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Autore: ChocoCat    18/05/2014    2 recensioni
Come neve e fuoco purpureo, non smisero di amarsi con gli occhi, disperatamente, e fu con lentezza esasperante, come aveva fatto un milione di volte, ma con una luce del tutto diversa nel cielo del suo sguardo, che si liberò dall’intimo e lo lasciò scivolare fra le ginocchia, fino alle caviglie e poi a terra senza rumore. Nessun timore di apparire sfrontata, o brutta, o non all’altezza. Non ne aveva il tempo. Assorbiva ogni istante, bruciando lo stoppino del tempo che inesorabilmente passava e se ne andava, atomo dopo atomo, granello dopo granello.
Dougal seppe che non l’aveva mai amata abbastanza, o almeno mai come in quel momento.
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Partecipa al contest "Di fiabe e di canzoni" di MaryBlack
Genere: Introspettivo, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Minerva McGranitt
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dai Fondatori alla I guerra
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Ipomea, o la gloria del mattino

ChocoCat

 

 

 

Un fascio di luce penetrava da una tapparella abbassata con premura per chi si veglia all’alba ogni mattina e reagisce alla luce come un bocciolo. Una giovane donna si svegliava, ingarbugliata nelle lenzuola, sfregando il viso sul cuscino panciuto alla ricerca di un riparo.

 

Minerva si alzò con il cuore in gola e i passi piccoli per non svegliare nessuno. I capelli furono rigorosamente raccolti in una treccia scura di puro petrolio che le coprì la spalla aggraziatamente. Si vestì con il suo abito più bello, era un vestito a fiori con un taglio piuttosto severo, ma la cui gonna era tanto ricca di balze da accendere in chi la vedesse la voglia di alzarla per vedere come facessero a stare così gonfie. Due lunghe gambe fini scivolavano l’una contro l’altra in un fruscio sommesso mentre infilava le scarpe e la vecchia giacca di cuoio biondo di suo fratello, un accessorio che non mancava mai di indossare quando correva per i campi, in piena campagna, e che la proteggeva dai graffi del freddo vento mattutino. Lanciò un solo sguardo verso il suo specchio, timorosa, e dovette ritrarlo immediatamente, scottata dall’aria colpevole, dal cipiglio, dagli occhi di ghiaccio arrossati di lacrime amare.

 

È per il nostro bene.

 

Non aveva bisogno di fare colazione, perché sentiva lo stomaco in tumulto. Prese solo la bacchetta e uscì dal cancelletto del recinto scavalcandolo con grazia. Per precauzione evitò di materializzarsi e prese una bicicletta dal vecchio granaio.

 

Se qualcuno sapesse che intendevo passare il resto della mia vita con te, un Babbano…

 

Seguiva il sentiero fra l’orzo e l’avena, al riparo da sguardi indiscreti, con la schiena dritta e i capelli al vento. In tasca sentiva la bacchetta rimbalzare contro la lettera che aveva ricevuto la sera prima. Era stata accettata al Ministero. Aveva il posto che desiderava, per il quale aveva combattuto con i denti. L’ambizione di volare alto era sempre stata parte di lei, fin da quando era bambina. Non aveva pianificato Dougal, però. Era successo, e basta.

 

Un frammento, una scheggia, una piccola parte di me dice che dovrei scappare e basta… ma io non sono una codarda… egoista, spietatamente egoista, senz’anima forse. Ma non codarda, questo mai…

 

Dovevano essere già tutti al lavoro da un paio d’ore. Tutti tranne lui, lui che le aveva rubato il cuore, rendendola sciocca, insulsa, piegata alla sua volontà come la più volgare, la più blanda forma di vita al mondo. Assurdo, insensato, folle il solo pensiero. E lei era lì per riprenderselo, il suo cuore, perché una donna come lei non poteva appartenere a nessuno, men che meno a Dougal McGregor, agricoltore, babbano.

 

 

 

 

Gli bastò un’occhiata per intuire che non era in vena di abbracci. Minerva stava in piedi, con le braccia conserte, appoggiata alla scrivania in disuso, come un soprammobile fra le sue scartoffie impolverate, in attesa che lui si alzasse dal letto e si vestisse.

 

Tremano le tue spalle, tremano perfino le pagliuzze d’oro che impreziosiscono il mare dei tuoi occhi, dio, Minerva, cosa hai combinato?

 

Così prese la camicia e la infilò senza sbottonarla al di sopra della canotta, e prese per mano quel fiore di carne che era la sua donna, accompagnandola in cucina. Lei lo seguì, incapace di fiatare, tremando leggermente di mani e di mento. Gli occhi, asciutti, si guardavano attorno con cipiglio.

 

“Faccio del tè.”

 

“Come preferisci, io non ho appetito.”

 

Dougal si sistemò la camicia nei pantaloni si stropicciò il viso. Minerva guardò appena quegli occhi di bronzo, quelle ciglia folte e chiare come petali di un fiore; era dolore, era angoscia ogni istante passato in quel luogo. Resistere era l’unica cosa da fare. Resistere per non stringerlo al petto, saggiarne le forme, baciargli la pelle e rivelargli ogni segreto, ogni sofferto “non detto”. L’uomo alzava le spalle al ritmo del respiro; avrebbe dato qualsiasi cosa, quella giovane ipomea, per cullarvisi, al sicuro da quel mondo che la costringeva a scegliere fra la vita e l’amore.

 

Dougal si stiracchiò fino a quando il fischio penetrante della teiera lo interruppe. Era teso. Poté intuire l’impazienza nel suo silenzio, il suo sguardo posato sulla sua schiena mentre le dava di spalle per versarsi una tazza fumante. Quando si decise a girarsi, seppe di dover fronteggiare il suo cruccio. Era sempre stato così. Lei era un libro aperto di cui leggeva chiaramente alcuni passaggi, ma era costretto a saltarne altri, del tutto criptici.

 

Sapeva che lei gli taceva alcune cose, l’aveva sempre saputo.

 

“Cosa succede, Minerva?”

 

“Nulla.” Fu la risposta immediata, della quale lei si pentì all’istante.

 

Dougal si sedette e la costrinse a imitarlo sulla sedia accanto, e continuando a tenerle il polso bevve un paio di sorsi, per darle tempo.

 

“Non voglio più sposarmi.”

 

Era una lama affilata alla quale non si era preparato; sentì il cuore lacerarsi e rivoli caldi di sangue nella mente annebbiargli la vista dalla rabbia. Con il petto ormai ansante, la mascella rigida, si sforzò di continuare a bere con aria tranquilla. Tuttavia l’atmosfera era cambiata. Il tempo era fermo, l’aria viziata, sapeva di vecchio, di incompiuto, di vano. Di finito.

 

Nessuno dei due voleva guardare l’altro negli occhi. Sarebbe stato come aprire una porta senza chiedere il permesso, e avrebbero riabbassato lo sguardo, entrambi sconfitti, per essersi spinti troppo a fondo nell’intimità uno dell’altro. Dougal non sapeva cosa dire, perché a lui era parso tutto tremendamente giusto.

 

Sì sentì quasi stupido, forse aveva sbagliato qualcosa di fondamentale, forse non aveva colto il senso, non l’aveva mai capita. Il dubbio che era rimasto acquattato nell’erba alta della mente, in attesa delle prime avvisaglie, dei primi tentennamenti, uscì serpeggiando velenoso. E se avesse sbagliato tutto fin dall’inizio? Ogni istante passato con lei, quella fanciulla fantastica, forte e selvatica, dura e consapevole, sfrontata e timida… era come il vento fresco fra i capelli, la bruma di mattina nei campi, il cielo stellato sopra di sé. Minerva era il suo fiore all’occhiello, i suoi occhi pietre preziose da cui faticava a separarsi ogni volta, e la sua bocca, la sua bocca era un fiore da assaporare daccapo a ogni bacio.  Dal loro primo incontro, quando da ragazzino aveva dato il benvenuto alla sua famiglia porgendo loro una dozzina di uova e un carretto di zucche, si era accorto della sua luce.

 

Lei era quel genere di persona che prende sul serio ogni faccenda, che ha a cuore il bene di tutti prima del suo, e la sua costanza, la sua temerarietà nell’affrontare i genitori ogni volta che scappava di casa per venire a trovarlo su al fienile erano al limite della sfrontatezza. Quella Minerva selvaggia, che gli faceva l’amore fino all’alba, con l’odore della pineta che circondava il fienile, con la luna ed i lupi, beh, era qualcosa che nessun altro doveva conoscere mai, perché era solo sua.

 

Minerva era rigida nella sua mano, ma non opponeva alcuna resistenza; si fidava di lui, sapeva che non le avrebbe mai fatto del male. Dougal avvertì il suo dolore non appena ebbe il coraggio di guardarla negli occhi. Ne rimase tanto ferito che non ebbe il coraggio di odiarla. Instupidito, insofferente, incapace di reagire. Mortificato e senza parole. Cominciò a borbottare confusamente, poi si zittì per qualche istante, come se avesse improvvisamente preso coscienza del peso di quell’affermazione.

 

C’era un motivo, qualcosa che lei gli taceva e che non avrebbe mai saputo.

 

“Non vuoi più sposarti.” Concluse, come se parlassero del tempo, della pioggia o del grano che marcisce. Ricordò, appena l’alba del giorno prima, quando le aveva offerto l’anello della nonna, inginocchiandosi fra le pannocchie. E lei aveva accettato, diamine se lo aveva fatto.

 

Non sono degno di te. Non desidero il successo, desidero la pace. Ho sempre sperato che tu mi capissi, che cambiassi idea. Un’anima profonda come la tua, che ha sempre risposto al mio eco, egoisticamente ho sperato che mi capisse e abbandonasse i propri desideri. Ma dopotutto, di chi mi sono innamorato, fesso che non sono? Di lei, di una donna con gli artigli, una donna combattiva, intelligente, splendidamente vera e libera.

 

L’immagine enfatizzata di una Minerva guerriera, ambiziosa avrebbe fatto ridere quella che gli sedeva di fronte. Ma lei come poteva spiegarglielo, che era una strega?

 

Sono solo io ad essere stato stupido, ad aver creduto in noi?

 

Dougal posò la tazza e le strinse la mano fra le sue, con delicatezza. Era così candida, e le sue così ombrose. Che il loro fosse uno strano abbinamento l’aveva sempre saputo; ora risaltava meglio, più forte, cangiante come mai. Si sentì quasi a disagio, tanto che allontanò per qualche istante le dita da quel polso pulito.

 

“Come sai, non voglio vivere qui per sempre. Sono mesi che sogno di trovare lavoro a Londra.”

 

Era come un punto alla fine di una frase. Il discorso era chiuso prima ancora di aprirsi. Dougal sentì i denti stridere, ma non disse nulla. Cosa poteva dire? Quante volte avevano affrontato quel discorso? Londra, fastidioso richiamo alla mondanità. Eppure Minerva non era una donna frivola. Cosa desiderasse di Londra, Dougal non ne aveva idea. I tetti alti, i caminetti e la fumarola? Le strade in pavé, le piazze gremite, i ristoranti? La parte più marcia di lui, che era solitamente ostica da scovare ora deragliava come un treno pazzo e ruggiva che lei cercava sicuramente altri uomini, nuovi, allettanti, migliori di lui.

 

“Tu mi hai amato.” Obiettò, accusandola, incapace di trattenersi. Si sentì subito tremendamente infantile.

 

 “Ti ho amato.” Convenne Minerva, inseguendo ora i suoi occhi. Forse aggrappata alle sue ciglia, alle pieghe strette delle sue palpebre sarebbe riuscita ad arrivare in fondo al discorso. Forse, appesa a quegli zigomi, a quelle orecchie piccole e care, a quei ciuffi castani e rossicci, spighe di grano ardenti, avrebbe potuto trovare la sua pace…

 

“Sto per partire per Londra.”

 

“Ti prendi gioco di me?”

 

“No.” Rispose lei, semplicemente, con la voce tremante e la gola serrata.

 

“Minerva, cerca di capire. Sto per ricevere questa fattoria. Se non la prendo io, adesso, che ne sarà di mio padre, di mia madre? Non puoi davvero mettermi alle strette in questo modo, è ingiusto…”

 

“La vista stessa è ingiusta.” Sussurrò lei, con gli occhi lucidi.

 

Alla vista di quell’accenno di lacrime, Dougal si sciolse, e le strinse le mani con forza. Mai, mai in anni di incontri segreti, di baci, litigi, ripicche, discorsi, mai l’aveva vista piangere. La situazione sfuggiva a Dougal, ma non a Minerva. Piangere faceva parte del corollario; sapeva che avrebbe pianto, era calcolato; ora doveva solo riuscire a fermarsi. Il ragazzo rimase a fissarla, un labbro fra i denti, angosciato; quegli occhi chiari, di nocciola e di frumento, che le erano tanto cari aprirono una crepa, una voragine in lei. Ma Minerva non cedette.

 

“Aspetta, allora, ascolta. Ipotizziamo. Vendo tutto, vendo la mia casa, i miei genitori, i miei sogni e i miei fratelli. Partiamo per Londra, ci sposiamo là e sei libera di fare tutto ciò che vuoi, con me accanto. Accetteresti?”

 

Minerva, ascoltami, ti prego.

 

Era un ultimo, disperato richiamo che lei non avrebbe accolto. Minerva sentiva le sue mani tremare in quelle di Dougal. Chiuse gli occhi e nascose le lacrime.

 

Ora che la scelta era ormai fatta, sentiva il peso che essa avrebbe avuto sulla sua vita. Non avrebbe mai potuto amare nessun altro. Eppure gli disse di no, che non avrebbe mai accettato, che non lo avrebbe mai costretto e preferiva saperlo solo piuttosto che infelice.

 

L’incomprensione iniziale era stata spazzata via dalla paura di perdersi, ma come spesso accade in queste situazioni, la rabbia, l’estrema passione li travolse. Entrambi ora si stringevano le mani con forza, sperando di trasmettersi i pensieri più reconditi e di farla franca con il proprio orgoglio e la propria dignità.

 

“È l’ultima volta che ci vediamo, Dougal.”

 

“Se è l’ultima volta questa, tu te la ricorderai. Prometti che la ricorderai. Farò in modo che tu non possa dimenticarla.”

 

Lei non rispose. Non l’avrebbe mai dimenticato, nemmeno sostituito.

 

“Ti amo, Minnie.”

 

Si alzò di scatto, incatenandola in un abbraccio con il quale la trascinò rovinosamente contro il muro senza incontrare resistenza. Minerva capì che lui sapeva dei suoi segreti, del fatto che non poteva svelarglieli, che l’avrebbe amata sempre, e che voleva pazzamente punirla per aver scelto dio sa cosa a lui. Provò tenerezza e orrore, un misto che non si ingoia, che lascia la lingua arida; così cercò conforto fra le sue labbra, sotto la sua lingua, nel suo respiro profondo.

 

Dougal aveva capito che lei lo amava, e che non era comunque abbastanza.

 

Era male, dolore puro, baciarsi sapendo che sarebbe stato l’ultimo bacio, stringersi sapendo che sarebbe stato l’ultimo abbraccio. Era troppo, anche per lei. Eppure sorrise fra le lacrime, scostandosi dal suo viso, e prese coraggio.

 

E adesso sai chi sono e non ci soffrirai più, e se verrai di là te lo dimostrerò…

 

Sussurrò appena, e lui annuì con uno sguardo d’intesa. Occhi negli occhi, incatenati e trafitti, cominciarono a spogliarsi. Minerva sentì stridere l’amore contro la sofferenza, il desiderio contro la paura; aveva paura di cadere e di non sapersi rialzare senza di lui. Dougal lo sentì, avvertì quella paura, così come avvertì il suo desiderio. o:p>

 

Allora era vero. Sarebbe stata l’ultima volta…

 

Non verrò di là, stavolta. No. Questa volta tu te la ricorderai.” Sussurrò di rimando, annientato dalla sua bellezza, pazzo d’amore, per l’ultima volta. “Adesso spogliati come sai fare tu…

 

Non riuscì a non sfogare la rabbia su di lei. Quello che era sempre stato, ora non era più; non era – un ragazzo intelligente e gioviale, non era – un ragazzo allegro e affabile, con uno spiccato senso dell’umorismo, non era – non era più lui. Era la versione abbruttita, la versione triste, oscura, ardente, del fantoccio di se stesso.

 

Le si avventò contro, abbracciandola e sollevando le sue cosce per portarle attorno ai propri fianchi. Assaporò la morbidezza di quella pelle dolce come il nettare, sensibile, priva di asperità. Scostò le tazzine quanto bastava e l’appoggiò sul tavolo, sdraiandosi su di lei.

 

Era scomodo, era diverso da come l’avevano sempre fatto. Niente carezze, ma graffi e morsi e segni vermigli sulla pelle. E lei lo fece, si spogliò come sapeva solo lei. Allontanò appena Dougal appoggiandosi al suo petto, si sedette tirandosi indietro, e liberò i bottoni laterali del vestito. Spogliò il proprio busto sotto ai suoi occhi oscurati di brama e dolore, groviglio immondo e infame, e liberò il seno chiaro e la mezzaluna di carne magra su cui si appoggiava un grazioso ombelico. Portò i capelli corvini, onde di un mare nero in burrasca, tutti rigorosamente da un lato sciogliendo la treccia, senza sconnettere i suoi freddi occhi blu da quelli caldi e sanguigni di Dougal. Sapeva quanto la sua nuca gli piacesse. Come neve e fuoco purpureo, non smisero di amarsi con gli occhi, disperatamente, e fu con lentezza esasperante, come aveva fatto un milione di volte, ma con una luce del tutto diversa nel cielo del suo sguardo, che si liberò dall’intimo e lo lasciò scivolare fra le ginocchia, fino alle caviglie e poi a terra senza rumore. Nessun timore di apparire sfrontata, o brutta, o non all’altezza. Non ne aveva il tempo. Assorbiva ogni istante, bruciando lo stoppino del tempo che inesorabilmente passava e se ne andava, atomo dopo atomo, granello dopo granello.

 

Dougal seppe che non l’aveva mai amata abbastanza, o almeno mai come in quel momento.

 

Si sospinse nuovamente su di lei, sul suo corpo seminudo e splendido come la vita, come la morte, come dio. La luce del sole filtrava sempre più forte dalle persiane bianche; un gatto saltò giù dalla finestra che li illuminava, probabilmente intento a catturare un topolino sfrontato che aveva osato varcare il suo territorio di caccia.

 

Non l’aveva mai vista alla luce del sole; anche così, non era volgare, era solo selvatica, vivace, rigogliosa. La sua ipomea. Gli piacque come prima e più di prima, aggiungendo rabbia alla rabbia, dolore al dolore. Con il cuore sanguinante, le raccolse il viso e la baciò nuovamente. Minerva accettò la sua barba chiara e ispida con gratitudine. Con le dita raggiunse lo sterno e aprì ogni bottone della camicia, scendendo e baciandolo fino all’ombelico.

 

Sentiva il desiderio crescere in lui, nella sua aria trasognata, nei capelli scarmigliati dalle sue stesse mani, e nel suo sesso che chiedeva con urgenza di prenderla, di sciogliersi in lei, di farla sua, nuovamente. Fu come una prima volta.

 

Lasciò immediatamente perdere la camicia, gli sbottonò i pantaloni e li osservò cadere senza batter ciglio, fiondandosi con le mani ad accarezzarlo, mordendogli le labbra e la lingua, il mento e la guancia, senza pietà, senza remore. Dougal le porto i capelli indietro, ma invece di tornare ad accarezzarla, mantenne la presa con fermezza. Lei, in tutta risposta, s’inarcò.

 

Erano brividi nuovi, peccaminosi e selvaggi. Dougal la prese, spingendosi in lei. Rimasero immobili, boccheggiando, caldi, eccitati. Poi non riuscirono a trattenersi e lei cominciò ad agitarsi contro il suo petto, aggrappandosi alle scapole attraverso la carne, implorando al mondo di darle altro tempo.

 

Lui si lasciò andare al dolore, e il dolore ha un suo ritmo, una cadenza che fa ammattire, che fa dimenticare il dolore stesso; la prese con forza, senza curarsi di farle male, senza sapere che in realtà lei non era mai stata così bene.

 

Nessuna calma, nessuna tenerezza. Sui muri rimbalzava il silenzio carico di sospiri, di imprecazioni, di parole spezzate e morse dai baci.

 

Minerva si tese ad accoglierlo un’ultima volta, estasiata come non era mai stata prima, e mentre lui si appoggiava del tutto a lei, finalmente, pesante e roccioso, con un rantolo, ecco che non seppe trattenere il pianto.

 

Si asciugò con le dita, e asciugò le dita nei suoi capelli, cullandolo sul petto, mischiando il sudore alle lacrime, all'incanto di quel momento magico e già crudelmente finito.

 

Lui non seppe mai che aveva pianto. Prese i pantaloni e la camicia e andò a sciacquarsi il viso al pozzo. Minerva raccolse gli abiti come si raccolgono i cocci, con le gote rigate dal pianto. Intrecciò i capelli, si ricompose, e fu tentata dal fuggire prima di dirgli addio. Codarda, pensò, trattenendo a metà un singhiozzo.

 

Dougal torno senza dire una parola, vestito, con i capelli tirati all’indietro, bagnati d’acqua fresca; si mise a lavare la tazza, fingendo che lei non ci fosse. Era così spaventosamente bello: gli occhi chiari, le sopracciglia arcuate, le tempie sottili, la mascella squadrata e la barba incolta. Minerva si strinse su se stessa, attorcigliando le braccia sotto al seno, per nascondere i singhiozzi.

 

Prese la giacca di suo fratello Malcolm, che dormiva ignaro di tutto un paio di chilometri più in là; Merlino solo sapeva come avrebbe reagito se avesse saputo dov’era e con chi era sua sorella.

 

Aprì la porta e s’immobilizzò sull’uscio.

 

Attese qualche istante, poi fece per andarsene e si fermò all’appello di Dougal. Aprì le orecchie, chiuse gli occhi, concentrata e decisa a non dimenticare il suono di quella voce che sapeva di casa, di amore e sesso, di pulito e ora anche di profano, melodia degli angeli.

 

“Addio, Ipomea.”

 

Ipomea, gloria del mattino. Era il nome che lui le aveva dato quando si erano incontrati in un appuntamento all’alba per la prima volta, e per la prima volta avevano fatto l’amore.

 

La sua risposta non la sentì nessuno dei due, perché era tanto debole da essere azzerata dai singulti.

 

“Addio, Dougal Mc Gregor, amore mio.”

 

Dougal si sedette al tavolo, ricompose le sedie, e appoggiò il viso sul legno inspirando l’aria, saggiandola alla ricerca di percezioni che potessero ridar vita a ciò che aveva appena vissuto e che minacciava di svanire per sempre.

 

Sparirà, col tempo, il ricordo del tuo profumo, Minerva. Rimarrà solo lo struggimento, il risentito pensiero che non potrò mai più averti. Eri tutto per me, ma io non ero tutto per te. Chissà se un giorno aprirai gli occhi. Mi ami, sciocca. Mi ami, mia Ipomea e mi rimpiangerai. Bella senz’anima.”

 

   
 
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