggevano. Osservai il corpo di Zenobia, accasciato a terra come un ammasso di stracci. Agamennone e Veronica le erano accanto, il Cardinale cercava di scuoterla. Niente da fare. L'avevamo perduta...e con lei, la minaccia del Serpente era dissolta come neve al sole. Non riuscii a gioirne.

«Cosa hai fatto...Tancredi, cosa hai fatto?»

«E'...incredibile. Meraviglioso.»

Il medico, dimentico del dolore della bruciatura, aveva gli occhi dilatati, il volto trasfigurato dalla bramosia. Guardava la Mela come se fosse una pila d'oro puro.

«Quanto inesplorato potere, quanta bellezza» sussurrò. «La chiave della Conoscenza nella sua forma più pura.»

«Hai ucciso la madre di Simza. Hai ucciso l'amica più cara della tua stessa madre!»

Le mie grida non sembravano nemmeno sfiorarlo. Era impazzito. Non c'era altra spiegazione. La stessa febbre che aveva causato la rovina di Gentile aveva usurpato il trono della sua ragione.

«Dammi la mela, Bianca Auditore, e ti risparmierò al vita.»

Le dita di Tancredi si protesero come artigli verso di me. I combattimenti avevano ripreso a infuriare, intorno a noi. Qualcuno gridava di avere Dio dalla sua parte, qualcun altro diceva che il nemico era il demonio e come tale andava annientato. Una schematica battaglia campale stava rapidamente escalando verso il delirio mistico.

Avrei acquistato abbastanza tempo perché Veronica e Agamennone potessero scappare con il Serpente?

 

Qui tollis peccata mundi...

 

Le maledette ginocchia mi cedettero prima che potessi anche solo provare ad usare di nuovo la Mela. Alzai il viso, le ciocche sudate che erano scivolate via dalla treccia mi coprivano gli occhi. Tancredi allungò mani avide verso di me. Mi chiesi se sarei perita adesso, per mano di colui che un tempo mi aveva salvato la vita.

Invece, una figura si pose davanti a me per farmi da scudo, la spada snudata e pronta a combattere. Un uomo. Alto, magro. I ricci biondi schiacciati sotto l'elmo. Volevo urlargli di andarsene, ma la voce restò come un bolo a chiudermi la gola.

«Togliti di mezzo, tu.» La voce di Tancredi era spezzata. «Chi si mette tra me e la Conoscenza morirà.»

Agamennone alzò la spada di fronte a sé. «Non ho paura.»

Sentii le braccia di Veronica sollevarmi, quasi di peso. In una mano, la mia amica stringeva il Serpente, strappato al cadavere di Zenobia.

«Fermalo» singhiozzai.

«Dobbiamo andare.»

«Fermalo, maledizione!»

Un ringhio rabbioso sotto l'elmo di lei. Come se trattenesse le lacrime tra i denti. «Non posso!»


 

...suscipe deprecationem nostram...

 

Veronica mi trascinò fino al cardinale De'Medici. L'uomo voleva aiutarmi a issarmi in sella, proprio nell'attimo in cui Gaston e Vanni frenavano i loro destrieri ansanti accanto a noi.

«Maledetta assassina» ringhiò Gaston. «Allons, allons

«Eminenza!» rincarò Vanni «Sbrigatevi, dobbiamo portarvi via di qui!»

Ma io mi ribellai. Mi voltai, nella direzione dello scontro. Giusto in tempo perché vedessi l'elsa di Agamennone abbattersi sul volto di Tancredi, e il medico cadere a terra. Cercò di rialzarsi; vidi saettare l'ago sottile carico di quel terribile veleno di cui gli avevo sentito decantare i devastanti effetti. Agamennone bloccò ogni suo ulteriore movimento poggiandogli la lama sulla gola.

Veronica mi mise in mano il Serpente e disse: «Buona fortuna, Biancarella», prima di correre a dare man forte al suo uomo.

«Abbiamo i Frutti, e i tuoi amici copriranno la fuga!» sibilò Gaston. «Perdio, vieni via!»

Ma gli occhi non volevano staccarsi dal mio amico, fiero nella sua armatura, il braccio come un prolungamento della lama. Pensai a un cavaliere delle leggende, nobile, bello, puro. Un essere umano troppo perfetto per questa terra di pazzi e bastardi. Una creatura delle stelle.

 

Qui sedes ad dexteram Patris...

 

Fu lo scoppio, a distrarci. La palla di cannone si schiantò a pochi metri da dove Agamennone si trovava, tanto violentemente che anche Tancredi, incosciente a terra, gemette. I cavalli si impennarono, terrorizzati. Che diavolo stava succedendo? La nostra artiglieria era impazzita?5

Veronica fece appena in tempo a gridare un avvertimento, quando il fante spagnolo che stava sopraggiungendo calò la mazza sull'elmo di Agamennone. Vidi il mio amico crollare in ginocchio per il colpo ricevuto, vidi l'arma alzarsi di nuovo e precipitargli addosso, pronta a sfondargli il cranio.

Era l’undici Aprile 1512, e, porca puttana, la profezia delle stelle stava diventando realtà sotto i miei occhi.

 

...miserere nobis.

 

La spada di Veronica segò via la mano dell'aggressore, che cadde a terra pesantemente, con tutta la mazza. Il secondo taglio gli aprì l'addome, un sorriso macabro da cui iniziarono a riversarsi gli intestini.

Misi il Serpente e la Mela nelle mani del Cardinale De Medici.

«Correte» dissi. Rivolsi un breve sguardo a Gaston. Uno, un po' più lungo, a Vanni. Per la prima volta, mio fratello ed io ci capimmo senza parole.

Si allontanarono rapidamente. Io barcollai verso Veronica, che si era chinata su di Agamennone. Il sangue colava in un rivolo sulla fronte, sotto il ferro. I suoi occhi erano semi aperti nella luce di quel sole crudele.

«Non respira» urlò Veronica, aggrappandosi alla pettorina del marito. «Bianca, non respira!»

Deglutii forte, come se dovessi ingoiare una medicina amara. Il sapore dell'aria carica di umori umani mi grattò il palato. Strappai il mantello che faceva parte dell'armatura di Veronica, premetti la stoffa contro la ferita. Agamennone gemette debolmente.

«E' vivo» dissi, più per rassicurare me stessa che lei.

Tacredi giaceva incosciente lì accanto. Gli avrei volentieri tagliato la gola, e con il senno di poi avrei davvero dovuto farlo allora. Ma avevo altro a cui pensare.

Ci ritirammo dal cuore pulsante di quell'inferno, Veronica ed io, portando Agamennone a braccia verso le retrovie. Ho un ricordo sfocato degli istanti che seguirono: i feriti si trascinavano barcollando, corvi e gabbiani si aggiravano avidi al limitare del campo di battaglia per succhiare via l'ultimo alito di vita dai cadaveri progressivamente più freddi. Ogni passo che trascinavo con successo davanti all'altro, avevo in mente soltanto una cosa: non avrei lasciato che le stelle vincessero. Fossi dovuta scendere nel fondo dell'inferno per poter riportare la sua anima indietro, avrei tenuto Agamennone con noi.


 


 

Note Storiche.
 

1La battaglia di Ravenna. ed Ponte Vecchio 2011, pag.71.

2Mi difendo a prescindere da eventuali accuse di blasfemia, perché è un argomento che conosco. Ciò che dice la transustanziazione è proprio questo: ostia e vino DIVENTANO corpo e sangue di Cristo. Non viene considerata una metafora, ma un reale cambiamento di sostanza (gli studi di Semiotica mi son serviti a qualcosa XD ). Ergo, sì, tecnicamente durante il sacramento si mangia Dio.
Per approfondire: http://www.gotquestions.org/Italiano/transustanziazione.html

3Tradizione vuole che Alfonso d'Este abbia davvero pronunciato la frase che ho qui parafrasato. Lui la smentì successivamente.

4Mi sono presa qualche licenza per...non lo so, aumentare la drammaticità della scena? XD In realtà, le palle di cannone in lega di ferro iniziano a diffondersi nel XVII secolo. Precedentemente erano per lo più in pietra.

5Pare che in una fase della battaglia (non esattamente in questa, comunque), Alfonso d'Este abbia ordinato ai suoi uomini di sparare indistintamente sui due schieramenti, al grido di: «Tanto sono tutti nostri nemici.»


NdBlackFool
Pfiuuuuuuu. Questo capitolo mi ha richiesto mesi di gestazione,per metà mentale e per metà scrittoria. C'è stato di mezzo un blocco, in parte dovuto ai tanti impegni e in parte alla lenta metabolizzazione del fatto che tra poco BCP sarà finito. Come ho avuto modo di scrivere sulla pagina Facebook qualche tempo fa, l'espediente di alcuni pezzi in terza persona mi permette di coprire tutti i fatti che voglio coprire nei prossimi due capitoli (più epilogo). Contando anche l'epilogo, dunque...BCP si chiuderà al capitolo 50. Mi sembra un bel numero con cui salutarci :)
Ma prima di pensare alla fine, concentriamoci su tutto quello che c'è ancora da affrontare. Agamennone sconfiggerà la profezia delle stelle? E quali saranno le conseguenze della sanguinosa battaglia di Ravenna per Templari e Assassini? Ci aggiorniamo (spero per davvero) tra un mese, con il capitolo 48: "Anche nella sconfitta". Ma poi mi chiedo...il titolo cosa ve lo dico a fare, se alla fine lo cambio sempre? XD bah, forse questo lo manterrò. Forse! 

Lal.

   
 
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