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Autore: Laylath    14/05/2014    2 recensioni
Eppure a guardare più da vicino i ragazzi di quella realtà, ci si sarebbe accorti che le loro esistenze non erano così scontate: i piccoli grandi problemi dell’infanzia e dell’adolescenza a volte andavano ad intrecciarsi con situazioni difficili, dove spesso il legame con un amico fidato era la cosa migliore per poter andare avanti.
E spesso le persone più impensabili stringevano un forte legame tra di loro per uno strano susseguirsi di eventi, all’apparenza così normali… anche se poi viverli era tutt’altra cosa.
Genere: Generale, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Team Mustang
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Un anno per crescere'
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Capitolo 62. Adattamento.

 

“Un lavoraccio, ma direi che ne è valsa la pena, vero?”
Ellie si mise le mani sui fianchi e guardò con aria soddisfatta la camera di Riza.
“Ne è valsa la pena? – esclamò la ragazzina estasiata – E’ semplicemente fantastica!”
Non le sembrava vero che nemmeno una settimana prima quella era la camera degli ospiti di casa Fury.
Effettivamente la prima impressione che aveva avuto, quando Ellie aveva aperto la porta, era stata quella di una camera completamente anonima e con un forte odore di chiuso. Ma nell’arco di cinque giorni aveva subito una trasformazione tale che ormai era irriconoscibile.
“Manca solo la scrivania – commentò la donna – e la mettiamo lì, vicino alla finestra. Sei proprio sicura di voler portare quella che avevi nella tua vecchia stanza? Procurarcene una nuova non è un problema, lo sai.”
“Sì, vorrei avere la mia vecchia scrivania – sorrise Riza, andando verso la finestra – non so per quale motivo ma ci sono parecchio affezionata. Piuttosto devo pensare a come trasportarla.”
“Sono sicura che il signor Havoc ci presterà volentieri il suo carro e credo che i tuoi amici vorranno dare una mano con il trasloco delle tue cose.”
“Già, le mie cose…”
Si sentiva elettrizzata all’idea che presto i suoi vestiti, i suoi libri, i suoi effetti personali sarebbero stati in quella camera così bella e da grande. La sua vecchia stanza era sempre rimasta legata al passato, al suo essere bambina, ma questa era totalmente diversa: il letto e l’armadio laccati di bianco, il comò con lo specchio, la libreria… le tendine di mussola proprio come quelle di camera di Elisa. Tutto trasudava una maggiore maturità che si addiceva maggiormente ad una ragazza che, a settembre, avrebbe iniziato la seconda superiore.
“Ehi, Riza! Mamma!” una voce chiamò dal cortile e sia lei che Ellie si affrettarono ad andare alla finestra.
In mezzo all’erba Andrew e Kain stavano davanti alla cuccia che avevano costruito per Hayate il quale annusava con curiosità la sua nuova casa.
“E’ fantastica!”
“Sembra gli piaccia – commentò Andrew, guardando l’animale che entrava dentro – poi d’inverno ci mettiamo anche una coperta così starà benone.”
“Un cane – sospirò Ellie – beh, spero che almeno finisca la mania di Kain di portare gli insetti a casa.”
“Grazie per avermelo fatto tenere – sorrise Riza, sapendo del divieto che per anni aveva turbato il bambino – è buono, lo giuro. Ed è anche educato: non fa buche e non abbaia se non i caso di necessità.”
“Si inizia dal cortile, ma prevedo già che presto lo troverò dentro casa. Conosco mio figlio e sembra che anche Andrew si stia facendo conquistare… l’unica regola è che non deve salire sui letti, sul tavolo e sul divano, va bene?”
“Certamente, sign… mamma.”
Da quando si era trasferita a casa dei Fury aveva cercato di sforzarsi per dare del tu ai due adulti e chiamarli mamma e papà, ma non era un automatismo facile da acquisire. A volte iniziava, ma poi scivolava di nuovo nella forma di cortesia e questo la faceva sprofondare nell’imbarazzo. Tuttavia Ellie ed Andrew non la sforzavano in nessun modo, come se quello fosse un dettaglio di secondaria importanza.
Un rumore di passi affrettati la fece distogliere dai suoi pensieri e alzò lo sguardo in tempo per vedere Kain che entrava nella stanza e si buttava con entusiasmo nel letto.
“Kain! – esclamò Ellie – Era appena fatto!”
“Lo sto inaugurando! – dichiarò il bambino con una risata rotolandosi tra le lenzuola – Così Riza stanotte non si sente a disagio: se è troppo perfetto può dar fastidio.”
“Ma sentilo! Signorino, ricordati che la camera di una ragazza non è un posto dove combinare disastri, chiaro? Devi essere più discreto e delicato.”
“Va bene, mamma.” annuì, mettendosi diligentemente a sedere a gambe incrociate.
Riza dovette trattenere un sorriso, ma capiva chiaramente che il piccolo Fury non aveva alcuna intenzione di seguire quelle regole. Osservandolo così spigliato e vivace si trovò a pensare a quel bambino così timido che nemmeno un anno prima aveva rincorso per la campagna: quanto era cambiato in quei mesi. Le sue paure, i suoi complessi, buona parte della timidezza erano scomparsi.
Sentendo un richiamo del padre Kain si alzò immediatamente in piedi e corse fuori dalla camera.
“Cielo, come è cambiato quel pulcino…” mormorò Ellie che, evidentemente, aveva seguito gli stessi pensieri di Riza.
“Io lo trovo sempre incredibilmente adorabile.”
“Quello sì, per fortuna è una caratteristica che non perderà, si capisce. Ma ora è molto più giocoso ed imperversa per la casa in un modo tutto nuovo… ovviamente è su di giri per il tuo arrivo qui. Credo che ci sperasse ormai da tempo.”
“Un po’ come tutti, mi sa.”
“Vero. Comunque cercate di assestarvi a vicenda, va bene? Adesso che hai una camera tua, e dunque sei ufficialmente abitante della casa, è necessario che trovate i vostri spazi ed i vostri limiti. Vivere da fratelli e quotidianamente è molto differente dall’essere ospite.”
“Non credo che ci saranno problemi.”
Del resto con un fratello tranquillo come Kain le sembrava impossibile che si potessero creare dei contrasti.
 
“Che cavolo, Jean, aspetta! – protestò Heymans – Riza deve ancora finire di svuotare i cassetti! Solo dopo la portiamo via!”
“E potevate dirlo che non aveva finito, uff!”
“Scusa, Jean – esclamò la ragazza, andando alla scrivania e aprendo i vari scomparti – la svuoto subito così potete prenderla. Siete sicuri di farcela tu ed Heymans?”
“Mi prendi in giro, biondina? Guarda che al magazzino dell’emporio sollevo ben altro.”
Come i cassetti vennero svuotati e la roba posata sul pavimento, i due amici, dimostrando grande affiatamento, sollevarono senza difficoltà il mobile e iniziarono a portarlo fuori dalla stanza. Riza li osservò con sincera ammirazione e poi si girò a constatare come il trasloco fosse ben lungi dal finire: diverse scatole di cartone erano ancora piene a metà ed il letto era ingombro di roba tra vestiario, libri e altri effetti personali.
“Accidenti, non pensavo di avere così tanta roba.” mormorò in tono di scusa.
“Si tratta solo di organizzare per bene – la consolò Vato che, assieme ad Elisa, stava svuotando la libreria – non ne hai certo quanto me, ma ammetto che molti titoli sono interessanti.”
“Perlopiù erano di mia madre – spiegò lei, avvicinandosi – e mio nonno mi ha promesso che mi farà avere anche gli altri che sono rimasti ad East City.”
“Me ne dovrai prestare – Elisa prese un romanzo ed iniziò a sfogliarlo – paiono davvero belli.”
“Quando vuoi… e devi venire al più presto a venire a vedere la mia stanza nuova.”
“Ci tengo! Dovremmo festeggiare tra ragazze, credi che la signora Fury ce lo permetterà?”
“Posso chiederlo, sarebbe meraviglioso!”
“Comunque anche questa scatola è piena – commentò Vato, chiudendola – possiamo portarla fuori nel carro del padre di Jean.”
“E poi io prendo altra limonata – sospirò Elisa, alzandosi e aiutandolo a tenere il peso – oggi si muore di caldo: sto sudando tantissimo.”
“In cucina la caraffa è ancora piena – spiegò Riza – fate con comodo.”
In camera rimasero soltanto lei e Roy, il ragazzo che per tutto quel tempo si era preoccupato di impilare con ordine i libri di scuola.
“Allora, come procedono le cose nella tua nuova casa?”
“Molto bene, lo ammetto. Anzi, è davvero strano essere di nuovo qui dopo una settimana d’assenza.”
“Ci hai parlato?” fece un cenno eloquente verso la parete.
“Ci ho provato, ma non è stato facile e non ho saputo interpretare quel lieve mugugno che ha fatto…” si avvicinò al letto e abbassò lo sguardo sui vestiti. Si chiuse in uno strano silenzio ed iniziò a piegarli passivamente.
Aveva provato a ringraziare suo padre per quella concessione che aveva fatto al signor Fury, gli aveva persino detto che, a prescindere dai fatti, lei sarebbe continuata a passare a casa per vedere se aveva bisogno di qualcosa. Ora che finalmente il suo sogno di avere una famiglia si era avverato, si era accorta che si sentiva in colpa a lasciare quell’uomo nella più assoluta solitudine.
Per quasi cinque anni lei era stata la sua unica compagnia, l’unico contatto che avesse con il mondo esterno. In qualche modo era arrivata a sentirsi responsabile per lui, accettando una strana e scomoda catena che l’aveva in parte resa un’estranea agli occhi del paese.
Ma non poteva nemmeno negare che in quella solitudine a volte ci si era trovata bene e si era sentita in qualche modo protetta. Non che fosse infelice all’idea di stare con la sua nuova famiglia, ma sentiva che una parte di lei avrebbe provato inevitabile nostalgia per questa casa.
“E’ un egoista bello e buono.” commentò Roy.
“Comunque prima di andare via gli parlerò di nuovo. Insomma, vorrei passare qui almeno una volta ogni tre giorni per vedere come va e se ha bisogno di qualcosa… sai, a volte penso che se non ci fossi io lui non mangerebbe.”
Lanciò un’occhiata in tralice all’amico: sapevano entrambi che non sarebbe servito a molto.
 
“E’ tremendo!” sospirò quella notte, mettendosi a letto.
“Non ti ha detto proprio niente, eh?” Andrew si sedette accanto a lei.
“Non una parola, nemmeno un mugugno o un verso. Sembra quasi che mi stia punendo in qualche modo per essere andata via da casa.”
E lei si sentiva in colpa e non le piaceva per niente. Più ci pensava e più si ripeteva che era sbagliato provare tutta quella preoccupazione per un uomo che non si era mai occupato di lei: perché adesso il suo silenzio doveva essere ancora più pesante?
“Mi sento una pessima figlia.” ammise.
“No, non lo sei – la corresse Andrew, spingendola contro il cuscino – è lui quello che ha sbagliato non considerandoti per così tanto tempo. Posso in parte capire il tuo senso di colpa, ma non farti condizionare più del dovuto, Riza. Come genitore la mia più grande aspirazione è vedere i miei figli felici, aiutarli quando vedo che sono in difficoltà o tristi… quando mai lui l’ha fatto? Eri tu a prenderti cura di lui e non viceversa.”
“Appunto – protestò lei – e ora come farà? Senza di me sprofonderà nella solitudine più assoluta… io… io… dannazione, ma perché devo sempre rovinarmi la felicità!”
Si girò prona, nascondendo il viso sul cuscino.
“Riza – l’uomo le accarezzò la schiena – adesso calmati e rifletti. Sei a casa da quasi dieci giorni e per tutto questo tempo sei stata incredibilmente felice, così come noi. Lui starà bene, fidati: trovo molto encomiabile che tu abbia deciso di andare spesso a vedere se ha bisogno di qualcosa… sai, come tuo tutore legale te lo potrei impedire.”
“Non lo farebbe, vero? – si girò lei, con sorpresa – Voglio dire… vuoi davvero che non…”
“No, non te lo impedirò perché è un tipo di legame che tu vuoi mantenere con lui e ne hai tutto il diritto. In fondo in quella casa ci sei cresciuta e presumo che ti dia una strana forma di sollievo tornarci, specie in questo primo periodo… ma non voglio che lui ti crei tutti questi problemi emotivi. Riza, se ci rifletti bene capirai che non ti sta trattando in maniera diversa da quella con cui ti ha trattato in tutti questi anni.”
La ragazzina si fece convincere da quelle parole e quando Andrew uscì dalla sua stanza, chiudendo delicatamente la porta, si sentì leggermente sollevato. Andò in camera da letto e si accostò alla moglie che stava finendo di abbottonarsi la camicia da notte.
“Va meglio?” chiese la donna.
“Decisamente. E’ intelligente e capirà che lei non c’entra niente con gli atteggiamenti del padre.”
“Le passerà, ne sono certa – sorrise lei, abbracciandolo – è solo una fase, si capisce.”
“E’ la prima volta che ti vedo così sicura.”
“Conosco abbastanza bene Riza, credimi.”
“Non ho mai avuto dubbi che abbia un livello di confidenza maggiore con te – dichiarò l’uomo, prima di baciarla  - mi vuoi dare anche delle disposizioni?”
“No, è una cosa che verrà naturale. Piuttosto domani le voglio proporre di invitare le sue amiche a casa: magari lei non ci ha mai fatto caso, ma poter avere delle piccole “riunioni” tra femmine è estremamente piacevole. Specie nella propria cameretta nuova.”
“Sono questioni femminili che lascio a te, mia cara. Non voglio nemmeno entrare nel merito.”
“Tranquillo – ridacchiò lei, emettendo un gridolino deliziato quando il marito la sollevò all’improvviso e la portò a letto – andrà tutto bene. Adesso bisogna solo fare attenzione a nostro figlio.”
“Kain? – Andrew la fissò con sorpresa, mentre si adagiava sopra di lei – Che cosa può combinare eccetto portare dentro casa il cane?”
“Niente di pericoloso – mormorò, mordicchiandogli il mento – ma deve imparare che Riza non è più ospite, ma sorella… ed è diverso. Oh, ma ci possiamo pensare domani, ti pare?”
“Ellie Lyod! – rise Andrew, mentre lei gli sbottonava la camicia – Che hai stasera, eh?”
“Vuoi fare l’amore con me?” sussurrò lei all’orecchio.
“Sarebbe un sì in ogni caso, ma se me lo chiedi in questo modo non c’è alcuna possibilità di rifiuto.”
 
Come aveva presupposto Ellie, l’idea di fare una festa tra ragazze per inaugurare la nuova stanza venne accolta con entusiasmo da Riza. Ormai il trasloco delle sue cose era terminato ed erano stati aggiunti anche gli ultimi tocchi per fare di quella camera il suo regno personale.
E così, nell’arco di pochi giorni, la ragazza si trovò ad accogliere Elisa e Rebecca e a condurle al piano di sopra dove era stato già portato il vassoio con i biscotti e il succo di more freddo. Ellie rimase per qualche minuto fuori dalla porta ad ascoltare le voci e le risatine soffocate ma poi, come si convinse che tutto procedeva per il meglio, ridiscese in cucina.
“Mamma – esclamò Kain, entrando dalla porta che dava sul cortile – prima mi è sembrato di sentire delle voci. E’ venuto qualcuno?”
“Sì, ci sono Elisa e Rebecca in camera di Riza.”
“Davvero? – si illuminò lui – allora vado subito!”
“No! – la donna fu rapida ad afferrare il bambino per il colletto della maglietta – E’ una festa privata ed i maschi non sono ammessi.”
“Cosa? – protestò lui – Ma Elisa e Rebecca sono anche mie amiche! Perché non posso andarci pure io?”
“Perché proprio come tu fai cose con i tuoi amici maschietti, anche lei fa delle cose con le sue amiche.”
“Che? – il bimbo la guardò stranito – Ma io non faccio cose con gli altri maschi…”
“E la caccia al fantasma?”
“Oh quella! Ma è stata un’idea di Roy; fosse dipeso da me non l’avrei mai fatta o nel caso l’avrei detto anche a Riza. Oh dai, mamma! Posso andare da loro? Mi fa piacere che siano a casa.”
Ellie sospirò, capendo che i primi problemi stavano iniziando a presentarsi: Kain non aveva ancora compreso che, in quanto abitante ufficiale della casa, Riza aveva diritto a spazi e momenti tutti per sé e per chi voleva.
Poteva capire questa sua confusione: era figlio unico e fino ad un anno prima era abituato ad avere la casa che ruotava attorno a lui. Questa forma di proibizione gli era totalmente nuova ed incomprensibile.
“Senti – propose Ellie – perché in questi giorni non inviti i tuoi amici maschietti e non fate una cosa tutti assieme?”
“Ma io non voglio escludere Riza.” scosse il capo lui.
“Pulcino – sospirò la donna, sedendosi su una sedia e prendendolo in braccio – anche se tu sei amico di Elisa e Rebecca loro sono venute per Riza, capisci?”
“Ma sono a casa mia.”
“E’ anche casa sua adesso, capisci?”
“Non mi piace questa separazione di maschi e femmine – ammise lui mettendo il broncio – trovo sia molto stupida. E sarà sempre così? I nostri amici verranno sempre per me o per Riza?”
“No, non sto dicendo questo… ehi, dai, non divincolarti. Ascolta, perché non resti in cucina con me e prepariamo i biscotti al cioccolato?”
“No – mormorò lui – non ne ho voglia.”
“Non fare l’offeso, dai. Ascolta, vogliamo portare qualcosa da mangiare al cane?”
“Ha già mangiato e ora dorme. No, preferisco andare in camera mia.” dichiarò.
 
Aveva chiuso la porta a chiave, una cosa che non era mai successa.
Ma in quel momento si sentiva stranamente tradito e voleva evitare contatti con tutto il resto del mondo.
Ricadde nell’automatismo di smontare e rimontare lo stesso circuito della radio elaborando la strana e nuova forma di rifiuto che aveva appena ricevuto.
Quando diceva che non capiva era sincero.
Per undici anni era stato praticamente ostracizzato dal resto dei ragazzi e dunque non aveva mai maturato l’idea di separazione tra maschi e femmine: lo evitavano sia gli uni che le altre. Come se non bastasse il genitore con cui aveva il legame più forte era sua madre e di conseguenza tendeva ad attaccarsi maggiormente alle figure femminili. Sentirsi escluso da delle sue amiche che stavano nella stanza accanto alla sua gli diede profondo fastidio.
Sentendo le risatine da oltre la parete, chiaro segno che si stavano divertendo un mondo, scosse il capo con violenza e gattonò fino al cassetto della scrivania per tirare fuori dei nuovi strumenti. Cuffie, voleva costruirsi un paio di cuffie, collegarle alla radio ed escludere il resto del mondo: alla radio e ai cavi non importavano le differenze tra maschi e femmine.
Nell’arco di pochi minuti il pavimento divenne un campo minato di minuscoli pezzetti, dove solo lui sapeva muoversi con destrezza senza distruggerne nessuno.
“Kain – suo padre bussò alla porta – posso entrare?”
“E’ chiuso a chiave.”
“A chiave?”
“Sì, a chiave – annuì distrattamente, sdraiandosi supino e riuscendo a non sfiorare nessuno dei piccoli frammenti. Le sue mani sollevarono delle minuscole rondelle adattandole tra di loro – tre rondelle A5 su un sistema base 2…” bisbigliò quelle ultime parole, perdendosi nei calcoli.
“Posso chiederti di aprire?”
A quel richiamo alla realtà, fatto con estrema gentilezza, il bambino annuì e si alzò in piedi. Senza nemmeno guardare il pavimento andò verso la porta e diede il giro di chiave, rigirandosi subito per tornare alla sua radio.

Appena mosse un passo, Andrew quasi si ritrasse nel scoprire quel caos.
Dovette muoversi con estrema cautela prima di raggiungere la sedia ed evitare di distruggere qualche pezzetto elettronico.
Non si era mai fermato a guardare il figlio lavorare alla sua passione, non quando lo faceva per difendersi dal mondo esterno. Era sempre stato un dettaglio che gli aveva raccontato Ellie, ma vederlo di persona era abbastanza sconvolgente: c’era una strana passività, ma di una precisione tale che sembrava di avere a che fare con un automa piuttosto che con un bambino.
Rimase qualche minuto ad osservare affascinato quelle dita piccole e sottili che si muovevano con una precisione tale da far invidia ad un tecnico navigato: non si era mai reso conto di aver dato al figlio la propria precisione estrema, sebbene applicata in un campo diverso.
“Ehi – mormorò, chinandosi per posare l’indice sulla sua fronte, quasi fosse un interruttore – guardami, Kain, da bravo.”
Ellie gli aveva raccontato cosa era successo e si aspettò di vedere rabbia e orgoglio offeso negli occhi scuri. Invece c’era una serenità e freddezza fuori dal comune: l’estraniamento era tornato a fare da baluardo difensivo contro le cose che non andavano bene.
Finché si tratta di ferite dolorose o malattie è disposto a tutto, ma davanti a problemi interpersonali si chiude davvero a riccio.
“Che cosa stai costruendo?”
“Cuffie.”
Una risata particolarmente forte dalla camera di Riza fece saettare gli occhi scuri verso la parete.
“Non ti devi sentire escluso, lo sai.” gli spiegò Andrew, levando con attenzione i piccoli pezzi nel pavimento davanti a lui e sedendosi.
“Credi che mi saluteranno quando vanno via?”
“Ma certo, perché non dovrebbero.”
“Non lo so – alzò le spalle lui – forse le cose tra femmine funzionano così. Io so solo che se invitassi amici a casa mia Riza non la escluderei mai; sono amici di entrambi, che senso ha?”
“E’ un qualcosa che capirai tra qualche anno. Quello che importa è che ora tu non ce l’abbia con Riza, va bene? Sta passando un bel pomeriggio con le sue amiche e sarebbe davvero brutto che poi si accorgesse del tuo broncio, non credi? E poi devi imparare che Riza non può sempre fare tutto con te: proprio come andate in classi differenti, è giusto che facciate anche cose differenti.”
“Non mi è mai sembrato di essere invadente fino ad adesso.”
“No – Andrew si rese conto che era vero, Kain aveva sempre rispettato gli spazi di Riza – e anche non essere andato dalle ragazze è una forma di non invadenza.”
“Né lei né la mamma mi hanno detto niente.”
“Figliolo, adesso stai facendo un dramma per una cosa che non lo merita – lo scrollò lievemente – vogliamo fare una cosa solo io e te? Una cosa tra maschi? Dai, avanti, dimmi cosa vuoi fare.”
Il bambino scosse il capo, come se qualsiasi cosa proponesse il padre fosse senza importanza.
Nemmeno un anno prima Andrew avrebbe reagito a questo atteggiamento infantile lasciando il figlio solo a riflettere e maturare, ma questa volta si rifiutò di lasciarlo bollire nel suo brodo. Gli aprì le mani, lasciando cadere tutti quegli elementi elettronici e lo prese sottobraccio, portandolo fuori da quella stanza e dal quel pericoloso estraniarsi.
Scese le scale con il figlio che scalciava leggermente, tanto che Ellie vedendoli si ritenne in dovere di intervenire.
“Andrew…”
“Stiamo andando a fare una cosa nel mio studio – dichiarò – stai tranquilla, è una cosa tra me e lui.”
“Non vorrai punirmi – protestò Kain, come la porta si chiuse alle loro spalle – non ho fatto niente per meritarlo!”
L’uomo nemmeno si degnò di rispondergli: lo portò davanti al tavolo da disegno e lo fece sedere sullo sgabello, provvedendo poi ad alzarlo per permettere al bambino di arrivare bene al foglio bianco.
“Riga e matita – dichiarò, mettendogli in mano gli oggetti in questione – adesso squadri il foglio, coraggio. Medesima distanza da ogni angolo, senza il minimo errore. Il compasso è poggiato lì.”
“Perché? – chiese il bambino, fissandolo con perplessità – Che cosa dovrei fare?”
“Non usciremo da questa stanza fino a quando non avremo impostato il disegno del ponte di East City.”
“Che? Quello del tuo libro? Ma papà, è complicatissimo! Ed io non ho mai…”
“Solo io e te – Andrew gli prese il viso tra le mani e posò la fronte contro la sua – ma io non muoverò la matita nemmeno per un secondo. Ti guiderò, ti spiegherò ogni passaggio e ti darò tutte le delucidazioni che vuoi, ma alla fine questo disegno avrà la tua firma, chiaro?”
“Ci vorrà un sacco di tempo!”
“Quello che ci serve, ovvio. Ma quando lavoriamo a questa cosa siamo solo io e te, nessun altro, va bene?”
Kain capì al volo che suo padre stava solo cercando di compensare quanto era successo e per qualche secondo si sentì estremamente offeso. Ma prima che potesse ribattere, l’uomo gli fece un cenno deciso verso il foglio bianco e lui fu costretto ad annuire ed iniziare la squadratura del foglio.
Bastarono solo pochi minuti prima che venisse assorbito completamente da quella nuova avventura.
 
“Un progetto? – si stupì Roy due giorni dopo – Non sapevo che gnometto si interessasse di cose simili.”
“E’ una cosa che sta facendo assieme a suo padre – spiegò Riza con un sorriso, mentre camminavano per le vie del paese – quando si chiudono nel suo studio non è ammesso nessun altro. E’ una cosa solo tra loro due, capisci? E Kain ne è entusiasta.”
“Buon per lui, anche se io preferirei passare queste ultime due settimane di vacanza facendo tutt’altro.”
“Non hai l’animo dello studioso, Roy, non è un mistero – ridacchiò la bionda sistemando meglio la busta di cartone che stava in equilibrio sul sellino della bici – comunque ti ringrazio per accompagnarmi, ma non lo devi sentire come un obbligo, davvero.”
“Nessun obbligo, fidati. E poi adesso che abiti dai Fury non ci vediamo più così spesso.”
Era vero: un altro dei cambiamenti che aveva comportato quel trasferimento era la distanza molto più grande tra le loro case. Ed inoltre, vivendo con altre persone, Riza non poteva certo permettersi di ricevere il suo amico come e quando le pareva. Ma, come aveva detto Roy con grande filosofia, erano meglio dieci minuti in bici che sei ore di treno.
“Bene, eccoci arrivati – sospirò Riza, mentre giungevano davanti alla villetta degli Hawkeye – sei sicuro di voler entrare con me?”
“Certamente! Tieni aperto il cancello, così sistemo la bici dentro.”
Per qualche istante Riza esitò nell’aprire la porta di casa, ma poi con un sospiro girò la maniglia.
“Papà, sono io con Roy – disse a voce alta – sono venuta a portarti un po’ di spesa.”
Senza aspettare risposta si diresse in cucina, seguita dall’amico.
“Mamma mia che disastro – commentò, notando le stoviglie sporche posate senza alcun ritegno sopra il tavolo o nel lavandino – beh, direi che è il caso che dia anche una lavata: non c’è nemmeno spazio per posare la spesa.”
“Aspetta, ti do una mano – si offrì Roy, prendendo i piatti sporchi dal tavolo e portandoli nel lavandino – così almeno il tavolo si libera.”
“Grazie. Mh, qui mancano almeno un cinque piatti: devono essere nel suo studio… aspettami, vado a prenderli.”
Ma Roy la tallonò senza che lei potesse avanzare obiezioni.
Non voleva che Riza incontrasse suo padre da sola: era un compito che si era assunto di sua spontanea volontà. Aveva il timore che quell’uomo potesse in qualche modo spezzare la serenità che la ragazza si era faticosamente guadagnata.
“Papà – bussò discretamente lei prima di entrare nello studio dell’uomo – sto entrando con Roy.”
Come c’era da aspettarsi c’erano i piatti impilati sull’estremità della scrivania che correvano il rischio di cadere al minimo movimento. Riza si precipitò a prendere quella piccola torre pendente, ma come si girò quasi cadde per un libro buttato a terra. Fu solo l’intervento di Roy ad impedire il disastro.
“Vado a lavare i piatti e sistemare la spesa. Metto un po’ in ordine anche la cucina visto che ci sono.”
Fu tutto quello che Riza disse, ma Roy notò che la sua voce era più alta e meno timorosa. La cosa gli fece enormemente piacere, tanto che azzardò un sorriso mentre raccoglieva il libro per metterlo in un posto dove non creasse problemi.
Basi dell’alchimia.
Lesse il titolo sul dorso in maniera quasi distratta, ma i suoi occhi si illuminarono di aspettativa.
Lanciò un’occhiata distratta al maestro Hawkeye e, vedendo che era immerso nei suoi studi, si arrischiò a sfogliare le prime pagine.
“E’ un testo semplice – disse la voce dell’uomo all’improvviso, facendolo sobbalzare – lo capirebbe persino un bambino.”
“Già – commentò Roy, facendo per posarlo sulla scrivania, ma poi esitò – le dispiace se lo prendo in prestito? Lo restituisco entro la settimana prossima, promesso.”
Fu gratificato da una penetrante occhiata da parte di quegli occhi azzurri e febbrili. Sembrava che l’uomo lo vedesse per la prima volta, soppesandolo come se fosse un animale da studiare. Ma alla fine fece un cenno del capo e Roy tirò un profondo sospiro di soddisfazione.
Si affrettò a raggiungere Riza in cucina e posò il libro sul tavolo.
“Che cosa è?” chiese lei sorpresa, mentre iniziava a lavare i piatti.
“Un libro di alchimia, tuo padre e l’ha prestato.” spiegò lui, aprendo la prima pagina.
Il rumore delle stoviglie che sbattevano tra di loro lo fece girare e vide che Riza lo guardava con occhi dilatanti e spaventati.
“Che intenzioni hai?” chiese con voce flebile.
“Voglio leggerlo – disse con calma, immaginando che lei non avesse molta simpatia per quella materia – sai bene che l’alchimia mi ha sempre interessato. Hai paura che diventi come lui?”
“Lo farai?”
“Nel momento in cui ti sembrerà che accada una cosa simile, allora dimmelo – dichiarò con serietà – Tu e gli altri strappatemi i libri di mano se mai ci fossero avvisaglie simili: l’ultima cosa che voglio è diventare come tuo padre.”
“Perché allora non evitare del tutto il problema?” supplicò lei.
Roy soppesò quella domanda non priva di una certa logica. Ma poi si ricordò della rabbia che aveva provato davanti all’egoismo di Berthold Hawkeye davanti alla piena del fiume, quando l’alchimia avrebbe potuto davvero aiutare le persone.
“Perché l’alchimia può fare tanto e io voglio usarla per far del bene al mio paese. Ti fidi di me, colombina?”
Se lei avesse detto di no, allora avrebbe posato il libro e l’avrebbe lasciato in quella cucina, lo sapeva. La fiducia che Riza riponeva in lui era troppo preziosa per barattarla in questo modo, per quanto fosse estremamente deciso ad imparare i segreti di quell’arte.
Ma dentro di sé sapeva che la sua amica non l’avrebbe deluso.
E difatti la testa bionda, dopo una lieve esitazione, annuì.
  
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