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Autore: giraffetta    14/05/2014    2 recensioni
"Alzo il volto verso il cielo e milioni di stelle si materializzano nella coltre scura, danzando impazzite come minuscole scintille. Una meteora solca il cielo, lasciando una scia luminosa dietro di sé, come ad indicarmi il cammino. È una stella che muore e la scia infuocata sono le sue lacrime di addio. Quando una stella muore, vuol dire che un’anima sta per salire al cielo per sostituirla."
[Seconda classificata al contest Watercolor indetto da "A Panda piace fare le bolle di assenzio ⌠EFPfanfic⌡" // Pacchetto grigio: onirico, introspettivo, angst]
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Quando una stella muore...




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Questa OS partecipa al: Contest di Scrittura indetto dal gruppo facebook A Panda piace fare le bolle di assenzio // Pacchetto Grigio: onirico, introspettivo, angst [Prompt: Le maschere]






Mi chiamo Alicia.
Mi chiamo Alicia e ho diciassette anni.
Mi chiamo Alicia, ho diciassette anni e sono felice.
Mi chiamo… ho diciassette anni e sono felice.
Mi chiamo… ho… sono felice.
Mi chiamo… ho… sono...


Quando apro gli occhi, un sole bianco mi ferisce le pupille. Sbatto le palpebre in maniera meccanica e osservo il cielo sbiadito che mi sovrasta. Piccole nuvole grigie si rincorrono nell’aria rarefatta e per un momento mi sento completamente vuota, assorbita dalla profondità dell’orizzonte.
Mi riscuoto dal mio stato di trance e mi guardo intorno, lentamente.
Sono accovacciata ai piedi di un grosso albero, rannicchiata in una specie di conca naturale, formata da fronde e foglie. Il terreno sotto di me è soffice e fresco e riesco a percepirne l’umidità che mi bagna leggermente le mani, affondate ai lati del mio corpo e abbandonate inerti.
Respiro profondamente, lasciando che l’aria fresca mi penetri nei polmoni stanchi, e mi osservo con cura. Indosso una specie di camice bianco, immacolato e puro come una tela pronta per l’uso, e sono scalza.
Muovo le dita dei piedi quasi mi fossero estranee e noto con ingenuità che esse rispondono ancora ai miei comandi, seppur a fatica. Stendo le ginocchia, flettendo le gambe, e scopro piacere nel distendere tutte le articolazioni fino a quel momento tenute contratte.
Nel rialzare la testa verso il cielo, i capelli mi scivolano dalle spalle e mi coprono parte del viso. Sono neri e spessi e sembrano una coltre impenetrabile, uno scudo dal mondo esterno.
Spesso li ho usati propri come difesa: mi coprivo la faccia con il mio mantello invisibile e lasciavo il mondo fuori, estraneo ai moti interiori del mio essere. A volte funzionava, altre invece mi accorgevo con orrore che essi non mi rendevano invisibile o estranea agli altri, ma solo strana.
Provo a muovere un braccio, ma scopro di non riuscire a comandarlo come vorrei. Le dita delle mani si muovono a scatti, ma il braccio continua a giacere inerte sul terreno, troppo pesante perchè si sollevi. Un filo d’orrore comincia a serpeggiare lentamente in me, dipanandosi come una rete attorno al mio corpo, e mi sento come una bambola rotta, abbandonata sul terreno e incapace di muoversi.
Fisso freneticamente le mie braccia con gli occhi sgranati e provo con tutta me stessa a infondere forza ai miei muscoli. Finalmente, il braccio si muove e riesco a portarlo con lentezza al mio viso, toccando i capelli e spostandoli indietro, sulle spalle. Lo sforzo mi fa respirare con affanno, così reclino la testa contro la corteccia e osservo ancora una volta il cielo. Mi sembra strano, diverso dal solito cielo che amo tanto ammirare nelle limpide giornate estive.
E, poi, realizzo che non so né dove mi trovo né che ora o giorno sia.
Sento quasi il sapore acido della paura salirmi sulla punta della lingua, quando una subitanea pace mi investe. Non mi importa di sapere, sento di appartenere a questo posto come mai mi sia sentita prima d’ora.
Il sole bianco continua a splendere feroce, inondando di luce tutto lo spazio che mi circonda. Sono al centro esatto di un giardino, da quel che posso vedere, al riparo sotto questo grande albero frondoso.
A fatica, e dopo non so nemmeno quanto tempo, riesco a mettermi in piedi, appoggiando la schiena al tronco nodoso e aggrappando le mani ai rami più bassi. Sembra quasi che io abbia dimenticato come si cammina: mi sento una creatura che ora inizia a vivere, a scoprire, ad esplorare.
Mi stacco dalla corteccia rugosa e provo ad avanzare, ma due passi dopo sono già ruzzolata a terra, stupita. Mi osservo stesa nell’erba soffice e scoppio a ridere, beandomi al suono cristallino e vivace che si effonde nel silenzio che mi circonda.
Striscio come un serpente nell’erba e mi rotolo tra i fiori profumati. Sento una nuova forza invadermi, una fresca energia vitale e mi lascio trasportare dalle sensazioni, senza paure o freni. È come essere a contatto con la natura, un contatto di spirito e non di corpo.
Sono immersa nelle mie riflessioni, quando il cielo cambia colore e si trasforma in un grosso blocco grigio, come se una cappa di oscurità fosse scesa ad inglobare ogni cosa. La mia bocca si spalanca per lo stupore e proprio allora un violento terremoto scuote la terra.
Il grosso albero trema violentemente, sparando nell’aria mille foglie verde brillante, mentre il terreno si crepa e spacca, deturpando il prato dai fiori colorati. Mi sento smarrita ed impotente e noto con orrore il mio camice diventare rosso, rosso scuro, rosso sangue.
Mi osservo spaventata, affondando le mani nell’erba e chiudendo gli occhi. Le scosse si susseguono rapidamente, lasciandomi tremante con il volto affondato nelle braccia e una lacrima a solcarmi il viso.
Prima di sprofondare nuovamente nell’abisso, sento una carezza leggera sfiorarmi la fronte e mi abbandono così nelle braccia del buio.
 
***
 
Una mano tremante accarezza lieve la fronte di una ragazza addormentata. Ha lunghi capelli neri sparsi a raggiera sul cuscino e un camice bianco, perfettamente inamidato, che si intravede sotto le coperte del letto.
Quella mano tremante appartiene alla madre della giovane, seduta accanto alla figlia da più di sette ore. Non si è alzata che per sgranchire le gambe esauste, contratte a tal punto da perdere la sensibilità, e per chiudersi in bagno pochi minuti, sufficienti per provare a cancellare dal viso i segni di una o forse troppe notti insonni e tracce di pianto.
“È importante che sia stimolata in ogni modo possibile.”
Le parole del giovane medico dagli occhiali neri si affacciano con prepotenza alla mente della donna. Rinchiusa in quella piccola stanza d’ospedale, ha passato ore a parlare alla figlia addormentata. Le ha mostrato i disegni di suo fratello, raccontato episodi della sua infanzia, accarezzato il volto e le mani, ma niente è sembrato intaccare la serenità serafica che regna sul volto di sua figlia da ormai diciassette settimane.
Diciassette settimane di attesa, di speranza, di trepidazione. Diciassette settimane di condanna inevitabile, di porte chiuse in faccia alla realtà, di false aspettative ripiegate con cura nei più bui recessi dell’anima.
Quante volte ha provato a dimenticarsi di tutto? A chiudere fuori quella maledetta porta grigia la vita esterna? A rinnegare con debolezza sentimenti egoistici, solo per vedere ancora un barlume di vita aleggiare negli occhi di sua figlia? Occhi che non si aprono da diciassette settimane e che,
inevitabilmente, continueranno a rimanere chiusi. Eppure, la donna non si arrende. Non ancora.
Anche contro tutte le logiche del mondo, rimane attaccata a un piccolo filo di speranza, un filo dipanato con cura dalla matassa di sentimenti in cui per anni ha avvolto sua figlia, come un bozzolo, convinta di riuscire a proteggerla da tutto, anche dal destino.
Con un sospiro, la donna si abbandona lungo lo schienale della scomoda poltrona di pelle, portando alle labbra una tazza di tè ormai freddo. Una lacrima sembra brillare all’angolo dei suoi occhi spenti, ma dura solo un attimo. Poi, con la calma che la caratterizza ormai da diciassette lunghe settimane, riprende una mano di sua figlia tra le sue e la stringe forte, come se fosse un appiglio.
“Sei forte, Alicia.” sussurra quasi a se stessa, prima di ricominciare nuovamente a parlare.
 
***
 
Quando riapro gli occhi, il cielo è tornato azzurro, il sole bianco e l’albero è di nuovo ricoperto di piccole foglie verdi. Nessun segno di quanto accaduto traspare dal paesaggio che mi circonda.
Osservo me stessa e noto il mio camice di nuovo bianco, senza alcuna traccia di rosso. Muovo le mani pigramente, cercando di riacquistare sensibilità, e rotolo su un fianco, appiattendo gli steli d’erba tenera.
Resto così, a fissare il cielo, per un tempo che sembra infinito. Poi, naturalmente, mi alzo in piedi. Le gambe mi sostengono e cammino di nuovo fino al grande albero. Lo osservo in maniera critica e noto che è cambiato: ai suoi rami frondosi sono appese decine di maschere di varie forme e dimensioni.
Mi avvicino ad una di esse e scopro che riproduce con esattezza le fattezze di un volto umano, un volto di donna giovane e sano. Mi volto ad osservarne altre e noto maschere di ogni tipo: bambini sorridenti, vecchi accigliati, donne serie e ragazzi spensierati. Ogni maschera è un volto, con proprie emozioni e tratti. Ogni maschera è una vita.
Guardando meglio, mi accorgo che quei volti mi sono familiari e, come per magia, le loro forme si plasmano in tratti che riconosco: scorgo il volto stanco di mia madre, che mi fissa apprensiva; noto il volto paffuto e sbarazzino di mio fratello, che mi sorride ammiccando; fisso gli occhi scuri di mio padre che mi guardano seri e concentrati, come quando deve darmi una brutta notizia o farmi un rimprovero. E ancora osservo ad uno ad uno i volti dei miei amici o dei miei familiari, volti noti che mi guardano con tristezza e gioia, con malinconia e calma.
Così, inizio a toccare tutte le maschere vive, almeno quelle dei rami più bassi, passando le dita lievi su guance e labbra, su orecchie e nasi. Osservo occhi verdi e occhi azzurri, mi perdo ad indovinare le sensazioni che quei volti suscitano dentro di me, danzo tra le maschere assorbendone le emozioni.
Giro attorno all’albero, continuando a sfiorare visi amici, e ai piedi di una grossa radice noto una maschera capovolta. Ha due nastri bianchi ai lati, pronta per essere attaccata ad un viso. La raccolgo con mano tremante e la volto.
I miei occhi neri si specchiano in due pozze profonde e osservo con stupore il mio viso tra le mie mani. La maschera è me stessa, è la mia faccia che mi osserva serena. Non sto ridendo e non sono seria, sono normale.
Rimango ad osservarmi, accarezzando con i polpastrelli tremanti le mie sembianze così familiari eppure così sconosciute. Mi chino a gambe incrociate sotto l’albero e continuo a contemplare la maschera, chiedendomi come posso apparire agli altri se non fossi me.
“Sei forte, Alicia.”
Il vento mi porta alla mente il mio nome. Alicia, è così che mi chiamo. Mi chiamo Alicia e sono forte. Ma, forte per cosa?
Continuo a guardarmi, come se quel volto racchiuso tra le mie mani contenesse le risposte su chi sono o su chi diventerò, ma nessun’altra voce arriva alla mia memoria. La maschera mi fissa muta, aspettando che sia io a darle delle risposte, risposte che però non ho e non mi appartengono.
Sono talmente concentrata nel guardare me stessa che non mi accorgo del cielo che torna a scurirsi, né della terra che inizia a tremolare velocemente. Quando scorgo il mio camice tornare a tingersi di rosso, mentre foglie verdi turbinano intorno a me, prendo la maschera e me la lego al volto. Tiro i nastri sui miei capelli e li allaccio in un nodo stretto, lasciando che i contorni di me stessa si plasmino sui miei lineamenti, permettendo al mio dentro e al mio fuori di fondersi in un unico incastro perfetto.
Alzo il volto verso il cielo e milioni di stelle si materializzano nella coltre scura, danzando impazzite come minuscole scintille. Una meteora solca il cielo, lasciando una scia luminosa dietro di sé, come ad indicarmi il cammino. È una stella che muore e la scia infuocata sono le sue lacrime di addio. Quando una stella muore, vuol dire che un’anima sta per salire al cielo per sostituirla.
Così, appena chiudo gli occhi, un bianco accecante invade la mia anima e tutto ciò che resta di me è solo una maschera appesa ad un ramo del grosso albero frondoso.
Mi chiamo Alicia e sono forte.
La verità è che lo sono sempre stata.
 
***
 
“È ora.”
Un medico dagli occhiali neri e dal volto stanco osserva il suo orologio da polso, prima di girarsi a guardare attentamente il monitor dei parametri vitali per un’ultima volta.
La giovane ragazza dai capelli corvini giace nel letto come addormentata. Il suo coma irreversibile dura da diciannove settimane ormai e ora sta per avere fine. I familiari hanno acconsentito a staccare le macchine artificiali che la tengono in vita, permettendole di riposare davvero in pace.
Quante volte ha dovuto svolgere compiti come quello? Tante, troppe volte, ma non ancora sufficienti a lasciarlo agire con tutta la freddezza necessaria. C’è pur sempre un cuore umano sotto strati di pelle e muscoli e tendini. C’è pur sempre un uomo, un padre, dietro un camice immacolato e una voce asettica e precisa.
“Siamo pronti, dottore.”
L’infermiera si posiziona accanto al medico, gettando un’occhiata fugace al disegno di un albero dalle foglie verdi in un prato di fiori colorati, appeso alla testata del letto, e attende il segnale. Spesso si è chiesta cosa rappresentasse quel disegno, realizzato dalla mano un po’ infantile di un bambino. Se fosse il paradiso per quella ragazza addormentata, o magari solo un vecchio ricordo di una giornata lontana.
Il medico si umetta le labbra secche, poi preme una serie di tasti in sequenza, trattenendo il respiro. Le macchine ronzano più forte per un momento, scuotendo la stanza come un impercettibile terremoto, prima di tornare a tacere. Per sempre.
L’infermiera sposta i vari tavoli con i monitor verso la finestra dalla lunga tenda rosso sangue e chiude le imposte da cui filtra una pallida luce solare. Riordina i fili e i tubi di respiratori ed alimentatori artificiali e, infine, pone un lenzuolo sul corpo della giovane addormentata, uscendo in punta di piedi dalla stanza.
Dietro il vetro divisore, una madre piange sommessa, stringendo la mano di un uomo dagli occhi lucidi, la mano di un padre che ha perso la battaglia più dura di tutte: difendere sua figlia, vederla vivere.
Il medico osserva un’ultima volta quella stanza che ha visitato spesso nelle ultime settimane e si passa una mano sul volto. Chissà se la ragazza è felice adesso, pensa con un groppo alla gola.
Prima di uscire, stacca dal muro vicino alla porta e adagia sul comodino una piccola maschera dagli occhi neri, che ricorda le sembianze della giovane sotto il lenzuolo, mormorando qualcosa a mezza voce. Poi, silenzioso, esce dalla camera a passo incerto, mentre un sole bianco inonda di luce il corridoio grigio dell’ospedale.


Mi chiamavo Alicia.
Mi chiamavo Alicia e avevo diciassette anni.
Mi chiamavo Alicia, avevo diciassette anni ed ero felice.
Mi chiamavo Alicia, avevo diciassette anni e sono felice.








NOTE:
Questa Os nasce proprio per partecipare al Contest sopracitato. L'idea mi è balzata in testa mentre curiosavo tra i pacchetti da scegliere e ho subito cercato quello che avrebbe racchiuso meglio ciò che volevo sviluppare.
Ho provato a immaginare come potrebbe essere la percezione di una persona in coma, creando una specie di contatto tra il mondo reale e il mondo dei sogni, che è il mondo vissuto da Alicia.
Spero di aver fatto un buon lavoro! 
Grazie a chi è arrivato fin qui :)

Baci, Giraffetta

 

 
  
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