Note
*momento romanticismo*
*momento romanticismo*
*momento romanticismo*
E Giuliano.
Quant'è bella giovinezza
La marcia forzata che proseguiva dall’aurora, il puzzo del
pelo dei cavalli che non vedevano strigliatura da due giorni e il
sudore che gli imperlava la fronte non potevano far altro che rendere
quel viaggio a dir poco insopportabile. Di natura, Giuliano non amava
lamentarsi. Quello che – solitamente- muoveva obiezioni per
qualsiasi cosa era Lorenzo. A lui andava bene tutto ciò che
era assennato. Cavalcare a passo lungo quel crinale di montagna, ad
esempio, non aveva alcun senso. Dovevano galoppare, arrivare alle
calcagna di quei due fuggitivi e far loro un bel discorsetto. Secondo
Bertino, però, non era una grande idea andar di fretta per
quei sentieri tortuosi, visto che la sola cosa che li separava da una
caduta rovinosa in un burrone era una striscia di terra.
Sbuffò per la millesima volta, portando un fazzoletto ad
asciugarsi il volto, prima di prendere un sorso generoso dalla
borraccia. Lanciò quindi uno sguardo alla giovane che
cavalcava con loro e si chiese cosa mai potesse pensare di
così impegnativo da evitare ogni conversazione. Non aveva
aperto bocca da quando avevano lasciato Firenze, due giorni prima, se
non per chiedere un paio di informazioni circa la via intrapresa.
Pareva furibonda.
Nel mentre il Medici la fissava pensieroso, lei diede un lungo sospiro
che sapeva soltanto di seccato. Scalciò nel ventre del
cavallo un paio di volte, superando così un paio di uomini
per affiancarsi a Giuliano, quasi avesse in qualche modo udito i suoi
pensieri.
«Sono due giorni che mi fate procedere al passo di un vecchio
zoppo», esordì, strattonando malamente le briglie
del suo cavallo. «È semplicemente ridicolo!
Persino un cieco li avrebbe già trovati e riportati a
Firenze!»
Giuliano alzò gli occhi al cielo, trattenendo parole poco
carine nei riguardi della giovane. Si impose di essere cordiale,
dopotutto non era colpa di Porpora se si trovavano in quella
situazione.
“La via non consente un’andatura più
veloce di questa, Madonna.” Disse paziente il giovane,
indicando con un ampio gesto del braccio lo strapiombo alla loro destra
“Non appena sbucheremo a valle, allora riprenderemo la corsa.
Fino ad allora, vi prego di mantenere la calma. Li troveremo.”
«Bé, non è la verginità di
mio fratello, quella in pericolo.» Porpora alzò le
spalle, ricalcando il gesto di Giuliano sullo strapiombo. Ridacchiando
nervosamente, si voltò di nuovo verso di lui. «Io
di nipoti sono sicura di averne già a dozzine.»
Scosse velocemente il capo, muovendo qualche ciuffo ribelle dalla
fronte sudata, dopodiché scrocchiò il collo un
paio di volte.
«E, comunque», riprese poi, sbuffando.
«Io mi chiamo Porpora, non Madonna.»
Il giovane de’Medici dovette far appello a tutto il suo
autocontrollo per non scendere da cavallo, tirar giù anche
la giovane e prenderla a schiaffi per l’insolenza usata. O
per il modo in cui aveva messo in dubbio la purezza
d’intenzione di sua sorella.
Subito dopo averlo pensato, però, se ne vergognò.
Da quando metteva le mani addosso ad una ragazza? Non
l’avrebbe mai fatto, un pensiero momentaneo che era riuscito
a scacciar bene. La paura però si fece sentire, tanto che
sospirò apertamente, questa volta. Buttò indietro
il capo, cercando di distendere il collo indolenzito, prima di voltarsi
verso la ragazza e sorriderle leggermente
“Porpora sia, quindi.” Si rimise dritto sulla
cavalcatura, deciso a non spezzare quel inizio di discorso. Era rimasto
zitto a sufficienza, senza contare che quella giovane lo incuriosiva.
Era caparbia e testarda, ma quelli erano solo attributi di una grande
forza interiore.
“Ci ho provato.” Ammise, un po’
imbarazzato “A capire mia sorella, intendo. So che Lorenzo
alle volte non è umanamente sopportabile, ma non
l’avrebbe davvero reclusa in casa. Non capisco
perché si sia spinta così oltre….
Fuggire da palazzo! Dalla città!”
Per risposta, Porpora alzò le spalle.
«È una ragazza, mica una criminale»,
rispose, facendosi pensierosa. «Se l’avevate
reclusa, ha fatto bene ad andarsene.» Arricciò
appena le labbra, poggiando i gomiti sulla sella mentre si piegava in
avanti. «Ma è una ragazza intelligente, questo
bisogna riconoscerlo. Ha aggirato mio fratello come un
allocco.»
Si fermò un istante a pensare.
Come il sole scomparve per un istante dietro una nuvola,
assottigliò gli occhi marroni verso l’orizzonte.
«Perché Bologna?», chiese, confusa.
«Orso non è mai stato a Bologna.»
La risposta sembrava ovvia, agli occhi di Giuliano. Un piccolo sorriso
intenerito fece capolino sulle sue labbra, mentre si apprestava a
rispondere “Voi siete cresciuta con i vostri genitori,
Porpora?” Attese qualche istante, ma quando la ragazza non
rispose decise di iniziare per primo “Noi no. Nostro padre
era malato, molto malato, mentre nostra madre…. Non era
molto brava con i bambini. Li metteva al mondo e poi li passava alle
levatrici o ai precettori. Siamo cresciuti sotto la guida di nostro
nonno Cosimo e quando lui ci ha lasciati, ha permesso ad un vuoto
incolmabile di instaurarsi nel cuore di mia sorella minore.”
Fece una piccola pausa amareggiata, prima di proseguire “Io
ho cercato di colmarlo, evidentemente senza successo.” Ancora
ricordava il giorno del funerale del nonno. Era stato un rito molto
solenne, in San Lorenzo. Aveva preso parte tutta la città,
commossa dalla perdita del loro Pater Patria. Lui era rimasto tutto il
giorno con Beatrice, tenendola per mano, prendendola in braccio o
abbracciandola semplicemente. Eppure, lei non aveva versato una sola
lacrima, tenendo lo sguardo vacui sempre rivolto al terreno. Perso per
quei ricordi, quasi dimenticò la domanda di Porpora. Si
riprese in fretta, “Perché Bologna? Una volta
all’anno, Cosimo ci portava con lui in visita ai Bentivoglio.
Da quando è morto, non siamo più
andati.”
«Siete tutti così romantici, in
famiglia?», incalzò Porpora, sgranando gli occhi.
Poi, quasi rivolta a se stessa: «Nessun dubbio sul
perché quella povera ragazza abbia deciso di
scappare.»
Portò una mano alla cinta, afferrando la borraccia e
portandosela alla bocca per prendere un generoso sorso
d’acqua.
«Ho come l’impressione che vi stiate torturando fin
troppo, per questa fuga», commentò subito dopo,
annuendo pieno alla sua stessa affermazione. Non pareva neanche troppo
inacidita e quella era la prima volta, da quando avevano iniziato a
parlare. «Io e Orso abbiamo bruciato casa nostra a
Vallesanta, ma non odiavamo la nostra famiglia. Non i nostri genitori,
almeno. Insomma, una pazzia non è indice di ciò
che realmente proviamo, no?»
Il Medici non parve aver capito molto bene quel discorso. Quella che
per lui era un’autentica tragedia, agli occhi di Porpora
sembrava una scappatella infantile. Beatrice poteva essere morta o,
peggio, vittima di chissà quale angheria. Era bravina con la
spada, glielo concedeva, ma non era assolutamente all’altezza
di un brigante o un mercenario. Senza contare che il suo accompagnatore
non pareva affatto abile con la lama. Sbuffò, passandosi
nuovamente il fazzoletto sul viso “Voi donne, fate tutto
facile! Dio solo sa quante cose possono nuocervi, ma voi non temete
nulla. Pazzia, avventatezza o ingenuità, non sono questi i
fattori che determinano certi atti: siete voi quelle
romantiche.”
Porpora lo guardò, interdetta per un istante, alzando
lentamente un sopracciglio.
«Giusto», rispose, dando una risatina divertita.
«C’è del romanticismo nel sgozzare
conigli per preparare la cena, ma anche nello spellare le anatre. E
cos’è uno dei vostri sonetti cavallereschi in
confronto a vedersi vendere a un uomo dai propri fratelli con la scusa
di prendere marito?» Scosse il capo, sarcastica.
«Ma davvero, è una vita rosa, quella di noi
donne!»
Accelerò un po’ il passo del suo cavallo,
precedendo il breve corteo in cima a una collinetta.
«Non io, però», commentò poi,
gonfiando il petto con fierezza. «Io faccio della mia vita
ciò che mi pare e piace, e così vuole fare vostra
sorella.»
“Mia sorella non verrà mai venduta!”
sferzando le redini, anche Giuliano scattò in avanti. Ormai
pareva aver scordato il burrone “Non permetterò
nessun matrimonio che lei stessa non accetti. Lorenzo potrà
presentare anche cento pretendenti, ma se nessuno sarà alla
sua altezza che così sia! Torneranno tutti a casa con
l’impronta del mio stivale sul retro dei calzoni!”
«Allora sì, che vostra sorella è
fortunata!»
Porpora rise, stavolta di gusto, buttando il capo indietro prima di
scrollare le spalle.
«Ma andiamo, non può trovare qualcuno da sola? A
Firenze dicono che siete sempre per osterie a caccia di fanciulle.
Portatela con voi una sera, e lasciate che si trovi un ragazzo che le
piaccia!» Fece una pausa, assumendo un’espressione
un po’ più seria. «Altrimenti per forza
che finisce con lo scappare con uno come mio fratello!»
“Vostro fratello non è nemmeno degno di servire i
pasti a mia sorella!” Prendendo un respiro profondo, Giuliano
si impose di calmarsi. Non era colpa di Porpora, non era colpa di
Porpora, non era colpa…. Quella ragazza lo stava spedendo
fra i folli! “L’uomo di cui Beatrice può
innamorarsi deve comunque avere una certa levatura: bancari, duchi,
conti e persino qualche principe. Fanno tutti la fila da quando ha
compiuto quattordici anni. Lorenzo riceve almeno sei lettere al mese,
con proposte di fidanzamento.” Non era esattamente un vanto
il suo, quanto una dimostrazione di cosa dovessero sopportare.
“Il cognome de’Medici è una maledizione,
Porpora; Voi credere d’esser libera e forte, conscia del
vostro destino, ma non avete idea di cosa significhi nascere con un
marchio. Siamo proprietà, non siamo persone. Il fatto che
mia sorella possa almeno scegliere l’uomo da sposare, seppur
tra pochi, è un lusso.”
«Allora forse vostra sorella vuole essere una persona e non
una proprietà», rispose risoluta Porpora.
«Proprietà di chi, poi. Datemi ascolto, lasciate
libera vostra sorella o vi si ritorcerà tutto contro, un
giorno.»
Ridacchiò ancora un poco, dopodiché
ammutolì di colpo, fissandosi sul paese che si estendeva
sull’altopiano al di sotto delle colline che avevano appena
scalato.
«Che posto è, quello?», chiese,
voltandosi verso Giuliano per fargli cenno di avvicinarsi.
Lo guardò per un istante, annuendo piano.
«Se fossi affamata, mi fermerei lì.»
“Fiumalbo.”
La voce di Bertino li raggiunse da dietro ad una cartina spessa e
grande.
Giuliano annuì, meditando ancora su quelle parole. Porpora
aveva ragione, ma lui era solo un piccolo tassello. Lorenzo aveva le
loro vite nel borsello insieme ai fiorini.
“Ci fermeremo lì, stanotte.”
Decretò, prima picchiar con i talloni il ventre del cavallo,
affrettandosi lungo in crinale.
Per un istante, uno solo, desiderò di non trovar
più sua sorella.
La sua sola speranza di essere davvero libera.
Il paese di Cinque Pietre era in
festa, quando Orso e Beatrice arrivarono a varcarne le soglie con i
piedi distrutti per la scarpinata.
Con i cavalli troppo stanchi per proseguire e le pance vuote per la
fame, i due giovani si erano trovati costretti non solo ad accamparsi
per la notte, ma a farlo in un luogo che offriva pernottamento e
vivande. Il fiume era lontano, dopotutto, e Orso non aveva la
più pallida idea di come cacciare.
Così, affamati ed esausti, avevano celato il viso sotto i
mantelli e avevano affittato una stanza nella prima locanda aperta,
concedendosi infine il lusso di una cena a base di brodo di coniglio.
Il più unto brodo che Orso avesse mai mangiato, a voler
essere precisi, cosa che lo rendeva orgoglioso e soddisfatto della sua
scelta. Sentire il grasso caldo dell’animale scendergli in
pancia era la sensazione più dolce, dopo un’intera
giornata passata ad ingoiare lamponi per imbrogliare la fame.
«Ci rimetteremo in viaggio domattina presto»,
annunciò, svuotando con poco garbo la scodella mentre a
passo bonario passeggiava assieme a Beatrice per le vie del paese.
«Con un po’ di fortuna, troveremo chi
saprà darci informazioni.»
In più, la Dea bendata doveva veramente averli accolti tra
le sue braccia. Con tutto il trambusto dovuto ai festeggiamenti di
chissà quale santo, due viaggiatori come loro sarebbero
passati del tutto inosservati.
La ragazza, però, lo stava a stento ascoltando.
Lanciò un’occhiata alla piazza in pietra del
paese, dove la vera festa stava scoppiando. Stufa di quel cappuccio lo
abbassò, lasciando scivolare la treccia sulla sua spalla.
Allungò quindi il collo, scrutando quante persone stessero
divertendosi a ritmo di musica e con del buon vino nei boccali.
“Andiamo a ballare.” Disse di punto in bianco,
prendendo la mano di Orso e intrecciando le dita alle sue senza
accorgersene. “Non mi riconoscerà nessuno, sono
contadini che dei Medici han solo sentito dir qualcosa.”
Orso glielo concesse, facendosi trascinare per quei pochi passi che lo
separavano dalla piazza dove molte coppie avevano già dato
il via alla festa.
Dopotutto, anche lui aveva voglia di ballare.
L’ultima volta che si era lasciato trasportare dalla festa
era stata il primo e unico San Silvestro che Porpora gli aveva permesso
di festeggiare, stretti nei loro mantelli a Vallesanta, a danzare tra
l’erba ghiacciata dei campi.
«Conoscete le ballate di paese?», chiese,
divertito, lasciando la mano di Beatrice per prendere ad applaudire a
ritmo con i tamburi che qualcuno suonava dinanzi alla chiesa.
«È faccenda ben diversa, dalle danze di una
corte!»
E ben più divertente, avrebbe volentieri aggiunto. Inutile
precisazione, fece bene a risparmiarsela; Beatrice osservava quelle
danze strane e rideva tanto le trovava buffe. I suoi occhi brillarono
della luce di cento stelle, quando si voltò verso Orso. Lo
tirò per la camicia, affinché si abbassasse per
potergli parlare all’orecchio.
“Mi insegnerete voi?” chiese divertita, mentre un
giovane ragazzo le porgeva una margherita, proseguendo poi per la sua
strada.
In un certo senso si sentiva un po’ come a Firenze,
l’atmosfera era di casa.
Orso arrossì appena, ma fu bravo a mascherarlo, dando una
scrollata di spalle prima di scoppiare a ridere.
«Se lo desiderate», rispose, prendendole con
delicatezza le braccia per posizionarla dinanzi a sé.
«Non è niente di complicato.»
Si guardò un istante attorno, come a voler ravvivare in
sé il ricordo dei passi che da tanto non ballava. Mosse
piano i piedi, dapprima incerto, poi con sicurezza, sebbene la sua
leggiadria lasciasse alquanto a desiderare.
«Non sono un bravo ballerino», commentò
infine, dando un sospiro rassegnato.
Ciononostante, pareva allegro.
Lei, per risposta, sorrise teneramente. Si sporse sulle punte,
appoggiando le mani alle sue spalle per potergli baciare una guancia.
“Io dico che qui siete il migliore.” Rispose sei,
con determinata allegria, prima di provare a muovere a sua volta
qualche passo, imitando le dame attorno a loro. Danzarono fino a che le
loro gambe, già provate dalla giornata a cavallo, non
chiesero pietà. Si allontanarono così dalla
carca, tenendosi a braccetto, decisi però a guardare gli
sbandieratori che esibivano i vessilli dei Bentivoglio. Stava per
l’appunto passando il gruppo con i vessilli, quando un
anziano si accostò a loro e li guardò con un
sorriso sdentato.
“Avete una bellissima moglie, ragazzo. Siete
benedetto.” Disse, battendo una mano sul braccio libero di
Orso, proprio sopra al gomito.
Per risposta, il ragazzo avvampò e stavolta non ci fu modo
di mascherarlo.
«Vi ringrazio», balbettò, portando la
mano libera a grattarsi la nuca. «Ma il Cielo non mi ha
ancora fatto dono di una moglie, buonuomo!»
Si voltò verso Beatrice, sorridendo timidamente.
«Non che non siate bellissima, naturalmente»,
disse, arrossendo ulteriormente, stavolta con più grazia.
«Non potrei davvero immaginare una compagnia più
gradita, stasera.»
Il vecchio li guardò incuriosito da quella rivelazione,
così la giovane de’Medici si sporse verso di lui
repentina, parlando con tono alto per coprire la musica.
“Il mio promesso è sempre così gentile
e umile.” Disse, pizzicandogli di nascosto il fianco
“Ancora non siamo sposati, ma avverrà presto.
Stiano in viaggio verso casa di parenti lontani.”
Il vecchio parve cascarci.
Annuì convinto, prima di corrucciarsi appena
“Siete per caso fiorentina? L’accento è
inconfondibile come quello romano del vostro promesso. Che parenti
andate cercando?”
“A Bologna.” Rispose lei, cortese ma spicciola
“Una zia a cui molto tengo.”
«Andiamo», si rifece presente allora Orso,
accostandosi al braccio di Beatrice per spingerla con delicatezza verso
la strada che dalla piazza riportava alla locanda. «Il
viaggio è ancora lungo, da qui a Bologna. Se domattina
vogliamo alzarci al canto del gallo, conviene andare a
risposare.»
Scambiò con il vecchio un lungo sguardo, prima di dargli del
tutto le spalle e allontanarsi bonariamente dal frastuono della festa
che non accennava a terminare.
«Aspettate!»
La voce dello sconosciuto lo bloccò al terzo passo,
raggelandogli il sangue nelle vene.
‘Oh, no’, si trovò a pensare, prima di
voltarsi con il cuore che batteva a mille. Se le gambe glielo avessero
permesso, si sarebbe di certo dato alla fuga.
Rimasero in silenzio, mentre il vecchio sussurrava qualcosa
all’orecchio del giovine che l’aveva accompagnato
ma che non pareva aver notato i due ragazzi. Quello che doveva essere
il figlio si sporse a guardare Beatrice, ma lei non fu veloce a calarsi
il cappuccio sul capo.
Tronfio, l’uomo fece un paio di passi verso di loro
“Voi siete la sorella del Magnifico!”
gridò, facendo voltare mezza piazza. “Vostro
fratello vi sta cercando per mari e per monti, lo sapete? Giungo da
Firenze e so che vi è anche una ricompensa, per chi vi
trova.”
Nessuno arrivò a muovere un muscolo, poiché Orso
fu più lesto di una lepre nell’afferrare Beatrice
per le spalle e darsi alla libera fuga per le strade del paese.
Con un paio di giovani alle calcagna, riuscì a infilarsi in
un paio di vicoli ridicolamente stretti, tirandosi dietro una Beatrice
più confusa che realmente allarmata.
«Siamo nei guai!», annunciò, senza
perdere velocità mentre con il braccio le indicava la
direzione da intraprendere. «Dobbiamo trovare un nascondiglio
alla svelta!»
L’alternativa era quella di arrivare fino al bosco di corsa,
ma i piedi cominciavano a dolergli un po’ troppo, per pensare
di poter resistere fino alle porte del paese.
Stanca più di lui e intenta a interrompere quella corsa a
rotta di collo, Beatrice indicò una stalla sulla loro via.
Sembrava abbastanza buia e abbastanza decadente da non suscitare
l’attenzione di alcuno, quindi sufficientemente discreta per
nascondersi.
Insieme si infilarono dentro, nascondendosi dietro ad un cumulo di
paglia bagnata e maleodorante. Non doveva entrarci nessuno da molto,
molto tempo.
Silenzioso, Orso si chinò su Beatrice per coprirla
parzialmente con le sue spalle larghe, seguendo attentamente i passi
scattanti dei loro inseguitori sulla strada.
Quando lei provò a sgattaiolare fuori da quel marcio
nascondiglio, lui la bloccò prendendole la spalla.
«No», sussurrò, senza staccare gli occhi
dall’uscio. «Non ancora.»
Dopo una manciata di secondi, un altro gruppo di uomini armati di torce
li superò di corsa, gridando il nome dei Medici come se
fosse quello del Signore stesso.
Orso rimase a guardarli, immobile.
«Siamo salvi?», chiese, dopo un istante, quasi
quelle parole fossero rivolte ai santi.
Un sorriso vittorioso fece capolino sul suo viso impallidito dalla
paura.
«Siamo salvi!»
Sfinita, con ancora il fiatone per la corsa e delle fitte poco
piacevoli agli arti inferiori, Beatrice andò a sedersi in
terra. Passò una mano sulla fronte sudata, sporcandola di
polvere, ma non parve preoccuparsene. Che fosse di nobili natali era
risaputo, ma non aveva di certo paura di sporcarsi o dormire in un
posto del genere. Rendeva tutto più avventuroso.
Così presa dal batticuore che ancora non la lasciava, si
accorse dopo qualche istante di Orso. La stava fissando con insistenza,
ma il suo volto era in parte celato dell’oscurità.
“Qualcosa non va?” domandò, curiosa.
La risposta fu quasi immediata.
«No», borbottò sottovoce il ragazzo,
spostandosi quel poco che bastava per mettersi comodo a sua volta sul
terriccio umido del fienile. «Ma ci è davvero
mancato poco che ci acciuffasse, quel maledetto vecchio.»
Rimase un istante in silenzio, puntando il naso verso il soffitto di
quell’enorme stanzone in cui si trovavano.
«Voi state bene, vero?»
“Si, solo più stanca di prima. E dovremo aspettare
un poco prima di avviarci alla locanda.” La ragazza
sospirò affranta. Quel letto le sembrava più
lontano che mai. Alzò una mano per scostarsi i capelli, ma
poi si bloccò. Era davvero sporca.
Notando quel gesto, ci pensò Orso; allungò un
dito e spostò via una ciocca castana dal volto dalla
ragazza, ritrovandolo però più vicino di quanto
avesse calcolato. Senza dire una parola, entrambi rimasero a
contemplarsi. Beatrice avvertiva addirittura il respiro caldo di Orso
sul viso.
«Temo di aver peggiorato la cosa»,
confessò dopo un respiro il ragazzo, lasciandosi sfuggire un
sospiro divertito mentre le sue guance si arrossavano appena.
«Le mie scuse.»
Spostò lo sguardo sulla giacca che portava aperta sul petto
e con le mani frugò un po’ nelle tasche,
estraendone infine un fazzoletto dall’aria meno sudicia della
sporcizia che entrambi avevano addosso.
«Vediamo se riesco a rimediare.»
Orso si sporse in avanti, passando con delicatezza la stoffa dura del
fazzoletto sulla fronte di Beatrice, probabilmente
nell’intento di ripulire lo sporco lasciato sulla pelle
quando l’aveva sfiorata per scostarle i capelli dal viso.
Lei abbassò lo sguardo imbarazzata, storcendo appena il naso
a causa della pressione che il ragazzo stava esercitando. Forse ci
metteva troppa forza, ma non si lamentò. Non era come
Giuliano, che ogni cosa era ottima da criticarsi. Attese in silenzio,
tirando su con il naso e non osando sposare gli occhi dal pavimento
sudicio.
Quando Orso ebbe finito rialzò il viso e lo
ringraziò con un sorriso.
Con la mano ancora ferma a mezz’aria, il ragazzo rimase
immobile a guardarla. Difficile dire se fosse imbarazzato o
più semplicemente perso in chissà quale pensiero,
poiché nel suo sguardo non vi era alcuna traccia di
coscienza.
Scosse appena il capo e parve ridestarsi, abbassando finalmente la mano
con il fazzoletto per poi piantarla a terra e usarla come appoggio per
sporgersi un poco sul viso di Beatrice.
La guardò negli occhi per un istante, ma nessuno dei due
disse nulla.
Orso deglutì e il rumore della sua saliva che lentamente
scendeva la gola fu per un istante l’unico suono nella stalla.
Poi, in un frusciare d’abiti, il ragazzo si chinò
ancora un poco in avanti, posando le labbra su quelle della ragazza in
un lieve bacio che sapeva di terra.
Fu strano, eppure estremamente naturale il modo in cui la giovane
ricambiò quell’accortezza. Passò una
mano sulla guancia un poco ruvida per via della prima barba del
ragazzo, scendendo poi sul collo e fermandola sulla nuca, quasi come se
fosse suo interesse non spezzare quel contatto. Sentì il
cuore balzarle nella gola, mentre sentiva il coniglio saltellarle nello
stomaco.
Per Orso poteva essere sciocco, agli occhi di Beatrice, ma per lei no;
quello era il suo primo bacio.
Con un piccolo schiocco, Orso si scostò che ormai gli
mancava il respiro.
Rimase con il naso appoggiato a quello di Beatrice, ma non
osò alzare gli occhi dal terreno sotto di lui.
«Le mie scuse», mormorò solamente,
mentre sentiva le guance andargli nuovamente in fiamme. Stava
arrossendo decisamente troppo, in quella serata. «Non era mia
intenzione apparire sfrontato.»
Lei non si premurò di rispondere. Si lasciò
scappare un tenero risolino, prima di portare le braccia dietro al
collo di Orso, reclamando così un altro bacio.