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Autore: GuessWhat    20/05/2014    3 recensioni
LONG SOSPESA // Esiste Dio? Se esiste, è sordo e se mi sente, non mi vede. Così sono finito qui, dalla strada ai cessi di una scuola. Sempre e comunque sguazzo nella merda. Avete voglia di ascoltarmi? Bene. C'è spazio. Questa è la mia vita, questa è la mia storia.
[Levi POV]
Dal cap. 15:
Eravamo solo io e lui, io ed Erwin, in quella stanza scura – sì, sono tornato sui miei passi. Mi guardava, gli occhi fissi nei miei, c’era qualcosa sul tavolo… Carte, o qualche altra cazzata, documenti. Non me ne sbatteva una mazza; feci solo caso al suo completo grigio scuro con la cravatta color perla che faceva davvero schifo e molto matrimonio cattolico, al suo pomo d’Adamo che sobbalzava troppo e allo sguardo che non smetteva di essere fisso.
“Levi, possiamo fare un patto.”
Genere: Angst, Drammatico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Irvin Smith, Rivaille, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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CIAO BIMBI SONO DI NUOVO QUI
Io ci ho provato a fare l'aggiornamento settimanale ma ho fallito miseramente XD Chiedo scudo *cit Giurato*.
Cerco di essere come Isayama, un capitolo al mese... Che però è una specie di montagna russa di feels e tante altre belle cose, lalalà. E intanto il numero degli spin off che scriverò aumenta vertiginosamente. *soffre*
Spero vi piaccia e grazie mille per le vostre belle recensioni ** ♥ Fatemi sapere se ci sono sviste o errori di battitura che non ho notato!



Gli ospedali sono l’Inferno in Terra.
No, non me ne fotte niente se lì la gente entra rotta ed esce aggiustata: per me sono e resteranno l’Inferno in Terra. Sia ben chiaro; li ho sempre odiati. La disintossicazione forzata non c’entra obiettivamente un cazzo con il mio odio nei confronti degli ospedali – anche perché, se ci penso, se provo a focalizzare e dare un corpo al mio odio per quelle strutture, non ne ricavo niente se non un gomitolo denso di schifo.
Forse era il pensiero stesso che esistesse un posto del genere dove malati di tutte le specie si radunavano per farsi curare, che mi metteva ribrezzo; o l’immagine di un grande, immacolato mattatoio. Non esisteva privacy, lì, tutti sembravano sapere gli affari di tutti, e non c’era rispetto o riservatezza, chiunque voi foste, messi a morire o a guarire sotto gli occhi di chicchessia. Non è necessariamente vero, ma d’altronde non tutto ciò che crediamo è vero –ah, Gesù, Gesù.
Pensatela come vi pare sugli ospedali: se non avessi voluto restare vivo a lamentarmene, col cazzo che ci avrei messo piede per ripulirmi, svariati anni prima.
Ci si rivede, pensai, alla vista della struttura bianca, mattone e grigia che mi sovrastava. Ah, non che ci volesse molto per farlo.
La mia spavalderia era evaporata nel momento esatto in cui avevo poggiato i piedi sul cemento. E adesso? Non ero ancora entrato e già volevo andarmene.
Mi guardai intorno, cercando di dare un ordine al caos che avevo nel cervello. Per prima cosa, una rastrelliera per la bici. Fatto. Ecco, bravo, ora chiudi la bici. Fatto. E ora, controlla l’ora sul cellulare e… Ah, giusto, magari spegnilo, che dicono che in ospedale sia meglio così. Però… No, sei in orario.
Mi specchiai un’ultima volta nello schermo nero del cellulare prima di ficcarlo nell’angolo più dimenticato delle mie tasche. Deglutii, guardai su, verso le finestre, chiedendomi dove fosse nascosto Erwin. Per un momento mi sentii meno ansioso, ma fu esattamente come quello sputo di sole che sbuca da dietro le nuvole in una giornata nera.
Non era servito poi a molto.
Mike mi aveva detto come arrivare alla camera di Erwin: mi aveva risposto al cellulare con la voce impastata di sonno e in sottofondo un dolce ‘Chi è, tesoro?’. A quanto pare lo avevo disturbato nel suo giorno libero e quand’era pure in dolce compagnia di Nanaba. Fu troppo paziente con me, spiegandomi per filo e per segno come arrivarci senza metterci trent’anni della mia vita. Pure se poggiava le fondamenta in una delle cittadine limitrofe attorno alla città, l’ospedale serviva tutte le anime della metropoli ed era estremamente grande. Sinceramente, non volevo correre il rischio di perdermici.
Presi un profondo respiro e mi avviai verso l’ingresso, dopo avere passato qualche minuto a fare avanti e indietro davanti alle porte a scorrimento. Una guardia in divisa si era messa verso l’ingresso a scrutarmi e non appena entrai, mi chiese circospetto se avessi bisogno di qualcosa. Scossi il capo trattenendo il respiro quasi stessi facendo apnea, non lo guardai nemmeno in faccia e tirai dritto verso la fine dell’ampio ingresso luminoso.
Con la coda dell’occhio, non mi sembrò affatto diverso dall’ultima volta in cui ci avevo messo piede. La stanza grande con le poltrone in ecopelle color crema, le piante in ogni dove, le riviste, una macchinetta del caffè. Le solite cazzate.
Dunque, dunque, dovevo andare a sinistra, superare ginecologia, e poi prendere l’ascensore fino al sesto piano e andare dritto… Superare l’ultima porta a vetri e poi l’ultima stanza in fondo a destra, vicino al balconcino. Sì, si poteva fare.
Mi stavo concentrando su quel percorso in modo ossessivo. In testa, me lo ripetevo di continuo, da capo a coda, mentre camminavo spedito con le mani nelle tasche: respiravo a malapena e tenevo gli occhi ridotti a due fessure, fissi sulla strada di fronte a me. Evitavo il contatto visivo con chiunque, specialmente con tutti quelli che indossavano un camice.
Mi stava quasi venendo un piccolo attacco di cuore. Non stavo per niente bene. Mi sentivo circondato da germi, da cose sporche, da gente lurida, malata, orribile… Per assurdo, non erano i ‘ricordi’ a tormentarmi, ma la sensazione di un posto come quello mi disturbava. Non pensai alle giornate trascorse a letto, imbottito di farmaci e con la vescica sempre gonfia, quelle giornate in cui più di ogni altra cosa avrei preferito morire piuttosto che andare avanti. Mi sembrava semplicemente troppo faticoso allora.
Me ne stavo a spalle strette e più camminavo, più mi accorgevo di come stessi facendo il possibile per evitare il contatto fisico. Mi scendevano brividi di disgusto lungo la schiena se pensavo che uno dei pazienti o dei visitatori avrebbe potuto sfiorarmi. Orrore.
Giunsi di fronte all’ascensore mentre torturavo una pellicina al lato di un’unghia, le mani ancora affondate nelle tasche. Rilassai un poco le spalle perché mi accorsi che l’ascensore era già in discesa e non avrei dovuto premere il tasto.. Chissà quanti lo avevano toccato.
All’aprirsi delle porte, l’ascensore era vuoto, se si escludevano due medici e una signora bionda, di mezza età, snella e alta con i capelli raccolti in una crocchia.
La donna mi guardò con una strana espressione; pareva avesse visto qualcuno di conosciuto. Infatti non uscì dall’ascensore, e non appena io vi misi piede, mi chiese con un leggero accento tedesco: “A che piano sale?”
“Sesto.”
Lei non mi sorrise e premette il bottone. Pensai che era stata molto gentile a farlo da parte mia. Mi aveva risparmiato di toccare qualcosa di vomitevole.
Le mani sulla sua bella borsa color cipria, vestita di bianco e avio, la signora mi scrutava coi suoi occhi azzurri senza dire una parola. Doveva essere stata davvero una bella donna da giovane, pensai. Il modo in cui restava dritta con la schiena e la sua posa in generale avevano un che di familiare. Non riuscii a capire.
L’intenzione di chiederle se avessi qualcosa in faccia, tipo non so, un pisello disegnato con l’indelebile, era molto forte ma allo stesso tempo, la donna mi incuteva una sorta di timore reverenziale non molto diverso da quello che provavo nei confronti di Erwin, in certi casi.
Al piccolo ‘dling’ in arrivo al sesto piano, sobbalzai leggermente. Alla matrona si incresparono le labbra in un sorriso. “Arrivederci a presto” mi disse, ed io, rimasto al saluto, le risposi con “Arrivederci”.
Fuori dall’ascensore, mi guardai indietro ma le porte si erano già chiuse. ‘A presto’? Che cazzo voleva dire quell’’A presto’? Dio, di matti ce ne sono a ‘sto mondo, mi dissi tra me e me mentre mi lasciavo lo strano incontro alle spalle. Qualsiasi cosa fosse, non aveva senso. Magari era solo una signora mezza scema che non vedeva nessuno e ne approfittava per essere gentile ogni tanto con gli sconosciuti. Bah. Che tipa.
Dovetti rendere conto alla signora che, dopotutto, mi aveva fatto scordare dello sporco dell’ospedale per un po’. Il pensiero rimase lì in sottofondo mentre mi avviavo verso dove dovevo, una specie di ronzio lontano, attivamente troppo occupato a chiedermi che accidenti avesse significato tutto ciò.
Mi fermai di fronte alla porta a vetri su cui era affisso l’orario delle visite. Le memorizzai, in caso… Anche se dubitavo sarei tornato. No, sul serio, non mi sentivo affatto bene. Se non avessi avuto Erwin, lì… Non ci avrei mai messo piede. Mai. Piuttosto sarei crepato o avrei pagato soldoni per farmi ricoverare in clinica privata.
È difficile descrivere come mi sentissi in quel momento, perché… Era davvero un casino. Da fuori, sapevo di apparire calmo, misurato, a tratti pure freddo, ma dentro mi sembrava che tutte le mie emozioni fossero state prese e arrotolate e buttate dentro una centrifuga settata al massimo. Mi batteva forte il cuore, questo era certo. Ero un esperto nel sorprendere Erwin con entrate improvvise ed inaspettate.
Mi sudavano molto le mani, un po’ per l’agitazione e un po’ per averle tenute a lungo nelle tasche. In quel lungo corridoio mi sentii leggermente meglio. Mi dava l’idea di un posto più riparato e tranquillo: dal balconcino con la tapparella abbassata per metà entrava una gradevole luce soffusa, sembrava quasi di stare a casa, una di quelle domeniche mattine in cui non si ha voglia di fare un emerito cazzo e si sta così bene, ma così bene di fianco a qualcuno.
Bussai.
“Oh? Avanti.”
Dalla voce, avrei detto che Erwin era ripreso alla grande. Mi sforzai a mandare giù il disgusto all’idea di toccare la manopola e spinsi quel che bastava per sbirciare all’interno.
Aprii completamente la porta respirando un profumo di fiori freschi. La stanza era per due persone, abbastanza spaziosa e luminosa e divisa in due da un separé. Il letto di Erwin era proprio di fronte alla porta, di lato alla finestra. Sul comodino, qualcuno gli aveva lasciato un grosso vaso con tanti fiori, il giornale e un sacchetto di plastica che sembrava contenere della frutta. Levi, che idiota! Potevi portargli anche tu qualcosa, deficiente, stupido, cretino!
Ma venendo alle cose veramente importanti, Erwin era steso a letto e da quel che vedevo portava il pigiama con la vestaglia. Non era pettinato di tutto punto e portava gli occhiali da presbite mentre leggeva un libro, che per il momento aveva abbassato sulle cosce… Dico per il momento, dato che nel vedermi gli si illuminò talmente tanto il viso, prima di sorpresa e poi con un sorriso, da mandarmi in brodo di giuggiole.
Non lo avevo mai visto così contento. Per poco non sorrisi anche io.
Gli andai incontro dopo essermi chiuso la porta alle spalle e senza staccare gli occhi da suoi. “Ciao” feci, calmo, mentre mi fermavo al suo capezzale.
Lui si tolse gli occhiali, ancora senza fiato, e posò il libro sul comodino. “Ciao…” Anche la sua voce aveva un tono insolitamente tenero. “Avanti, siediti. Mettiti comodo” mi disse, facendomi cenno col braccio della sedia all’altro lato del letto.
Io annuii come un automa, avendo la sensazione che gran parte delle mie ansie derivate dall’ospedale si fossero ridotte ai minimi termini. Non udivo più quello snervante ronzio; i miei occhi, i miei pensieri erano pieni di Erwin fino a scoppiare. Avrei davvero voluto aprire la finestra e cantare qualcosa di gioioso e vecchio stile tipo Volare, non fossi la persona che sono.
“Non mi aspettavo che saresti venuto” mi disse mentre io mi sedevo.
“Neanche io” ammisi, in tono piatto, incrociando le gambe e mettendo un braccio dietro allo schienale della sedia. In un’altra situazione, Erwin mi avrebbe probabilmente fatto capire che ero seduto come un villano, magari roteando appena gli occhi nella mia direzione.
…Ah, no, come non detto. Lo fece per davvero, ma con il sorriso stampato sulle labbra era tutta un’altra cosa. Erwin, Erwin, non cambiavi mai. Coglione.
Per farlo ancora più contento, mi sedetti più storto. “Siamo soli..?”
“Sì, sì. Come stai?” mi chiese. Notai che la mano vicina al bordo del letto aveva scivolato un po’ verso di me, sulle coperte. Smisi di stare seduto come uno zotico e posai le dita sul dorso della sua mano.
“Come starai tu” gli feci notare, carezzando la pelle intorno alle nocche, per niente secca  come nella maggior parte degli uomini. Che gran cosa, il fatto che Erwin non disconoscesse la cura del corpo, che gran cosa…!
“Vivo e vegeto” mi rispose, allungandosi un po’ sul cuscino verso di me. Ebbi l’impressione che volesse mettersi sul fianco ma per qualche motivo non potesse farlo.
“E…?”
“L’operazione è-“ sbadigliò, coprendosi la bocca con la mano solo all’ultimo, “Andata molto bene.”
Restai a guardarlo. Cosa dovevo chiedergli? A me sarebbe piaciuto sapere quando lo avrebbero rilasciato, perché non avevo idea di quanto avrei retto lì dentro. Non pensavo che sarei riuscito a reggere tutto quello stress dal recarmi spesso in ospedale. Per un attimo, ebbi l’impressione di non volergli abbastanza bene, a quell’uomo sul lettino… Di solito chi è innamorato fa dei sacrifici, no? Avevo l’impressione che il concetto di ‘amore’ fosse una cosa troppo astratta da capire, per me.
Fortunamente, Erwin tornò a parlarmi, giusto il tempo di sbadigliare e stiracchiarsi. “È andato tutto come previsto, non c’è voluto molto. Adesso inizia il periodo di osservazione…”
“Quanto pensi che durerà?” gli chiesi. Mi sporsi un poco in avanti, trascinando la sedia con me. Eravamo soli nella stessa stanza, dopo un periodo breve, ma che a me era parso non finire mai e la sua malattia, per giunta, sembrava dargli finalmente la giusta tregua. Morivo dalla voglia di toccarlo, di stargli vicino… Di sentire, di tastare che Erwin fosse vero.  
Appoggiai le braccia incrociate sulle sue gambe e la guancia sulle braccia. Anche attraverso le coperte, potevo percepire il calore del suo corpo.
A quel punto, Erwin prese ad accarezzarmi il capo con calma e dolcezza, mentre mi rispondeva: “Il minimo sono due settimane…”
Due settimane… Cazzo. Fu una brutta notizia, ma la carezza contribuì a mandare giù quella schifosa pillola amara. Potevo stringere i denti e sopportare. Avrei aspettato tutto il tempo del mondo affinché avessi la certezza che Erwin stesse bene, che una fottuta malattia non si azzardasse a strapparmelo via.
Chiusi gli occhi, sospirando rilassato. Mi piaceva tanto quell’inaspettata coccola da parte sua. “È tanto tempo…” borbottai a bassa voce, “Vedi di guarire presto dalla tua boo-boo.”
Lo udii ridacchiare sommessamente. Prese a carezzarmi il capo in senso antiorario, strappandomi un altro sospiro lieve. “Sì, Levi. Lo farò.”
Strinsi le coperte e, credo, anche i suoi pantaloni del pigiama. Ti prego, Erwin, non te ne andare, almeno tu. In quel preciso momento della mia vita, sebbene non stessi facendo piani per il futuro con lui, mi bastava la certezza che lui fosse vivo e sano; iniziavo a sentire distintamente che lui avrebbe potuto anche non ricambiare i miei sentimenti, ma io sarei passato oltre, ci avrei letteralmente camminato sopra, mandato giù il rospo e tutto quel che volete perché tutto ciò che m’importava e ruotava intorno a lui era il desiderio che stesse bene.
Ogni cosa si fermò in quell’istante, in quella camera d’ospedale dove me ne stavo mezzo accucciato sulle gambe di una persona così importante per me che non esisteva paragone in grado di descrivere quel che sentissi. Gli carezzai piano la coscia, per ricambiare le sue mielose attenzioni. Prese addirittura a farmi i grattini sulla nuca e sulla rasata: Cristo, Erwin.
Quell’uomo era lontano dall’essere perfetto, perché aveva dei modi criptici, delle strane abitudini, uno strano senso estetico, una pettinatura di merda e delle sopracciglia troppo spesse… Ma per me era Erwin.
Aprii gli occhi per guardarlo: Erwin aveva reclinato la testa sul cuscino e si sarebbe detto che stesse sonnecchiando. Sapevo per certo che non era così, dato che mi stava accarezzando, ma ciò non mi fermò dall’importunarlo. Gli pizzicai la polpa della coscia. “Aoh. Svegliati.”
Lui grugnì e roteò gli occhi. “Non sto dormendo.”
“Sì.”
“No..”
“Stavi russando.”
“No, Levi, non è vero..”
“Sì” a quel punto, Erwin non mi rispose più: mi pizzicò l’orecchio, di cui io mi lagnai. “Non vale.”
“Non c’erano regole..!”
“Hmm-hm” feci spallucce e tornai giù comodo sulle sue gambe. C’era qualcos’altro che volevo chiedergli. “Senti, ma dove sono i fili, le flebo e il resto..?”
Erwin mi guardò con evidente sorpresa sul suo faccione, poi scosse piano il capo. “Se fossi in pericolo di vita o non fossi in grado di nutrirmi da solo, me li metterebbero…” Lo sapevo che ero fin troppo paranoico. E che non avevo idea di come funzionassero queste cose. D’altronde, non era un’operazione così grave, no?
“A proposito… Che ti hanno dato da mangiare ieri sera?”
“Pasta in bianco.”
“E stamattina?”
“Biscotti secchi e caffè.”
Storsi la bocca. “Schifo.”
“Palato fino..” mi disse con un po’ di scherno. Smise di carezzarmi i capelli per darmi un piccolo pizzicotto sul naso, a cui io risposi afferrandogli la mano e facendo finta di mordergliela. Lui rise piano, forse per non disturbare gli altri pazienti nelle stanze accanto, e la scosse. “Credevo di avere lasciato il gatto a casa tua. A proposito… Come sta Bobbo?”
“Bene” grugnii. Mi stiracchiai un attimo, puntellandomi con le braccia al materasso, poi mi rilassai e mi rimisi giù sulle sue cosce. “Gli manchi.”
“Come lo sai..?” Erwin mi guardava dritto negli occhi. Sì, era vero. A Bobbo mancava Erwin, ma non era il solo… Ed Erwin Smith lo aveva capito, c’era che da aspettarselo da lui. A volte gli ero grato per quel suo essere così spaventosamente intuitivo, non dovevo sempre spiegargli tutto per filo e segno, e poi… Mi dava una bella sensazione d’intimità. Di essere capito. Non so se mi spiego.
“Gliel’ho chiesto..”
“Allora digli” Erwin posò entrambe le mani ai lati del mio viso, “Che mi manca anche lui.”
Io annuii. Ricordate il ronzio di cui vi parlavo? Completamente sparito.
Mi feci avanti e lui si sporse verso di me. Lo baciai piano, mi ero completamente dimenticato dell’esistenza di una cosa chiamata ‘fretta’. Gli carezzai il viso che pizzicava di barba non fatta, mi dava un po’ fastidio, lo ammetto… Tuttavia, la voglia di baciarlo riusciva a superare tutto. Quando mi staccai dalle sue labbra tenni gli occhi chiusi, sfregai il naso con il suo. Iniziavo ad accorgermi che lo facevo davvero molto spesso, quando ci trovavamo  fiato nel fiato.
“Levi..”
“Hm?”
Erwin fece scorrere le mani dietro alla mia nuca e mi invitò a premere la fronte contro la sua. “Ti fidi di me?”
In verità, Erwin mi aveva fatto quella domanda tantissime volte nel corso degli anni: riuscivo quasi a riportare alla memoria ogni singola occasione. Più di tutte, mi era rimasta impressa la prima volta in cui me lo chiese, all’inizio della terapia e del percorso che mi avrebbe portato ad uscire da quel buco in cui ero.
Eravamo soli io e lui in una stanza quasi spoglia, con una pianta triste quanto me, una cartella davanti a lui e la luce delle persiane di plastica che tagliava in due la stanza, rivelando il pulviscolo che danzava nella luce del tardo pomeriggio. Io avevo ancora la rasata alta e quella striscia di capelli al centro del capo, e soprattutto gli occhi gonfi e stanchi. Avevo voglia di fumare. C’era ancora quel vago retrogusto in fondo alla bocca, un istinto senza corpo che dentro di me cercava di spingermi a cercare dell’altro. Avevo liberato il mio corpo da quelle sostanze, però il cervello… Il cervello era terra bruciata. 
Ma c’era ancora speranza. Erwin Smith sembrava essere convinto che fintanto che si era vivi, ci fosse speranza. All’epoca non gli credevo affatto. In più occasioni gli avevo dato dell’ottimista del cazzo, che mi doveva dire cosa c’era da lottare, che doveva andare a dire quelle cose alla gente senza un braccio o una gamba, che lo doveva dire ai genitori di Farlan e Isabel che la vita era tanto bella e c’erano tanti motivi per cui sorridere! Certo, il sole e il mare e gli uccellini erano proprio belli, quando tuo figlio è steso freddo in una cazzo di bara!
So di non averne parlato fino ad adesso. Di Isabel e Farlan, voglio dire. Il punto è che non mi piace ricordarli.. Mi sento responsabile, anzi, sono sicuro fin dentro le ossa di esserlo stato. Mi ricordo fin troppo bene quella sera: i Red Hot Chili Peppers in sottofondo (era Californication..? Era proprio Californication), la luce a incandescenza, il lavandino pieno d’acqua, la roba sistemata in ordine sul tavolo, Auruo che preparava le siringhe, Isabel dai capelli fucsia raccolti in due codini e Farlan l’ossigenato che aveva ancora la cartella con sé. L’aveva lasciata in un angolo dell’ingresso, c’erano ancora tutti i libri di scuola dentro. Isabel aveva portato con sé una bella borsetta di Gucci, tarocca come l’anima di Giuda. Avevo spento il cellulare perché Erwin, il nuovo assistente sociale a cui ero stato assegnato dato che il vecchio di merda di prima era andato in pensione, mi cercava. Noi quattro idioti avevamo deciso che saremmo andati tutti insieme in ospedale per la riabilitazione, saremmo diventati puliti: ci attendeva una nuova vita, non facevamo che ripeterci, disillusi come porci sulla soglia del mattatoio. Eravamo davvero intenzionati a chiudere con il passato. Avevamo deciso che quella sarebbe stata l’ultimo sparo in vena.
Per Farlan e Isabel lo fu davvero.
Fu la botta più pesante della mia vita, non ricordo decisamente un cazzo di quella sera, solo il risveglio sgradevole accanto a Farlan, freddo, e non perché si era addormentato sul pavimento. C’era caos per terra, qualche lattina vuota, la borsa rovesciata e qualcosa di viscido, di orrendo sulla strada verso il bagno: vomito. Isabel aveva arrancato in bagno vomitando ed era morta abbracciata alla tavoletta del cesso.
Il pianto disperato di Auruo mi aveva richiamato in salotto. Piangeva e smoccolava . Avrei avuto tutti i motivi per comportarmi a quel modo, ma non trovavo la forza di farlo. Riuscii soltanto ad abbandonarmi sul divano, schifoso straccio senza vita e senza scopo.
Il pensiero che sarebbe stata aperta un’inchiesta per tutto quel caos, e che sarei stato incriminato, e che due miei amici erano morti e che io, fino a quel momento incensurato, mi ero bruciato tutto, il cervello e il futuro, non sembrava sfiorarmi. Se ci ripenso ancora adesso, provo solo un gran senso di… Vuoto. Anche se ricordo i paramedici portare via rispettosamente Farlan e Isabel, no, non sento niente. Non voglio sentire niente.
Provai un odio fortissimo per Erwin, tanto che avrei voluto ucciderlo. Gli proiettai colpe che non aveva… Pensavo sempre che avrebbe potuto salvare tutti noi quattro, ma non ce l’aveva fatta con due di noi. Io gli avevo chiuso la porta in faccia: mi ci volle un’eternità per accettare che era stata solo colpa mia. Non so se mi basterà tutta la vita per essere in pace con me stesso, comunque.
Il periodo seguente a quello che era successo a Farlan e Isabel fu un vero e proprio caos, tanto che mi è difficile mettere in ordine tutte le memorie e i posti che ho visto, ospedale, stazione di Polizia e ospedale a parte. Fui costretto a vedermi spesso con medici e psichiatri; lo richiesi io stesso, non appena annusai nell’aria che dimostrare che avevo qualche problema era la soluzione migliore per non passare il resto della mia gioventù in galera. Sputai il nome della mia spacciatrice: se non potevo prendere a pugni il mondo, che almeno la giustizia si riprendesse tra le sue braccia una fogna di essere umano. In quelle settimane e in quei giorni, mi tornava in mente il corpo freddo di Farlan con la bava alla bocca e Isabel morta nel suo vomito, era tutto così sporco – non avevo mai provato una simile repulsione per la sporcizia prima di allora. Ve ne accorgete anche voi che non sono capace di tenere un filo logico e che questa spiegazione è un casino dall’inizio alla fine.
Alla fine venne il giorno che cambiò tutto.
Il processo c’era stato, fu spaventosamente breve – d’altronde, chiunque avrebbe voluto togliersi di torno due zecche come me e Auruo. Ma ecco che l’avvocato e Erwin avanzavano una proposta.
Eravamo solo io e lui, io ed Erwin, in quella stanza scura – sì, sono tornato sui miei passi. Mi guardava, gli occhi fissi nei miei, c’era qualcosa sul tavolo… Carte, o qualche altra cazzata, documenti. Non me ne sbatteva una mazza; feci solo caso al suo completo grigio scuro con la cravatta color perla che faceva davvero schifo e molto matrimonio cattolico, al suo pomo d’Adamo che sobbalzava troppo e allo sguardo che non smetteva di essere fisso.
“Levi, possiamo fare un patto.”
Avevo le braccia incrociate sul petto smagrito. “Hm?”
“L’affidamento ai servizi sociali e la mutazione della pena in servizio civile.”
Accettai. Non ero stato messo a spalle al muro, ora lo so bene, ma allora fu molto diverso. Era come se anche lui, che in linea del tutto teorica era lì per assistermi, si fosse rivoltato contro di me: cazzo, non mi ero fidato di lui fin dal primo giorno che l’avevo visto. Accettai per sfinimento e alla fine, sono qua: mutata la pena. Sia per me che per Auruo, finito a fare assistenza in un centro anziani, dove veniva scambiato per uno dei vecchi baccucchi.
Ci rivedemmo presto, io e Erwin, nel suo ufficio: aveva tutto pianificato. Sedute con gli psichiatri, terapie di farmaci, un lavoro assegnato, una casa popolare il cui affitto sarebbe stato per metà pagato dallo Stato. Che culo essere orfani, a volte. E soprattutto la sicurezza della sua assistenza giorno e notte (“Ma cerca di non chiamarmi troppo spesso dopo le due, capito? Ahah!”).
Mi chiese se mi fidassi di lui. Gli dissi di no. Mi aspettai delusione, e invece lui continuò a guardarmi negli occhi, dicendomi una cosa che ancora ricordo: “Ci lavoreremo insieme.”
Tornando a noi, nella stanza d’ospedale, sospirai sulle sue labbra. Sentivo che la sommità della salita era vicina, dopo tutti quegli anni in cui, sì, avevamo lavorato insieme e in cui c’era stato un piccolo, enorme incidente di percorso tra di noi.
Risposi a bruciapelo, non ci pensai nemmeno. La risposta era nero su bianco, nel mio cuore.
“Sì, Erwin.”
 
***
 
E così, passò qualche giorno. Giornate un po’ pigre in verità, scandite dal lavoro e da qualche telefonata a Erwin la sera… Mi dicevo che avrei potuto riprovare a tornare in ospedale, ma la sola idea mi teneva inchiodato al divano. Avevo fatto il pieno di ospedali per il prossimo mese!
Mi metteva un po’ a disagio in verità, non mi piaceva che Erwin pensasse che non lo volessi vedere o non m’interessasse sapere come stava. Al contrario. Mi svegliavo ogni mattina col gatto sulla pancia, chiedendomi come stesse il mio biondino e come avrebbe passato la giornata. Gli avrebbero fatto un drenaggio o una lastra (ma poi, chissà se le facevano le lastre ai malati di cancro)? Avrebbe mangiato di merda anche oggi? Si sarà portato il lavoro in ospedale? Lo lasceranno un po’ in pace almeno adesso che sta male?
Capirete che la telefonata serale era una festa, per me, anche se a volte non ci dicevamo granché. Mi bastava solo sentire la sua voce attraverso il cellulare. Mi piaceva pensare che fosse lo stesso per lui.
Erwin mi domandava come stesse Bobbo, se avesse cagato, pisciato e mangiato bene; e mi chiedeva come stessi io. Io, soprattutto: avevo mangiato bene? Lo sapeva che ingurgitavo davvero male, ma stavo facendo il possibile per rieducarmi a nutrirmi in maniera.. Umana? Stavo imparando l’esistenza della pasta all’olio, formaggio e pepe. Era un buon inizio, per uno che si riscaldava le cose in microonde o mangiava direttamente dalla scatoletta.
 L’unica cosa che non mi chiedeva mai era come procedessero le mie ‘indagini’ che, per inciso, non avevo abbandonato. Purtroppo non avevo trovato nessuna prova concreta che dimostrasse una colpevolezza di quei tre ragazzini inquietanti; avevo sospetti, ma non li avevo mai visti spacciare e non avevo idea di dove  nascondessero la loro roba, e soprattutto se la tenessero a scuola.
Ad ogni modo l’anno scolastico stava per finire, il che significava meno occasioni di stare col naso nel culo di quei tre: speravo che la situazione si sarebbe chiusa in fretta, a dire il vero. Ne avevo già abbastanza quel giorno al pensiero dell’Open Day, giornata in cui la scuola restava aperta al pubblico e in cui i ragazzi avevano il diritto all’autogestione per qualche ora. Si erano organizzati bene, per carità, con un piccolo concertino di tutte le micro-band di studenti stile guardate-come-siamo-fichi-un-giorno-saremo-famosi nel grande ingresso, tavolo del rinfresco, ragazzini che tenevano lezioni su cose che piacevano a loro nelle varie aule. No perché, era veramente interessante ascoltare una marmocchia abbardata che spiegava le bellezze del rock giapponese. Mi pareva inutile farci una lezione sopra, così come su tante altre cose, ma non erano affari miei – in un modo o nell’altro, avrei dovuto pulirle io quelle cazzo di aule. Era sufficiente che non ci facessero il porcile.
Erwin mi aveva sorpreso: la sera prima dell’Open Day, mi disse, testuali parole, “Levi, tieni d’occhio Eren, per favore.”
Avrei quasi annuito senza pensarci due volte, ma… “Eren?”
“Giusto. Non ti ho mai accennato che conosco suo padre. È il mio medico di base da.. parecchi anni.”
Sgranai gli occhi, fissando il gatto sul pavimento che saltava dietro ad una mosca. “Ah beh, buono a sapersi.”
“Conosco un po’ anche il figlio da quando era bambino.. Non vorrei che gli succedesse qualcosa di strano.”
Provai un brivido di disgusto. “Mi stai dicendo che devo stargli appresso e pulirgli la bavetta?”
Erwin rise dall’altra parte del telefono. “Tienilo d’occhio per me. Puoi farlo?”
Mi sciolsi sul divano sbuffando in silenzio, guardando verso il soffitto. Odiavo quel ragazzino. Ma non per qualcosa, per il semplice fatto che era un ragazzino e la mia stima non si riversa sui minori di anni venti. “Sì, lo farò..”
Una promessa fatta ad Erwin era una promessa da tenere in considerazione, per quanto mi scocciasse. Logicamente, non ero stato con il bavaglio appresso al guancino di Eren per pulirlo; mi sarei fatto orrore da solo. Mi limitavo ad osservarlo quando appariva ai lati del mio campo visivo: era sempre circondato dalla sua cricca di amichetti, a cui avevo notato essersi aggiunto Jean il cavallino omofobino. Non riuscivo a decifrare il suo comportamento (obiettivamente: non m’interessava) ma a naso, devo dire che oscillava tra il molesto e il lumacone.
Jean il cavallino omofobino aveva anche una band, tanto per la cronaca, e quel giorno si sarebbe esibito davanti agli occhi di tutta la scuola. Osservavo i ragazzi salire sul palco provando imbarazzo di seconda mano, forse per il loro aspetto generale o… non saprei, il nome? Possiamo prendere sul serio una band chiamata “I Budini Molli”?
E l’assortimento, poi. Sasha, Connie, Reiner, Marco e Jean. I ragazzi erano tutti vestiti in modi più o meno stravaganti, cercavano di fare i punkettoni ma non ci riuscivano: con Marco, quel Gesù lentigginoso della scuola, come cantante, poi… Jean, alla chitarra, si era fatto un ridicolo crestino e aveva messo qualche piercing finto, una canottiera e dei jeans strappati con delle scarpe da ginnastica giallo fluo. Quel toro di Reiner con un vecchio chiodo scolorito dava un minimo di credibilità all’aspetto generale, non fosse stato per i pantaloni rossi, nascosti (grazie a Dio) dietro a una batteria che a momenti non riusciva a contenere quell’armadio di ragazzino. Sasha, la seconda voce e basso, era salita sul palco masticando qualcosa –cominciamo bene- e Connie sembrava si fosse strafatto di acidi. Saltava da una parte all’altra come una scimmia.
Misi un ginocchio sopra alla cattedra vicino all’ingresso per sollevarmi e guardare meglio le teste dei presenti. Intravidi la chiomina marroncina di Eren di fianco a una capoccia bionda e una nera. Il mio bambino era al sicuro, contento, Erwin?
Mi rimisi giù girandomi i pollici in attesa. L’imbarazzo di seconda mano imperversava.
“Omino!”
…E se poi ci si aggiungeva quella folle dell’insegnante di scienze, seguita a ruota dal professore di disegno dal vero, era davvero una gran festa.
Le feci un cenno di saluto col capo, nella speranza che bastasse a farle intendere che avevo intenzione di ascoltare il “concerto” e zero voglia di parlare di Erwin con una sua amica. Per mia fortuna, anche lei si mise a sedere senza disturbare, dopo avermi dato una pacca leggera sulla spalla. Immaginai che sapesse qualcosa.
“Ciao a tutti, ragazzi!” era Marco a parlare nel microfono, con la stessa presenza scenica di un micetto appena partorito. “Quanti siete, oggi! Be’! Benvenuti al nostro concerto, è la nostra prima volta qui, noi siamo quelli della classe in piccionaia! Marco, il sottoscritto, Sasha, Connie, Reiner e Je-“
Jean rubò l’asta del microfono dalle mani di un incredulo cantante, mentre Connie si esibiva nelle prime note di un riff che faceva l’occhiolino a Smoke On The Water. “Taglia corto!” fece, ridendo carismatico, “E diamoci dentro!”
Il cavallino era una testa di cazzo, ma non c’era dubbio sul fatto che sapesse essere un leader – almeno, come frontman non sembrava cavarsela male. Affatto. Per farla breve, suonarono bene, cantarono bene. In effetti, come band di esordienti e pure scolaretti che facevano cover… Tanto di cappello, anche se avrei consigliato a Reiner di pestare un po’ meno su quella batteria. Era un tamburo, non un punching ball.
Mi costrinsi a perdere interesse per il concerto quando I Budini Molli scesero dal palco e vidi Eren andarsene via dall’ingresso, dietro ad un poco nervoso e circospetto Jean. L’idea di quei due da soli non mi piaceva per niente, soprattutto perché stavolta non avevo niente di schifoso da rovesciare sulle loro teste se li avessi beccati a farsi uno spinello. Per amore di Erwin e della promessa che gli avevo fatto, mi alzai e li seguii a distanza, portandomi appresso il carrello degli attrezzi per pulire.
Non volendo dare troppo nell’occhio, presi il mio scopettone e ci diedi di forza nel corridoio vuoto verso il quale li avevo visti scomparire. Da lì in poi c’erano solo aule, aule su aule, e lo sgabuzzino delle scope. Ignoravo dove si fossero nascosti, quei maledetti ragazzini. Aprii ogni aula lungo il tragitto ma di quei due cretini, nessuna traccia, solo stanze vuote (e da pulire, ugh).
Alla fine del corridoio restava solo lo sgabuzzino. Trascinai il carrello con me, un passo alla volta dato che quelle fottute ruotine cigolavano come il trono di Satana, e mi fermai di fronte alla porta.
Annusai l’aria e non sentii niente, ma probabilmente sarebbe scattato prima il sistema antincendio delle mie narici umane. Anche ascoltando non riuscivo a captare niente, non una parola o qualche oggetto spostato. Ma che minchia stavano a fare, lì dentro?
Ancora con lo scopettone in mano, aprii la porta e vi giuro sul Dio in cui non credo, su quanto è vero che Erwin Smith ha un bel culo, che avrei voluto letteralmente scomparire.
Sinceramente, avrei preferito vederli rollare cannoni e preparare bustine di maria, piuttosto che avere una visione in primo piano delle loro lingue adolescenti attorcigliate e spinte in fondo alla gola e le mani strette ad ogni superficie afferrabile dalla vita in su e in generale, tutto questo in uno sgabuzzino semibuio e sporco.
Restai a fissarli senza un’espressione, li fissai e basta per quel nanosecondo che precedeva il loro staccarsi l’uno dall’altro come due criminali. Mi guardarono. Si guardarono. Il secondo dopo, Jean sbatteva Eren da una parte senza curarsi di lui e mi sorpassava rosso in faccia come un pomodoro maturo, correndo via. Non mi sprecai neanche a dirgli che il pavimento era bagnato e poteva scivolare. Si spezzasse pure l’osso del collo.
A quel punto restavamo solo io ed Eren a fissarci con estremo imbarazzo da parte sua, schifo e desolazione totale da parte mia. Il ragazzino si sistemò nervosamente i vestiti e i capelli, rosso come l’amico (?), con gli occhi lucidi e incazzati mentre farfugliava scuse. “Mi scusi, signore… non sono stato io a portarlo qui, è stato l’idiota,  voleva parlarmi di qualcosa… e poi mi è saltato addosso” Eren guardava dritto verso di me, con un’espressione a metà tra l’arrabbiato e il confuso.
 Non avevo bisogno di una telecamera per immaginare che Eren stesse dicendo il vero; quella faccina d’angelo ingenua poteva mai inventarsi una balla assurda come quella? Mi sembrava che passato lo sconvolgimento iniziale fosse riuscito comunque a godersi l’attimo, comunque.
“Esci, va’” feci cenno al ragazzino di spostarsi con lo scopettone, “Ho delle cose da mettere via”.
Eren obbedì e rimase fermo sulla porta intanto che io trascinavo il carrello nel punto in cui si trovavano prima loro due. “Che macello…” borbottai dietro al mucchio di secchi, panni e altre cose che Eren, spinto da Jean, aveva rovesciato.
“Scusi, signore.. Vuole una mano?”
Dal buio del mio angoletto, gli feci gesto di lasciare perdere. “Lascia stare. Solo una cosa” cacciai la testa fuori dallo sgabuzzino. Ew, ebbi di nuovo un flash di quelle due anguille spinte in due bocche diverse – mi sentii un pedofilo ad avere assistito a quella scena carica di ormoni e tensione sessuale.  “La prossima volta che dovete limonare, andate a farlo nella soffitta di disegno dal vero, che è abbandonata e non ci va mai nessuno. A parte i topi.”
Eren annuì, ancora arrabbiato e confuso, pensai più perché non avesse idea di cosa dire che altro. Il giovanotto stava per andarsene ed io tornare alle mie cose, quando mi sorprese dicendo poche ma semplici parole.
“Mi dispiace per il signor Erwin…” disse a mezza voce, appena incerto, “Spero che si rimetta presto.”
Sì, devo ammettere che l’idea che quel marmocchio sapesse le mie faccende private mi dava prepotentemente al cazzo. Avrei potuto telefonare a Erwin e dirgli di non spifferare gli affari miei in giro, se fossi stato uno stronzo fino all’ultimo goccio di midollo. Ma d’altronde.. Cosa mi cambiava? Che Eren fosse a conoscenza di me e Erwin come ‘coppia’ non rendeva le cose diverse.
E devo ammettere che non mi diede poi così fastidio, passata la botta iniziale. Era stato sincero, persino educato e gentile: da quanti ci si poteva aspettare un gesto così genuino, in questo mondo di bastardi a due gambe?
Rilassai appena le spalle. “Grazie.” Mai mi sarei sognato di dirlo alla mia palla di rabbia preferita, eppure eccomi qui, a trovare un angolo di conforto dove meno me lo sarei aspettato. Potevo immaginare che prima o poi la professoressa Hanji l’avrebbe saputo, ma il fatto che Eren avesse una vaga idea, o la sensibilità giusta di dire qualcosa… Mi lasciò onestamente sbalordito.
Eren tirò le labbra in un sorriso e se ne andò, soddisfatto.
“Non da quella parte, è bagnato!” gli urlai dietro.
Il ragazzino passò davanti alla porta aperta del ripostiglio grattandosi la nuca. “Ha proprio ragione! Mi scusi.”
Che spettacolo ‘sti bimbetti…
Roteai gli occhi e finii di sistemare il ripostiglio sotto sopra. Ora c’era solo da sperare che non li beccassi a limonare selvaggiamente, il cavallino e Eren, nella soffitta abbandonata; sempre che quello non fosse stato un gesto dettato da chissà quale impulsività e non fosse finito lì. A me fregava un cazzo, ma se li avessi visti un’altra volta mi sarei cavato le palle degli occhi con un cucchiaio. Contenti loro a baciarsi in quell’antro polveroso e dimenticato…
Alzai la testa di scatto nel chiudere la porta, colpito da un’illuminazione improvvisa, no, che dico, una scottatura.
Quella maledetta soffitta. Come cazzo avevo fatto a non pensarci prima?
 
 
   
 
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