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Autore: Francine    22/05/2014    3 recensioni
D aveva ragione: non avrebbe mai dovuto accettare di partecipare ad una cena di classe.
E mentre attende il taxi sotto i platani di Monteverde, AJ fa un incontro inaspettato. Da un'automobile di passaggio salta fuori Kanon Anethakis, manager di un gruppo rock e suo ex compagno di banco del liceo. Che ha un disperato bisogno di una persona come lei.
AJ non ha mai creduto al destino.
Kanon, invece, sì...
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Cancer DeathMask, Gemini Kanon, Gemini Saga, Nuovo Personaggio
Note: AU, Lime, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Caleidoscopio'
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1.


 

 
I compagni di scuola sono i primi che aggiungiamo ed i primi che cancelliamo dalla nostra lista di conoscenze sui social network. Non c’è bisogno di un sondaggio dell’Eurispes per capire una verità così lapalissiana, così come non serve essere un astrofisico per sapere che le cene di classe sono un supplizio che si farebbe bene ad evitare.
Avere a che fare coi vecchi compagni di scuola ci infonde sicurezza. Pensiamo che, magari, Vanessa o Gabriella siano cambiate, e che, crescendo, abbiano perso la spocchia della prima della classe o l’arroganza della più bella della scuola. Perché c’è del buono in ognuno di noi, no? E la favoletta del lupo crudele che si ravvede e diventa vegetariano piace a tutti. È intrisa di quel buonismo da Cuore che fa tanto Italietta da due camere e cucina. Ed è così che si resta invischiate in una trappola micidiale. Perché il lupo perde il pelo. Ma non il vizio.
E ricordare il professore di matematica che diceva «Ichese, Ipisilon e Zeda», o la professoressa di latino e greco che entrava in aula armata di microfono, è simpatico. Fa cameratismo. Fino a quando non scatta l’invito, temuto e un po’ sperato. Perché la speranza è quella di declinare con un: «No, grazie. Ho da fare», millantando una vita sociale inesistente, nella realtà, ma a cui gli altri potrebbero credere. Perché snobbare chi una volta ci snobbava è un sentimento meschino ed indegno, ma fa parte di noi. È una piccola rivincita che ci prendiamo nei confronti di un passato antipatico da sopportare, che prova a riaffacciarsi nella nostra vita. E che ne resterebbe fuori, se solo noi avessimo il buonsenso di tenere chiusa la porta.
«Perché non organizziamo una cena di classe come ai bei vecchi tempi?», è dunque la domanda che prima o poi scatta quando si incontrano i vecchi compagni di scuola.
La proposta può provenire da due tipologie di persone: l’ex figo della classe, che ha mantenuto la sua allure da capobanda a distanza di dieci anni; oppure l’ex bruttina, che continua ad essere sgraziata, ma che è diventata popolare in qualche modo misterioso – «Aprendo le gambe», secondo D – e che adesso «Fa le fotocopie per un'agenzia di eventi», sempre a detta di D.
Nel suo caso, l’invito le era stato esteso in automatico da Isabella, perché lei aveva avuto il buonsenso di non iscriversi col proprio nome di battesimo – «Ma sei stata tanto stupida da dare il tuo pseudonimo a quell’idiota di Isabella», come le avrebbe detto D se fosse stato accanto a lei; Isabella che l’aveva convinta, non rammentava neppure lei come, ad accompagnarla alla festa al Gatto Mammone.
«Non vuole andarci da sola. Le serve il cagnolino, a quella», l’aveva avvisata D, ma lei non gli aveva voluto dare retta. Perché Isabella era sua amica. Avevano frequentato liceo ed università assieme. Isabella era una sua grande amica.
«Una grande amica che si è ricordata di te dopo che Pamela l’ha allegramente mandata a ‘fanculo. Sei anni fa», aveva obbiettato D, una sigaretta tra le dita e l’accendino a portata di mano. Era stato inutile protestare che a casa sua non si fuma. Se l’era accesa, aveva aspirato una boccata generosa e poi l’aveva rilasciata in aria.  «Quella ha bisogno di avere una spalla. Sennò non può brillare. Da sola non vale una cicca bucata, e prima te ne accorgerai, meglio sarà. Per te.»
D aveva insistito che non partecipasse a quella cena, perché, in fondo, lei non è che avesse avuto coi suoi compagni di scuola quella relazione profonda e solidale che raccontavano i telefilm nei pomeriggi estivi, tra le avventura del delfino intelligente e le vicende della scimmia detective.
La sua classe, come quella di tutte le scuole superiori d’Italia, era formata da gruppi, gruppetti e gruppuscoli, pronti gli uni a pugnalare alle spalle gli altri appena se ne fosse presentata l’occasione. E, come tutte le altre classi d’Italia, erano esplosi come una granata dopo la maturità. Solo Isabella le era rimasta vicino - «Ti si è accozzata, semmai», l’aveva corretta D – ma dov’era adesso Isabella?
A ridere e scherzare all’altro capo del tavolo, lontana da lei e dalla sua timidezza cronica. Si era fatta scarrozzare e l’aveva mollata non appena aveva riconosciuto Alessandro, capoclasse e suo amore impossibile che in cinque anni non l’aveva mai degnata di uno sguardo - «Seee, quello è uno che pretende donne di ben altro passo», avrebbe detto D.
E dopo una serata passata a farsi riconoscere dagli altri, AJ era uscita a prendere una boccata d’aria. L’aveva detto a Picollo, il secchione storico col viso deturpato dall’acne, il quale aveva annuito. E le aveva risposto:«Ottima idea. Mi sa che userò la tua stessa scusa per tagliare la corda.».
Che tristezza, pensava AJ mentre si godeva il fresco del giardino del Gatto Mammone. La musica arrivava anche dietro la palma dove aveva trovato rifugio su una sdraio sopravvissuta agli anni ’60. Si era allentata i cinturini dei sandali col tacco alto –perché secondo Isabella i sandali rasoterra erano sciatti, e presentarsi ad una cena di classe in modo sciatto era impensabile – ma adesso se ne stava pentendo. Di avere slacciato i cinturini, di essere andata alla cena e di aver dato retta a Isabella negli ultimi sei anni. E un pensiero – malvagio, viscido e subdolo – si stava facendo strada in lei. Eclissarsi. Sparire. Prendere l’auto e tornarsene a casa. Senza problemi.
Isabella non avrebbe avuto difficoltà a rimediare un passaggio da qualcuno. O a chiamare un taxi. E la società di organizzazione di eventi per cui lavorava le avrebbe rimborsato la corsa, così come avrebbe giustificato la cena, il vestito nuovo, le scarpe e la sosta dal parrucchiere – «Dal gommista», per dirla con D – come spese di rappresentanza.
AJ si alzò dalla sdraio. Lasciò i cinturini liberi e ciabattando nei sandali e nell’erba alta, guadagnò la strada del guardaroba.
Fossi stata fiQua, avrei camminato  a testa alta, a piedi nudi, infischiandomene del mondo, pensò, con una punta di rammarico.
Sapeva di non poter contare su un fisico leggiadro come le ragazze che sfilavano per il suo datore di lavoro – ex, da domani in poi, nei secoli dei secoli, amen – e come la biondina che le aveva scippato Tommaso ad un passo dall’altare.
«Che ci troverà in quella lì», le aveva detto D per consolarla. «No, dico. Guardala. Avrà qualche anno meno di te, ok, ma ha la faccia messa assieme con la sparachiodi e quei capelli… Gesù, pare mia nonna! Dovrebbe fare causa al suo parrucchiere. Assomiglia ad uno yorkshire, non trovi?», aveva aggiunto, strappandole una risata. Solo che lo Yorkshire, adesso, se ne stava abbracciata a Tommaso nella casetta che loro due avevano messo su assieme, pezzo dopo pezzo, mentre lei arrancava tra gente che la spintonava e rideva. Ragazzini che festeggiavano la fine della scuola, universitari e matricole con il cocktail facile, signore appena uscite dal circolo del bridge e adulti che giocavano a rinverdire i fasti del liceo. Un’accozzaglia eterogenea di persone che ordinava pizza, ostriche e bistecche mentre camerieri vestiti di nero sfilavano veloci tra i tavoli.
«Numero ottantratré», disse alla guardarobiera.
«Il biglietto?», chiese la ragazza, con un colore delle iridi improbabile.
E ad AJ tornò in mente una scena. Piccola, rapida e quasi cancellata dalla memoria. Lei e Isabella, al guardaroba, mentre lasciano le loro giacche. E Isabella che prende i talloncini e li mette nella sua pochette finto Prada dicendole: «Li tengo io. Tu sei così distratta….».
«Torno subito», disse e sfrecciò in direzione della tavolata, la borsetta stretta al petto e l’andatura claudicante. I suoi ex compagni di classe erano ancora lì, a dividersi dei soldi. Il conto della serata, forse.
«Isabella?», chiese ad una biondona dai capelli cotonati. Non rammentava chi potesse essere, se Jessica, Barbara o Valentina. Non si era presa la briga di presentarsi e AJ aveva fatto lo stesso.
«Isabella?», chiese la ragazza. Scandalizzata quasi. «Chi diamine sarebbe, scusa?»
«Cipolla», rispose. Magari il cognome di Isabella avrebbe fornito un indizio in più a quell’oca ossigenata.
«Ah! », disse l’altra. Qualcosa si era acceso nel suo sguardo, il baluginio di un fusibile fulminato. Qualcosa di poco piacevole. « La Cozza!»
La Cozza?
«
Ragazzi, che fine ha fatto la Cozza?», chiese la bionda al resto della tavolata.
«Se n’è andata sottobraccio a Marzotta», rispose una ragazza dai capelli liscissimi e nerissimi che stava raccogliendo i soldi. Irene, forse. O forse anche no.
«Come, se n’è andata?»
La ragazza annuì. «Si è alzata, gli si è gettata addosso e sono andati via assieme. Ma stai tranquilla», le disse. «Marzotta è gay. Purtroppo per la tua amica.»
«Ma lei aveva il mio tagliando del guardaroba! Le chiavi della macchina sono nella mia giacca!», protestò AJ. Come se questo avesse potuto aiutarla. Come se loro avessero potuto aiutarla.
La ragazza dai capelli neri si strinse nelle spalle. Non è un problema mio, tesoro, sembrava suggerirle il suo sguardo da rapace. Si voltò verso gli altri e disse: «Avanti, signori. Pagare!», facendo un cenno con la mano perché aprissero i portafogli.
AJ aprì la borsetta. «Quant’è a testa?»
«Hai scommesso anche tu?», le chiese la biondona, sventagliando le ciglia perplessa.
«Scommesso?»
«Che la Cozza sarebbe saltata addosso a Marzotta entro la serata», le rispose lei, come se le stesse spiegando l’ovvio. «Non aspettava altro, credimi.»
«E tu come lo sai?» AJ non avrebbe voluto porle quella domanda, eppure lo fece. Pentendosene subito dopo.
«Ma dove vivi?», le chiese la ragazza. «Non fa che lanciargli messaggi e messaggini. Appena lui scrive la minima scemenza lei è lì. A mettere mi piace. Anche se lui posta la foto di un sampietrino. Pare un falco, pare. E la cosa è davvero imbarazzante…»
«Forse le manca l’esprienza col gay», disse, acida, la ragazza coi capelli neri. «Peccato che Marzotta non abbia un così cattivo gusto…»
«Forse spera di poter passare per un maschio… al buio… hai visto mai?», suggerì un’altra ragazza, un rossetto rosso fuoco sulle labbra arricciate all’insù.
«Giorgia, le manca qualcosina, lì sotto», ghignò Alessandro.
«Sicuro?», gli domandò Giorgia.
«Sicuro, sicuro. È una femmina. Bruttina, ma femmina», chiosò lui. «E se non credi a me, domanda pure a Mambelli, Gigliotta e Pompa.»
AJ sbiancò. «Scusate. Stiamo parlando di Isabella Cipolla?», chiese.
«Sì.» AJ riconobbe lo sguardo duro di Irene negli occhi della ragazza dai capelli nerissimi e liscissimi. «Lei. Non dirmi che non ti sei mai accorta che si è fatta mezza scuola, mentre l’altra metà la chiamava “La Svuotapalle”, perché non ci credo.»
AJ sbatté le ciglia.
Poi un ragazzo si avvicinò a Irene, lamentandosi del fatto che scommettere sulla Cozza – al secolo Isabella Cipolla – era stato come sparare sulla Croce Rossa, perché sarebbe sicuramente saltata addosso a qualcuno di loro.
«Avremmo dovuto scommettere se fosse saltata addosso ad una di voi, semmai. Quello sì che sarebbe stato un bel diversivo», commentò. Poi fissò AJ. «Mi ci avete fatto sperare, sai?»
«Prego?»
«L’ha detto la Cozza. Dice che tu sei… come dire… dell’altra sponda. Dice che non sei interessata a noi maschietti. O sbaglio?»
«Antonio, ma tu credi davvero a tutte le cazzate che spara la Cozza?», gli domandò Giorgia, ridendo.
«Assolutamente no», si giustificò lui. «Ma una volta in vita sua dovrà pur dire la verità, no?»
«Maschi», disse Irene, la mani sui fianchi e un sorriso accomodante. «La verità non è interessante.»  Si voltò per dire qualcosa a AJ, ma la ragazza non c’era più.
 
 
Stronza, stronza, stronza, stronza…
Passeggiare sui sampietrini non è piacevole.
Passeggiare per i marciapiedi di Monteverde, schivando le radici dei pini e le merde dei cani, lo è ancor meno.
Passeggiare con i piedi doloranti e l’umore sotto i tacchi è il peggio del peggio che possa capitare, l’epilogo perfetto ad una serata disastrosa.
AJ marciava verso la fine del viale di platani. Sulla Circonvallazione Gianicolense avrebbe chiamato un taxi e sarebbe tornata a casa. L’indomani avrebbe provveduto a svegliare Isabella, a farsi dare il proprio bigliettino, pregando che non l’avesse gettato chissà dove, e a mandarla definitivamente al diavolo, senza prima essersi tolta qualche sassolino dalle scarpe. D l’avrebbe presa a vita per i fondelli, ma amen. Aveva visto chi era Isabella per davvero. Meglio tardi che mai, pensò. Barcollando. E la fine del viale era ancora lontana.
Si accorse che era stato sciocco allontanarsi dal Gatto Mammone senza aver prima chiamato un taxi, ma non voleva farsi vedere dai suoi ex compagni di classe. Non dopo la figuraccia che aveva rimediato grazie a Isabella. Così si era incamminata, senza mettere in conto che i suoi piedi non avevano la benché minima intenzione di sopportare ancora quei tacchi. E un sandalo slacciato era quanto di più vicino ad un suicidio si potesse concepire.
Demotivata, si arrese. Aprì la borsetta e tirò fuori il cellulare. Compose il numero del servizio taxi della Capitale, ne riservò uno, si segnò a mente la sigla della vettura – «Atene 27 in dieci minuti» – e attese. Si appoggiò al muro di cinta di un villa abbandonata, e per la prima volta in vita sua si dispiacque di non aver mai iniziato a fumare. Avrebbe avuto un modo per impiegare quei dieci minuti senza sembrare una povera fessa piantata in asso.
Pazienza, si disse. Avrebbe sempre potuto imparare domani. D le avrebbe dato una mano. D non vedeva l’ora di darle una mano, in quel senso. Sospirò, gli occhi alle fronde verdi dei platani, sperando di non sembrare una povera sciocca, un’ubriaca o tutte e due le cose assieme.
«AJ?»
Trasalì. Abbassò lo sguardo e vide una vettura, davanti a sé. Una Fiat 500 nuovo modello, color blu notte e motori Abarth, come da glifo con lo scorpione sui cerchioni e sul bagagliaio.
Non esistono taxi del genere, si disse.
C’era un uomo, all’interno. Un uomo con un sorriso da pubblicità, di quelli che abbagliano anche al buio, e gli occhi blu. Spense il motore e scese. Era alto. Aveva i capelli lunghi e azzurri, che ricadevano come un mare oltre la giacca candida, le maniche arrotolate a rivelare una fodera rossa. Si avvicinò a lei e le sorrise.
«Ciao, AJ.»
AJ sbatté le palpebre perplessa.
«Se è un altro scherzo atroce di Isabella, io…»
«Chi?», domandò l’uomo, la mani sui fianchi e l’espressione pensierosa. «AJ, sono io. Kanon. Non ti ricordi di me?»
Per AJ fu come una doccia fredda. Quello era Kanon? Lo scavezzacollo  che finiva sempre in presidenza per qualche alzata d’ingegno trascinandosi dietro anche il gemello perché i professori non riuscivano a distinguerli?
«Kanon?», ripeté. Lui allargò le braccia e lei riconobbe nel suo sguardo quello del suo compagno di banco.
Il ripetente cronico.
Quello che era stato ammesso a maggioranza alla maturità e che avevano mandato via con un sonoro calcio nel sedere ed un trentasei stiracchiato.
La fotocopia di Saga, il suo primo, grande ed infelice amore. Ovviamente, non corrisposto.
«Kanon!», esclamò, facendo un passo avanti.
«In carne ed ossa», rispose lui, abbracciandola.
«Ma che ci fai qui?», gli chiese. «La cena di classe è finita, oramai.»
«La cena di classe?» Lui la guardò come se le fossero spuntate le ali sulla schiena. Ali nere. Da drago. Enormi. «Quale cena di classe?»
«Non sei stato invitato anche tu da Isabella?»
Kanon aggrottò le sopracciglia.
«Non sei anche tu sul social network?»
«Io?!», le chiese. «Fossi matto! Nemmeno morto.»
«No?»
«No. Amo la mia privacy. E credimi, il vero figo è chi non ci sta, sul social network.»
Non è sbagliato, pensò AJ. «Allora, che ci fai da queste parti?»
«Stavo cercando un posto per fare inversione. Avevo un appuntamento con un amico al Gatto Mammone, per bere una cosa nel privé, ma mi ha appena mandato un sms. Mi da buca.»
«Ah.» Dì qualcosa di intelligente, si intimò AJ. «Mi dispiace.»
Kanon scosse la testa. «La moglie soffre di nausee, poverina», le spiegò. «Incidenti del mestiere. Tu che facevi, per strada?»
Aj mise su un’espressione imbarazzata. «Stavo tornando a casa. Una… persona s’è portata via il mio bigliettino del guardaroba e le chiavi della mia macchina sono dentro la giacca. Ho chiamato un taxi.»
Kanon ci pensò su.
«Sai che credo nel destino?»
Lo disse con un fare così solenne che sarebbe stato perfetto in bocca al protagonista maschile di una qualche soap opera.
«E non ho ancora cenato. Quindi, che ne diresti se tu ed io ce ne andassimo a chiacchierare in un posto meno incasinato del Gatto Mammone
«Ma…»
«Tranquilla. Conosco il proprietario del Gatto Mammone. Se ricordi il numero della tua giacca, posso farti riavere la tua auto stasera stessa. »
«Andiamoci adesso!», gli propose AJ. Così, se la serata dovesse girare male, potrei sempre tornarmene a casa, pensò.
«No, adesso no. Non voglio rischiare di incontrare gli altri. Non me li toglierei più dai piedi…»
«Non capisco…»
Kanon sorrise, un ghigno da malandrino che tirava fuori quando ne pensava una delle sue. E AJ sapeva che quando quella smorfia compariva sul suo volto, era impossibile fargli cambiare idea. «Vieni con me, e ti spiegherò tutto», le disse.
«Tutto, tutto, tutto?», chiese lei?
«Tutto, tutto, tutto», rispose lui.
 
Egisto era ancora aperto.
La sora Bice se ne stava alla cassa, mentre il marito, sbuffando, se ne era tornato in cucina dopo averli visti entrare.
«Solo perché sei te, regazzì», aveva biascicato il sor Egisto.
Kanon aveva sorriso e l’aveva fatta accomodare in quel locale rustico, d’altri tempi, con i bicchieri spaiati, i coltelli con l’impugnatura di plastica marrone scuro e la tovaglia di carta a quadretti bianchi e blu. Avevano ordinato due porzioni di petto di pollo panato e le patate del sor Egisto. «Un classico senza tempo», le aveva garantito Kanon. Ed era stato di parola.
Lei gli aveva fatto compagnia volentieri, perché alla cena le si era chiuso lo stomaco e non si era goduta una pizza che prometteva di essere spettacolare. E fra un boccone e un altro, e un bel vinello bianco, aspro e sincero, si erano aggiornati l’uno sulla vita dell’altra.
La laurea in Economia di lei e i tentativi di sfondare nella musica di lui.
La storia di Tommaso, e il fantasma di Elena.
I continui rimbrotti di D, che era rimasto uguale a se stesso,  e le manie di perfezionismo di Saga.
Il suo ex datore di lavoro che non le aveva rinnovato il contratto a progetto perché aveva oltrepassato l’età che garantiva alla ditta degli sgravi fiscali, e le grane che la loro ultima road manager aveva procurato non riuscendo a garantire una sistemazione di tre notti nello stesso albergo per meno di dieci persone.
«E questo è tutto», disse AJ addentando l’ennesima ciambellina al vino. La romanella del sor Egisto scendeva nella gola che era un piacere. Qualcosa per cui non si sarebbe mai dovuto smettere.
«Certo che ce ne sono successe di cose, eh?», commentò lui, e lei non si sentì più così stupida per aver avuto lo stesso, identico pensiero.
«La vita ti chiama, e tu puoi solo rispondere», ribatté lei.
«Quanta, quanta saggezza!» Kanon alzò il bicchiere, in un brindisi immaginario e bevve.
«Già.»
Erano arrivati a quel momento imbarazzante, quello dei saluti. Si era fatto davvero tardi, e lei doveva ancora tornare a Monteverde, riprendere la sua auto e incamminarsi dall’altra parte di Roma. E non credo di essere abbastanza lucida per guidare, si disse dando uno sguardo veloce all’orologio.
«Si è fatto tardi, Cenerentola?», la sfotté lui.
«Un po’», ammise lei. «E devo ancora tornare a prendere la macchina…»
«Giusto», disse Kanon. Controllò l’ora, fece un smorfia e poi le disse:«Dove abiti?».
«Nuovo Salario», rispose lei. In realtà, la zona dove sorgeva il palazzo in cui si era trasferita dopo la dipartita della nonna, era e sarebbe rimasta Fidene, ma dire «Nuovo Salario» sembrava più chic del nominare una borgata poco distante, costruita sopra uno stadio crollato nel 70 dopo Cristo, o giù di lì.
«Capisco.» Kanon tirò fuori il cellulare. «Senti», le disse brandendolo come se fosse stato il martelletto di un giudice, «siamo tutti e due troppo ciucchi per metterci alla guida. E se dovessero fermarci, sarebbe un problema. Un grosso problema. Facciamo così…» Si ravviò i capelli all’indietro. «Io adesso telefono al proprietario del Gatto Mammone. Te lo passo. Tu gli dai gli estremi dalle tua automobile e il numero della tua giacca al guardaroba. Poi chiamo un taxi, ad entrambi. La tua corsa la pago io. E domani pomeriggio, con tutta calma, ci vediamo al Gatto Mammone. Così tu riprendi la tua macchinina. E io ti chiedo una cosa.»
«Cosa?», domandò lei.
«Domani, non adesso. Prima devo parlarne con Saga. E devo parlargliene a mente fresca.» Kanon bevve dell’acqua. «Ci stai?»
Le porse la mano, come ai vecchi tempi.
In quel momento, squillò il telefono.
«Scusami», gli disse. «Pronto?»
«Dove cazzo sei finita?!»
Era Isabella. Dal tono di voce aveva bevuto parecchio. O era parecchio incazzata. O tutte e due le cose assieme.
«Dove sei finita tu, piuttosto!» AJ mise una mano sul microfono del telefono. «Chiama quel tuo amico», sussurrò a Kanon. Le porse una penna e lei scrisse gli estremi della sua vettura sulla tovaglia, mentre Isabella berciava.
«Ma si fa così? Ma si lasciano le amiche per strada?»
«Isabella te ne sei andata tu, senza dirmi nulla. Cosa vuoi da me?»
«Vienimi a riprendere!», la sentì gridare. «Io come ci torno a Montesacro?»
«Isabella tu abiti al Tufello, non a Montesacro.» Lo disse come se stesse discutendo con un agente immobiliare disonesto. «E poi io sono a casa. Non pretenderai davvero che mi rivesta e…»
«Bugiarda.» Il tono di Isabella era viscido e acido. «Sono davanti alla tua automobilina. Lei è qui. E tu sei altrove, a spassartela! Ti hanno visto salire a bordo di un’auto con un figo da paura! Ma deve essere una mezza calzetta se tu sei qui a rispondere al telefono, invece che…»
«Se succede qualcosa alla mia automobile, sono cazzi tuoi», le rispose, stupendo se stessa per prima. «Chiamati un taxi.» E attaccò.
Kanon la stava osservando. Compiaciuto. «In vino, veritas», commentò, braccia conserte. «Antonio? Sono Kanon. Dovresti farmi un piacere…»
 
Alle quattordici del giorno dopo, un mite sabato di metà Maggio, AJ scese dall’automobile di D. La sua Opel Corsa era stata spostata nel parcheggio interno del ristorante. Intonsa. Isabella non aveva trovato il modo di nuocerle. Non ancora. Per il momento si era limitata a bloccarla, e a spargere chissà quanto veleno sul suo conto, ma conoscendo quello che la gente pensava alle spalle di Isabella, AJ non se ne diede pena.
«Che posticino da fighetti», commentò D, scendendo dalla vettura ed inforcando gli occhiali da sole. «Almeno, si mangia bene?»
Aj si strinse nelle spalle.
«Perfetto.»
D aveva insistito per accompagnarla. Felice che la sorella avesse mandato a cagare – parole sue – quell’ipocrita di Isabella, voleva vederci chiaro. Non gli era mai andato a genio Kanon. C’era qualcosa di poco chiaro in quella faccia d’angelo.  Qualcosa che strideva con la bontà che AJ diceva di vedere in lui. Non che si fosse esibito in chissà quali nefandezze – aveva allagato la scuola per saltare il compito di fisica, aveva rovesciato nidiate di bigattini nei bagni per far prolungare le vacanze estive, aveva rotto un paio di vetri giocando a pallone in cortile, era stato beccato a fumarsi un paio di canne – ma erano bastate perché fosse incolpato di qualsiasi cosa succedesse. E seguendo l’adagio vox populi, vox Dei, a D andava poco a genio il fatto che Kanon fosse rientrato nella vita della sorella.
«Entriamo», disse AJ. Si diresse verso l’ingresso a passo deciso. Si trovava a suo agio coi sandali bassi, i pantaloni Capri e una camicetta senza maniche. Le davano un’aria professionale, informale, da sabato mattina. D, che aveva deciso di non smentirsi nemmeno in quell’occasione, aveva indossato una giacca bianca sopra un paio di jeans sfrangiati ed attillatissimi. Una maglietta dei Guns’n’Roses e gli intramontabili anfibi neri completavano il suo abbigliamento.
Dentro il locale c’erano alcuni camerieri che si stavano occupando di sistemare la sala per la sera. Un ragazzetto, secco e allampanato, si avvicinò a loro.
«Scusate, serve aiuto?», chiese, gli occhiali quadrati sul naso e i capelli cortissimi. «Il locale è ancora chiuso.»
«Ho un appuntamento. Con Kanon», disse AJ, mentre D si guardava attorno.
Il ragazzo aggrottò le sopracciglia.
«Momento», disse, prima di sparire dietro una porta. «Aò? Ce sta una, qua che dice d’avecce n’appuntamento co’  ’n certo Kanon. Te che ne sai quarcosa, nì?»
D trattenne una risata delle sue.
«», ripeté, guardando con interesse eccessivo le foto dei vip appese dietro la cassa.
AJ pazientò, mordendosi le labbra. Sarebbe stato spiacevole se Kanon si fosse dimenticato del loro appuntamento come si dimenticava di venire a scuola quando era il suo turno di presentarsi alle interrogazioni programmate. Molto spiacevole.
Pazienza. Recupererò la mia auto, e tanti saluti.
Due minuti dopo, bello come il sole nel suo completo di lino bianco, arrivò Kanon. Emerse dal giardino, una sigaretta tra le dita ed il sorriso sincero.
«Sei arrivata!», le disse, a braccia larghe. Due baci discreti e poi si accorse di D che lo guardava in cagnesco. «D! Ci sei pure tu!»
«Ha insistito tanto per accompagnarmi…», disse AJ, come se fosse una scusa.
«Hai fatto benissimo», rispose Kanon, assestando una pacca fraterna sulla spalla di D. «Ma venite, venite. Saga ci sta aspettando.»
 
Saga era sdraiato su una delle tante sdraio sopravvissute agli anni ’60 che costellavano il giardino, simile a quella che AJ aveva usato meno di ventiquattrore prima. Questa aveva due strisce rosse che spiccavano sulla tela avorio un po’ consunta.
«Ma guarda chi c’è!», disse Saga, alzandosi. Salutò AJ con due baci sulle guance, regalandole la piacevole sensazione di avere lo stomaco invaso da uno sciame di farfalle - dalle ali azzurre, come i suoi occhi - e poi si rivolse al’altro ospite. «Come stai?»
«L’erba cattiva non muore mai, eh?», rispose D porgendogli la mano.
Con Saga si erano sempre presi. C’era qualcosa nel gemello buono che attraeva quello scavezzacollo di D. Si facevano sangue, perché Saga, sotto sotto, era, forse, ancora più paraculo di suo fratello, ma più sveglio. E riusciva a farla franca, spesso e volentieri.
«Che mi racconti?»
«Il solito.»
«Laura?»
«Chi?», rispose D. AJ ricordava quanto c’era stato male quando lei se ne era andata a Perugia per studiare veterinaria e lì, senza che fosse colpa sua, aveva incontrato il grande amore della sua vita.
Saga nicchiò. «La musica?»
«Non sono diventato famoso. Mi sono rotto una mano e da allora… Do lezioni di chitarra ai ragazzini. Sempre musica faccio.»
Saga annuì. «Noi abbiamo formato un gruppo.»
«Noi?»
«Il quartetto base. Basso, batteria, chitarra e voce. Io canto.»
«E io faccio il manager», s’intromise Kanon, facendoli accomodare.
«TU?»
«Io», ribatté il gemello più piccolo con un sorriso da faina. «Master in economia aziendale. Col massimo dei voti. Basta?»
D alzò le mani. «E che c’entra mia sorella?»
«Pure tua sorella si è laureata in economia.» Saga si rivolse ad AJ con un sorriso. «Giusto?»
«Giusto.» Respira. Respira. Respirarespirarespira...
Kanon sorrise a sua volta.
«Facciamola corta. Ieri sera, mi hai detto di essere senza lavoro. Noi siamo senza road manager. So che non serve una scienza per prenotare degli alberghi e che forse quello che ti offro è un impiego al di sotto delle tue aspettative, ma questo è. Un gruppo rock non può pensare di farcela senza un road manager. E tu mi sembri la persona più adatta.»
«Stai dicendo che vorresti che io lavorassi per te?», chiese AJ. Non poteva crederci. Sembrava la trama di un romanzo d’amore, di quelli da leggere senza impegno, sotto l’ombrellone. O di uno di quei film sentimentali della domenica pomeriggio. Solo che, stavolta, Saga non si sarebbe accorto di lei e l'avrebbe issata tra le braccia, avanzando insieme verso il tramonto. Torna coi piedi per terra, AJ.
«Precisamente.»
Saga e Kanon la guardarono, entrambi speranzosi che lei dicesse sì. Glielo leggeva nello sguardo. AJ cercò gli occhi di suo fratello per avere un consiglio.
«Devo rispondere adesso?»
«Prima è, e meglio è», replicò Saga. «Il tour promozionale comincerà tra sei mesi. E per allora dobbiamo avere tutto pronto. Ci giochiamo il tutto per tutto. Se va bene, bene. Sennò, dovremo appendere gli strumenti al chiodo.»
«Non ti nascondo che abbiamo anche altre candidate, per questo ruolo. Ma io vorrei che tu accettassi», aggiunse Kanon. «Non per pietà. Ma perché so che tu ce la potresti fare. So che hai la stoffa adatta. Non so né come, né perché. Ma lo so.»
«Vorrei prima sapere in cosa consisterebbero le mie mansioni», disse AJ, imponendosi di non pensare al dopobarba al vetiver di Saga che le procurava del languore inopportuno.
«Logico», commentò Saga. «Abbiamo riservato il giardino per tutto il pomeriggio. Voi non avete impegni, vero?»
AJ guardò D, in cerca di sostegno.
«Io oggi non ho niente da fare. Sentiamo cos’hanno da dire…»
AJ annuì, e Kanon cominciò a raccontare.
   
 
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