Videogiochi > Assassin's Creed
Segui la storia  |       
Autore: RobynODriscoll    30/05/2014    4 recensioni
"Sono stata molte cose nella mia vita. Figlia e assassina, sposa e puttana, sorella e traditrice, amante e spergiura; a volte saggia, a volte folle, a volte sciocca e inerme. Ho creduto e ho dubitato, ho osato e ho fallito. Tante, troppe volte, ho avuto paura, tranne quando avrei dovuto averne per davvero.
Mi chiamo Bianca Auditore, sono figlia di un assassino e di una ladra. Cesare Borgia è stato il mio primo amante: diceva che era la mia purezza a istigarlo al peccato, come una macchia nera sulla mia pelle. Ma sbagliava; perché il peccato non è una macchia. Il peccato è di un bianco accecante. Come la neve e il vuoto, la morte e l’assenza. Come il lutto, la gioia, e la veste degli Assassini."
Genere: Azione, Introspettivo, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Crack Pairing | Personaggi: Claudia Auditore , Ezio Auditore, Leonardo da Vinci , Maria Auditore , Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

 

La ferita di Agamennone era mortale.

Non fu l'espressione di Simza a dirmelo, né il fiotto i sangue che uscì quando, dopo una manovra delicata e tesa, riuscimmo a togliergli l'elmo. Non fu il pallore che gli attanagliava il viso, o il gelo nelle ossa che mi prendeva ogni volta che sentivo la Nera Signora aggirarsi nella stanza, pronta a ghermire qualcuno che amavo. Lo sapevo, e basta. Lo sentivo nello stomaco. Il mio amico di sempre non avrebbe visto sorgere un nuovo giorno.

La battaglia era stata vinta, dopo otto ore di massacro. La cavalleria papalina era stata annientata, più di due terzi dell'esercito della Lega Santa erano perduti. Dei nostri, non ne erano rimasti in piedi molti di più. I morti formavano un macabro tappeto steso sulle rive del Ronco. Non li avevamo ancora contati.

Il resto della mia famiglia era al sicuro. Appresi che mio padre, allo stremo delle forze, era stato trasportato al riparo da mia madre. Vanni l'aveva affidato a lei, prima di rigettarsi in battaglia accanto a De Foix. Quanto alla Folgore d'Italia, aveva perso la vita, in circostanze che non mi erano del tutto chiare. Sembrava avesse attaccato con il suo piccolo gruppo una linea di fanti spagnoli, quando già la vittoria francese si era rivelata schiacciante e definitiva. Morte insensata, per un condottiero come lui. I giorni di gloria dell'erede di Alessandro Magno erano affogati nella Pasqua di Sangue, come sarebbe stata chiamata negli anni a venire. Gridando il nome del loro comandante caduto, i francesi erano entrati in città, saccheggiando e devastando. Non avevamo più la forza nemmeno per cercare di fermarli.

Simza non si era fermata un momento, lavorando alacremente intorno ad Agamennone. Ero certa che sapesse della madre, e forse per questo voleva rendersi utile e impedirsi di pensare. Concedersi di piangere non era previsto, non adesso che i sopravvissuti avevano bisogno di lei.

Veronica non lasciò il capezzale del marito nemmeno per togliersi di dosso quell'armatura maschile, o lasciare che controllassi le sue ferite. Rimase per tutto il tempo che servì alla giovane zingara per preparare il cataplasma che avrebbe fermato l'emorragia, la aiutò ad applicarlo, e, quando tutto ciò che le cure umane potevano fare per lui fu esaurito, gli restò accanto, stringendogli la mano senza una parola. Mi offrii di darle il cambio per vegliarlo, quella notte. Nemmeno mi sentì.

«L'ho supplicato di non venire qui» la sentii mormorare. Non mi guardava. Non guardava nemmeno lui, ma un punto indefinito sul giaciglio da campo. «Poi gliel'ho ordinato, e infine l'ho minacciato. Ma lui è testardo come un mulo, e lo sapevamo entrambi che, per quanto io strepitassi, avrebbe sfidato la profezia comunque. A testa alta...perché non lo diresti, alle volte, ma è così orgoglioso. Non sarebbe morto come un coniglio mentre cercava di nascondersi dal destino, così mi ha detto. Allora ho deciso di seguirlo. Resta con Emilia, diceva, ha bisogno di te. Forse penserai che sono una madre snaturata, ma Bianca...non potevo lasciarlo da solo in questa battaglia. Non potevo.»

Le poggiai una mano sulla spalla, e osservai il volto di Agamennone. Si confondeva con il panno per quanto era bianco.

«Emilia è piccola, dimenticherà che non sei stata con lei in queste settimane. Lui invece ricorderà per sempre che gli eri accanto.»

Veronica reagì debolmente al mio tocco, tentando un sorriso. Scostò un riccio biondo dalla fronte del marito. «E' forte, sai? Visto che ha sempre un po' la testa tra le nuvole molti pensano che vada dove il vento lo porta...ma non è così. Agamennone ha sempre lottato per gli altri. Lotterà anche questa volta, e tornerà da me.»

Non replicai. Il pianto mi serrava la gola, e non volevo che Veronica lo sentisse. Niente doveva incrinare la sua certezza, adesso.

Martino ci raggiunse dopo molte ore, portando una zuppa calda ad entrambe. Aveva un occhio pesto e un braccio avvolto nelle garze.

«Come sta?» chiese.

«Resiste» mormorai. Poi, una volta che mi fui assicurata che Veronica avesse mangiato qualcosa, condussi mio marito fuori dalla tenda.

L'accampamento era diventato un cimitero di anime in pena. Era come se quelli che non avevano lasciato la pelle sul campo si aggirassero colmi di sgomento, in quello spazio che non era morte ma nemmeno vita, aspettando che qualche demonio venisse a reclamarli.

Sedemmo accanto ad un focolare, Martino ed io. Gli sfiorai il turgore violaceo sull'occhio con la punta dei polpastrelli, e lui trattenne un lieve gemito.

«Come ti sei fatto questo?»

«Er marito d'a Borgia» sussurrò. «Quanno ha cominciato a spara' contro tutti...nun c'ho visto più.»

Ci fu un attimo di profondo silenzio, tra noi. Poi, trovai il coraggio di chiederglielo.

«Martino...i cannoni, alla spiaggia...»

«Nun potevamo fa' artro, Bià.» La voce di Martino risuonò secca e stanca, come se avesse passato ore a difendersi da quella stessa accusa. «E' oribile, 'o so pure io. Però...dovevamo fallo. Dovevamo. Nun c'era artro modo pe' vince. Solo che poi j'ha preso 'a mano, a quella carogna fetente...e allora no, allora nun potevo più lassallo fa' come je pareva. Nun semo bestie. Alle vorte dovemo da prenne de' decisioni difficili, ma...nun potemo diventà bestie.»

Non ho mai sentito il cuore sanguinare tanto forte per lui come quella notte, mentre mi diceva quelle parole con uno sguardo pieno di dolore. Lo abbracciai, forte, dimenticando le sue ferite e le mie.

«Dimmi che gli hai rotto qualche osso.»

Lo sentii allentare un po' i muscoli tesi, in una mezza risata. «Poveraccio, so' sicuro che magnà sarà 'n inferno co' 'a mannibola spaccata.»

Quindi, mi strinse senza più parlare, per lunghi minuti. Mi concessi, finalmente, di lasciar scivolare qualche lacrima: ma fu stanchezza, lo confesso. Non il lutto per Zenobia, né quello, devastante e immenso, che aspettavo di provare quando Veronica fosse uscita dalla maledetta tenda ad annunciarci, dignitosa e composta, che Agamennone non ce l'aveva fatta. Perché sarebbe successo, e presto. Me lo diceva il mio stomaco. Me lo diceva la mia anima.


 

Estate 1501. Bianca aveva dodici anni. Quasi tredici! - lo ricordava sempre a suo padre, quando lui diceva di non volerla addestrare. Lo strano bambino bolognese dai capelli rasati era con loro da un mese, ormai. Ferrante non lo poteva vedere: lo canzonava, gli infilava scarafaggi nello scollo della camicia, e quando credeva che Bianca non vedesse gli tirava uno scappellotto nella nuca – giusto per vedere se era ancora vivo, perché con quegli occhi fissi nel vuoto sembrava uno stoccafisso appeso all'amo! Ma Bianca vedeva, ogni volta, e rendeva a Ferrante ogni schiaffo con un pugno. Difendere Agamennone le veniva naturale, non si soffermava nemmeno a pensarci. Era come proteggere Vanni. Un istinto.

«Non arrabbiarti per quel deficiente» gli diceva poi. Agamennone scuoteva appena la testa, con le ginocchia strette al petto. Riappoggiava il mento sulle braccia intrecciate, e si perdeva ad ascoltare le cicale che frinivano nell'afa di quei primi giorni di luglio. Sembrava che niente potesse toccarlo, né in bene né in male. Era lontano. Bianca non riusciva a capire come si potesse lasciare indietro il corpo e scappare via con la mente, come faceva lui.

Un giorno, glielo chiese. Sedendosi accanto a lui, in quella stessa posizione che lui assumeva tanto spesso, gli domandò:

«Cosa vedi, quando guardi lontano?»

Agamennone non voltò nemmeno il viso. «La morte», disse. Bianca non reagì: sapeva che quel bambino era uscito da una carneficina infernale, ed era vivo per miracolo. Non riusciva a immaginare che una disgrazia simile distruggesse il suo piccolo mondo sicuro. Forse anche lei avrebbe visto la morte ovunque, se fosse arrivata a ghermire tutto ciò che amava.

Fece schioccare la lingua nel palato. «Che strano. In questi campi io non vedo la morte.» Un breve silenzio. Lui non obiettò, e così lei proseguì. «Ci sono le messi, vedi? Tra poco i lavoranti di mio padre le mieteranno, e avremo di che mangiare per tutto l'inverno. C'è il sole in cielo, che fa crescere le piante. E c'è la terra sotto i nostri piedi.» Grattò via una piccola zolla, già spaccata dal calore. Era colma di formiche, piccoli insetti che vi si agitavano attraverso, qualche minuscolo verme. La mostrò ad Agamennone. «Vedi? Anche la terra è piena di vita.»

Lui guardò serio la piccola zolla. Poi, i suoi occhi color nocciola si misero in quelli di Bianca.

«Per adesso. Ma poi arriverà l'inverno. Arriverà la morte e si porterà via tutto.»

Lei lasciò ricadere la terra e tutti i suoi brulicanti abitanti.

«Non capisco. Ti senti in colpa perché sei vivo, o hai paura di morire anche tu come la tua famiglia? Perché la prima cosa è molto sciocca, sai. Sei sopravvissuto, è un dono, dovresti esserne felice. La seconda invece, be', è inutile. Tutti moriranno, ma passare il tempo ad avere paura di quel giorno lo farà arrivare più in fretta, non credi?»

Agamennone non rispose. La fissò con lieve sorpresa, come se non si aspettasse di sentir pronunciare quelle parole ad alta voce. Tutti gli si approcciavano con molta cautela, come se la sua mente potesse andare in pezzi per una parola di troppo. Probabilmente era la prima volta che qualcuno era così diretto con lui. Non era sicura che fosse una buona cosa, ma ormai non poteva rimangiarsi ciò che aveva detto.

Fu sorpresa di sentirsi dire, dopo qualche istante:

«Tu te lo dimentichi? Che esiste la morte, voglio dire.»

Bianca si strinse nelle spalle. «Sì, credo. Cioè, so che c'è, ma non me lo ricordo ogni momento.»

«Insegnami. Come si fa a dimenticare la morte?»

Sorrise. Si tirò in piedi, e gli tese la mano. «Prima di tutto, non si sta seduti a fissare l'orizzonte tutto il giorno.»

Agamennone la guardò, un po' spaventato, dal basso. Per un attimo, Bianca credette che non avrebbe accettato il suo invito.

Invece, le sue dita si strinsero a quelle di lei. Si lasciò aiutare ad alzarsi.

«E adesso?»

Bianca rise. Possibile che quel bambino avesse dimenticato come si facesse a giocare?

«E adesso corri...chi arriva ultimo al casale paga pegno!»

Lasciò bruscamente la sua mano, e senza aspettare che Agamennone avesse compreso del tutto scattò in avanti, verso il traguardo di quella gara improvvisata. Fu felice quando sentì i suoi passi alle spalle, e sì, per quella prima volta lo lasciò vincere. O almeno, questo disse al proprio orgoglio quando le chiese conto del fatto che non era riuscita a batterlo in velocità. Dannazione, per aver dimenticato come si gioca quel bambino non aveva certo dimenticato come si corre!


 

I ricordi arrivano da noi quando non vogliamo. Mentre ancora Martino ed io ci stringevamo al calore di quel tiepido fuoco da campo, le immagini di quell'estate lontana tornarono da me con prepotenza, strappandomi altre lacrime dagli occhi.

Adesso ero come Agamennone allora. Ferma, chiusa in me stessa, in attesa di avere un responso. Vita o morte. Salvezza o addio. Ero stanca di aspettare. Ero stanca di rinunciare a pezzi della mia vita e della mia innocenza.

«Non ci riesco, Martino» sussurrai. «Non posso lasciare andare Agamennone.»

Lui mi accarezzò i capelli, la sua voce era colma di tristezza.

«Dovemo da pregà pe' 'n un miracolo, core mio.»

Io non son il tipo che aspetta i miracoli, lo sapete. Perciò, quando l'accampamento intero fu addormentato, andai a prendere il Serpente.


 

Era gelido. Pesava, tra le mie mani. Ricordai come lo scoppio del suo potere le aveva piagate, a Castel Sant'Angelo. Ricordai come mi avesse avviluppato l'anima, cercando di ucciderla tra le sue spire.

Ero sola, sul retro della tenda. Le guardie erano state sospettose, la mia bugia sul fatto che Ezio mi avesse richiesto di portargli il Frutto non li aveva ingannati. Mio padre, avevano detto, aveva dato l'ordine preciso di non lasciare uscire il frutto dalla tenda del comandante per nessun motivo. Avevo dovuto stordirli entrambi, prima che chiamassero i rinforzi. Erano rimasti tramortiti sul pavimento della tenda. Mi rimanevano pochi minuti prima che venissero scoperti. Ora il Frutto dell'Eden per cui avevamo versato così tanto sangue era di nuovo in mano mia.

Accarezzai le scanalature che parevano squame. Come se volessi blandirlo. In realtà, io ti odio. Mi hai strappato così tanto...se fossi qualcosa di vivo, vorrei la tua morte. Ma ho bisogno di te, adesso. Come non ho mai avuto bisogno di nient'altro. Mi senti? Ho bisogno di te.

«Attenta a ciò che chiedi. Potrebbe diventare realtà.»

La voce fece tendere i miei nervi. Ero così concentrata sul Frutto da non essermi accorta dell'arrivo dell'uomo.

Giovanni De Medici era stato inaspettatamente silenzioso, per la sua mole possente. Ancora una volta, guardandolo pensai a un felino, placido soltanto in apparenza, maestoso, potenzialmente letale.

Strinsi più forte il Serpente. «Se siete qui per dissuadermi, potete andarvene.»

Lui scosse il capo. Non indossava i suoi paramenti da cardinale, ma semplicissime brache e camicia. Portava ancora molti anelli alle dita, come l'unico simbolo del suo potere.

«Sei certa di ciò che fai, ragazza?»

«Il mio amico sta morendo, e io non sono certa di niente.» Il metallo era caldo contro il palmo della mano. «Allontanatevi, Eminenza.»

«Non capisci la gravità del tuo gesto» disse il cardinale, calmo. «Troppi destini si sono giocati intorno a quel gioiello. Se ora lo usi per i tuoi egoistici scopi, potresti mettere a repentaglio tutti quei sacrifici.»

«Ho visto Zenobia spirare sotto i miei occhi» ringhiai. C'era un sottile fischio nelle mie orecchie, non ne comprendevo l'origine. «So di Gentile, so di Dante e di tutti gli altri. Ma loro sono morti ormai. Invece, per Agamennone posso ancora fare qualcosa.»

Giovanni De Medici mosse un passo nella mia direzione. «Anche Gaston è morto per il Serpente. Voleva tradire i templari della Borgia, uccidermi e portarlo via. Il Frutto gli aveva circuito la mente, senza che nemmeno lo toccasse. Immagina cosa può fare a te, se lo usi.»

Ristetti.

Gaston era stato soggiogato dal potere del Serpente?

Gaston voleva tradirci tutti?

«E' stato tuo fratello a salvarmi» proseguì il Cardinale. «Lui l'ha ucciso, per impedire che ci portasse alla rovina.»

Sentii i miei denti digrignarsi in una smorfia ferina. Cosa stavo facendo? Cosa stavo diventando?

«E voi adesso ucciderete me.»

Non vedevo armi nelle sue mani, ma ne ero certa. Quel bracciale al suo polso...era una lama celata? Indietreggiai, mentre lui avanzava di un altro passo.

«Se mi costringerai a farlo, sì.»

Il metallo ribolliva nella mia stretta, il calore si era fatto intollerabile. Non riuscivo a lasciarlo andare. Bolle crepitavano sotto la mia pelle, pronte a esplodere in piccole eruzioni di dolore. La mia vista si annebbiava.

«Non lascerò andare Agamennone» gridai, e il fiato mi bruciò i polmoni per la violenza con cui uscì «Lui non morirà...potete uccidermi, ma lui non morirà!»

L'urlo mi lasciò prosciugata. Tutto diventò bianco davanti ai miei occhi. Dove il metallo mi aveva ustionata provai un refrigerante sollievo. Forse era finita. Forse ero morta davvero. Di certo non mi trovavo più nello stesso luogo di prima.

Di fronte a me, no, tutto intorno a me, c'erano muri di specchi dorati. Era un corridoio, la cui fine si perdeva in un tenue grigiore.

Ero già stata in un posto simile. La cripta di Beatrice Portinari, dove avevo recuperato il carteggio tra Dante e Gemma. Eppure, al contrario degli specchi di laggiù, questi non riflettevano la mia immagine. Almeno, non quella del presente.

Alla mia destra, c'era una me stessa bambina, che si gettava senza un attimo di esitazione dalla sommità di Villa Auditore.

Alla mia sinistra, un'adolescente che trova il Serpente sulla Garisenda, seguendo le tracce luminose lasciate dal fantasma di chi si era arrampicato lassù prima di me.

Sul soffitto dorato, stelle crudeli.

Alle mie spalle, il vuoto.

Come aldilà, faceva schifo.

«E' tutto qui quello che sai fare?» dissi, al nulla intorno a me. «Dammi un po' di inferno. Dammi i lamenti eterni, il fuoco, e i demoni con i forconi. Non basterà questo a piegarmi...non basterà!»

Ho sempre reagito alla paura con la spavalderia. La verità è che non capivo cosa fosse accaduto. Se fossi morta, sarebbe stata la fine della mia coscienza. Cos'era quel luogo, allora? Dietro la superficie degli specchi le stesse scanalature regolari che frastagliavano il Serpente si illuminavano, a tratti, come se fossero il condotto attraverso cui un'energia luminosa si propagava. Strani suoni intermittenti mi circondavano. Avevo l'impressione di essere all'interno di un organismo vivente, e tutto questo mi terrorizzava.

«Sei nella tua mente» disse una voce, fredda, metallica. «Puoi riempirla con ciò che ti aggrada, fuoco incluso.»

Deglutii a vuoto. Ora, alla fine del corridoio si stagliava una figura, dorata contro il grigiore. La sua veste pareva antica, trapunta di piccoli quadrati di luce cangiante; il suo capo calvo era sormontato da una mitra.

Era molto alto. Aveva un volto emaciato; pallido, ma così livido da apparire violaceo in certi punti. E gli occhi, Dio, gli occhi...orbite rosse, forse cieche, vuote.

«Tu...sei Plutone?»

Un attimo di silenzio, prima che la creatura parlasse.

«Tu hai un desiderio da esprimere. Io ho risposto alla tua chiamata.»

«Sì» dissi, quasi precipitosamente. Le me del passato continuavano a correre, lottare, uccidere sulle pareti; a malapena registravo i loro movimenti, cercando di concentrare la mia attenzione sull'essere che mi stava davanti. «Sì, voglio salvare il mio amico Agamennone. È troppo importante per me. Non posso permettere alle stelle di vincere e portarmelo via.»

Aveva labbra sottilissime, Plutone. Quasi invisibili in quel viso smunto. Si schiusero per dire:

«Il manufatto può esaudire il tuo desiderio. Ma poiché nulla si crea, nulla si distrugge, e tutto si trasforma, un tributo sarà richiesto. Dovrai dare all'Universo qualcosa in cambio, di valore uguale e contrario, perché l'Equilibrio non sia invariato.»

«Una vita per un'altra? E' questo che stai dicendo?»

«Sì.»

Il gelo mi irrorò le vene. D'istinto, guardai quelle immagini di me che mi scorrevano accanto, momenti della mia esistenza passata a lottare. Ma no, non soltanto a lottare. Avevo combattuto e ucciso, sì: ma avevo anche amato, fino a perdere il cuore.

I miei genitori, Vanni, tutto il resto della mia meravigliosa famiglia. Gli indovinelli di Lisabetta, i sorrisi di zio Ugo, lo sguardo fintamente severo di zia Claudia. Nonna Maria. Zio Mario. La loro saggezza che portavo ancora con me, l'enorme vuoto della loro assenza. Ilaria, il fuoco nei suoi occhi; il piccolo Leonardo e i suoi capelli rossi.

Gli amici. Veronica e i nostri scherzosi battibecchi; Jacopo e i suoi pungenti ammiccamenti. Nicola, che aveva dato tutto se stesso al Credo. Diamante, che viveva nei ricordi ma non aveva mai smesso di combattere nonostante tutto. Odette, la fiera e radiosa erede di una dinastia di guerrieri come la mia. D'Arcy, il suo ruvido codice d'onore. Simza, i suoi occhi cangianti e le lettere scritte dalla punta del polpastrello sul palmo della mia mano.

E poi Martino. Martino. Martino. Il nostro futuro, i figli che avremmo avuto. Lui li voleva così tanto. Una vita di risvegli accanto a lui, l'uomo che avevo aspettato tanto a lungo, l'uomo che aveva continuato ad amarmi nonostante tutto. Lui era tutto ciò che avevo sempre desiderato, e ora, dopo mille vicissitudini, finalmente mi apparteneva come io gli appartenevo.

Avevo così tanto che non potevo lasciare.

Agamennone mi avrebbe capito. C'era ancora tanto che potevo fare, che potevo dare. Al mio posto, anche lui avrebbe avuto paura di lasciare tutto questo. Per cosa, poi? Annientarsi. Distruggersi. Andare in un non-luogo dove la mia coscienza non sarebbe esistita più...no, avevo paura. Era troppo, anche per il più caro degli amici, anche per un fratello...era troppo!

Poi pensai a quel pomeriggio d'estate. Alla mano di un bambino smarrito che afferra la mia.

«Insegnami. Come si dimentica la morte?»

Le corse fino a perdere il fiato, le notti passate a guardare le stelle sul tetto della Villa. Due ragazzini che parlano di una profezia.  

«Non credo che si possa cambiare quello che è scritto nelle stelle.»

«Io ci proverò.»

«Tu, da sola, contro tutte le stelle?»

Emilia che si agita tra le braccia di suo padre, gli stringe una ciocca di capelli nel pugno e ride.

«Ho troppe cose che non voglio lasciare, adesso.»

Le cicatrici smagliate sul ventre di Veronica.

«Credevo che niente avrebbe potuto cancellarlo. Mi sbagliavo. Emilia...Agamennone...è merito loro.»

Tancredi che si protende minaccioso verso di lui, sul campo di battaglia, mentre Agamennone sfodera la spada per coprire la mia fuga.

«Chi si mette tra me e la conoscenza morirà.»

«Non ho paura.»

Le lacrime mi avevano scavato solchi incandescenti sulle guance. Silenzio infinito, fuori e dentro di me. Presi un respiro profondo.

«D'accordo. Fallo.»

«Ne sei certa?»

«Sì.»

La luce esplose dal Serpente, mi investì, mi soffocò. Chiusi gli occhi, e pensai: sì, ne vale la pena. Piangeranno per me. Martino non mi perdonerà per il modo in cui lo lascio proprio adesso...ma ha un cuore grande, con il tempo capirà. Mia madre e mio padre soffriranno terribilmente: ma hanno Leonardo, lui li aiuterà a sopravvivere al dolore. Agamennone penserà che non è giusto, e si sentirà in colpa, ma apprezzerà ogni attimo della sua vita con Veronica ed Emilia. Forse chiamerà la sua prossima figlia Bianca. Sì. È questo che farà. Andranno avanti, tutti loro...senza di me.

La luce scemò, ed io non ero morta. Ma non ero nemmeno fuori da quella che Plutone aveva definito la mia mente.

Battei le palpebre, confusa. La pelle mi formicolava come se fossi appena uscita dalla scorza della vecchia me stessa.

«Il tuo desiderio è esaudito. Agamennone Marescotti, figlio di Galeazzo ed Emilia, vivrà.»

«Non hai preso la mia vita.»

«Non ho mai detto che sarebbe stata la tua.»

Mi irrigidii. Le punte delle dita si fecero progressivamente più fredde. «Non era questo il patto. Non era questo che hai detto quando mi hai chiesto di scegliere!»

«Una vita per una vita: questo ho detto, e questo sarà. L'Universo sceglierà quale.»

I contorni della stanza stavano tremolando intorno a me.

«Fermati. Fermati, maledizione! Non era questo che volevo...non era questo che volevo! Mi senti, Plutone? Non era questo che...»


 

Mi risvegliai con quelle parole ancora ferme in gola, e le labbra che le pronunciavano, tese fino allo spasmo. Sentivo le lacrime che bruciavano i miei occhi. Una voce dolce chiamò il mio nome, due mani ferme e delicate mi spinsero di nuovo sul giaciglio. Inalai un'avida sorsata d'aria, mentre tremiti violenti mi scuotevano le spalle.

«Calmati, Bianca. Va tutto bene. Sssshhh...Non agitarti adesso. Calmati.»

Il tocco di mia madre. Il suo odore rassicurante. Era seduta sul giaciglio, accanto a me. Mi accarezzava i capelli, la fronte. Mi afferrò le braccia. Tremavano.

«Va' a chiamare Simza» la sentii dire, ma non so a chi. Dei passi corsero fuori dalla tenda.

«Mamma...dov'è Martino?»

«Sta' tranquilla, non devi sforzarti...»

«DOV'È MARTINO?»

«Sta bene. Manderemo a chiamare anche lui. Ti prego, Bianca...calmati, tesoro mio.»
Mi strinse al suo petto, ed io mi sciolsi in singhiozzi, artigliandole la schiena come se la mia vita dipendesse da quella presa. Affondai il viso nella sua camicia, e pregai di avere solo sognato. Un incubo. Doveva essere stato questo. Nient'altro che un orribile incubo...

Ma no. Flettendo le dita, sentii le mani fasciate da bende strette. Non erano ferite che mi ero procurata in battaglia...potevo sentire i mille aghi delle ustioni che mi piagavano i palmi.

Era stato tutto reale.

Rosa sussurrò al mio orecchio: «Agamennone si è ripreso. Sopravviverà.» Non avrei mai creduto, mai, che quelle parole potessero uccidere una parte di me. Ma è ciò che fecero. Perché se lui viveva, significava che io avevo appena condannato a morte al suo posto qualcun altro tra coloro che amavo. Qualcuno che l'Universo avrebbe scelto per adempiere all'orribile patto che avevo appena stipulato.

«Mamma...ho fatto una cosa orribile. Ho fatto una cosa orribile...»

«Ssssh. Basta adesso. Basta...lo risolveremo, vedrai. Lo risolveremo insieme.»

Ma non c'era niente che potessimo risolvere, e anche quando Simza venne a somministrarmi quel suo calmante dal sapore aspro, anche quando i singhiozzi svanirono lasciando soltanto la loro eco nel mio petto e gli oggetti intorno iniziarono ad assumere contorni sfocati, la consapevolezza rimase con me. Nel momento in cui fu la figura di Ezio a sporgersi sul mio capezzale, prendendomi la mano piagata, lo guardai con immensa vergogna.

Credevo di aver fatto la cosa giusta. Credevo di aver sacrificato me stessa. Invece, qualcun altro avrebbe pagato il prezzo delle mie decisioni.

Non riuscii a parlare. Non ce ne fu bisogno.

Ezio mi accarezzò il dorso della mano, con delicatezza infinita. Nei suoi occhi scuri c'erano dolore e comprensione. Nessun rimprovero. Capii che al mio posto avrebbe fatto lo stesso, e la consapevolezza mi chetò un poco.

Chiusi gli occhi. Le tisane di Simza mi avevano resa incosciente; non distinsi il momento in cui i miei genitori lasciarono la tenda, ma quando la mente emerse dal torpore sentii il calore del corpo di Martino, steso accanto a me. Mi cingeva la vita con un braccio, il viso affondato tra il mio collo e la mia spalla.

Spinsi il naso e la bocca tra i suoi ricci neri, portai la mano bendata ad accarezzargli il viso. Non parlammo per lunghi minuti.

Poi, un sussurro contro il mio petto.

«Credevo d'avette perso stavorta, Biancarè.»

Deglutii a fatica, ricacciando in gola il sapore acido della tisana. Gli accarezzai la spalla, le mie dita scesero sul suo braccio teso. Solo allora mi accorsi che le fasciature si prolungavano fino alle sue mani.

«Cosa...» Dovetti umettarmi le labbra. «Cosa hai fatto?»

Lui sospirò sulla mia pelle. «C'ha svejato un lampo fortissimo. Er cardinare s'era messo a urlà. E quanno so' arivato...lui era pe' terra, mezzo accecato, e te te contorcevi come 'n indemoniata...la luce te usciva dalli occhi e dalla bocca. Sembrava che te stesse a squartà viva.» Mi strinse a sé più forte.

«Mi hai tolto tu il Serpente dalle mani?»

«Sì.» Alzò il viso solo allora. «Dimme che t'ho fermata 'n tempo.»

Voltai la testa dall'altra parte. No, non mi aveva fermata in tempo. Che fossi dannata, io e il momento in cui avevo deciso di cambiare il destino. Avrei dovuto apprenderlo dalla storia di Gentile. Cambiare le stelle è possibile, ma il prezzo da pagare è altissimo.

«Martino, io...» soffocai un singhiozzo. «Ho stretto un patto con Plutone.»

Lo sentii sollevarsi sul materasso. La sua mano fasciata mi voltò il viso con gentilezza. «Che genere de patto?»

Altre lacrime lasciarono i miei occhi, quando incontrarono i suoi. «Gli ho chiesto di salvare Agamennone. E lui...ha detto che ci sarà un sacrificio. Che qualcun altro morirà al posto suo.» Deglutii. «Credevo che avrebbe preso la mia vita...altrimenti non avrei mai acconsentito allo scambio, te lo giuro. E ora Mennone è vivo, e invece di essere felice io mi sento...ingannata, e sconfitta.»

Martino mi poggiò le labbra sulla fronte, e quando sciolse quel contatto gli gettai le braccia al collo, trovando riparo nel suo abbraccio. Lui ricambiò la stretta. Mormorò: «'e scerte hanno 'e conseguenze loro...ma noi l'affronteremo, Biancarè. Insieme.»

Dopo un lungo momento di silenzio, cercai di sorridere. “Insieme per la vittoria?”

Martino ricambiò il sorriso, e mi baciò la punta del naso. “Insieme anche ne la sconfitta. Insieme sempre.”


 

Trascorsero due giorni, prima che mi fosse permesso di alzarmi; ne trascorse un altro, prima che trovassi il coraggio di vedere Agamennone. Migliorava a vista d'occhio, e Simza aveva decretato che presto avrebbe potuto essere spostato. Rimaneva ancora costretto al giaciglio, tuttavia era lucido e cosciente. Proprio quel giorno, appresi, gli era stato consentito di sedersi.

Una ripresa miracolosa. Un miracolo che avevo innescato con le mie mani.

Quando mi presentai all'apertura della tenda, trovai Veronica intenta a leggergli una lettera. Da quel poco che colsi, proveniva da Maestro Sandro, e parlava della loro bambina. L'assassino milanese chiedeva della loro salute e dell'esito di quella terribile battaglia, di cui ancora non aveva ricevuto notizie dettagliate. Gli occhi di Agamennone, seduto con panni morbidi a sostenergli la schiena, erano fissi sulla coperta, sulla quale aveva abbandonato due mani intente a intrecciare ritmicamente le dita tra loro. Sembrava assorto. Profondamente serio.

Poi, si accorse della mia presenza. Alzò lo sguardo su di me. Ci mise qualche istante a elaborare il dettaglio delle mie mani piagate, così come a me servì qualche momento per registrare nella mente l'esistenza delle bende che gli stringevano il capo e il volto ancora pesto per i colpi ricevuti.

Veronica si alzò in piedi.

«Avete bisogno di parlare, voi due» mormorò, ripiegando la lettera e lasciando una carezza leggera sul viso di Agamennone. «A patto che non ti stanchi troppo, d'accordo?»

Lui annuì soltanto, baciando brevemente le sue dita. Veronica si diresse verso di me. Mi prese le mani, i suoi occhi erano lucidi. Grazie, sillabò, perché solo io potessi vederlo. Uscì.

L'espressione che tirava la bocca del mio amico era di disappunto. Sapeva cosa avevo fatto, e non gli piaceva. Non avrei ricevuto da lui la stessa gratitudine che mi aveva dimostrato sua moglie.

Quando parlò, la sua voce suonò secca.

«Voglio soltanto sapere una cosa. Soltanto una.»

Rimasi sulla soglia, torturando un lembo della tenda tra le dita. «Ti ascolto.»

I suoi occhi color nocciola erano seri come non li avevo mai visti. Intensi, arrabbiati.

«Perché? Io ero pronto, ero pronto da una vita intera.»

«Lo so. Ero io a non essere pronta.»

«Accidenti a te, Bianca! Possibile che tu sia così incosciente? Non sai quali effetti poteva avere il Serpente su di te, su tutti noi...e stavi per dare la tua vita, per la mia! Dimmi perché!»

«Perché ti voglio bene! E tu hai una moglie, e una figlia, e un futuro...»

«E io voglio bene a te, idiota! Anche tu hai un compagno, e un futuro. La mia vita vale esattamente quanto la tua, né più né meno. Lo capisci che non ha senso? A meno che non volessi dimostrare che avevi ragione...ma certo, tu lo fai sempre, vuoi sempre dimostrare che hai ragione...che il futuro lo costruiamo con le nostre mani, e non credi nel destino, e tutto il resto. Ti rendi conto che hai deciso di morire per dimostrare il tuo dannato punto di vista? Pensi che avrei potuto perdonarti se lo avessi fatto? Pensi che chiunque delle persone che ami avrebbe potuto accettarlo?»

«Non l'ho fatto per te, né per nessuno di loro! Io l'ho fatto per me!» Odiavo sentire il suono della mia voce incrinata. Eppure, quell'ammissione distrusse la diga delle mie emozioni. Mi ritrovai a parlare senza freni, interrotta da singhiozzi che cercavo di contenere nelle spalle. «Ho già perso due fratelli...e uno ha ucciso l'altro...Agamennone, non potevi chiedermi di rinunciare anche a te, non ce la faccio, morirei dentro, e questa volta per sempre. Non volevo provare nessun punto, non mi importa niente di avere o non avere ragione...ma se la scelta era morire o sopravvivere in un mondo in cui devo perdere ad una ad una tutte le persone che amo, allora sì, per un attimo ho pensato che preferivo essere io a morire, d'accordo? Preferivo essere io...perché è dannatamente più facile che accettare di restare da soli!»

Rimanemmo immobili ancora un momento, a fronteggiarci con sguardo palpitante. Poi, lui aprì le braccia. Non attendevo che quel segnale: a passo svelto raggiunsi il giaciglio, sedetti malamente accanto a lui e finii per abbracciarlo, forte. Agamennone mi accarezzò i capelli.

«Bianca...oh, Bianca...che cosa hai fatto...» lo sentii mormorare. Non c'era più rimprovero nel suo tono. Piuttosto, una pena infinita.

Chiusi gli occhi. Le lacrime scorsero ancora una volta. L'ultima, giurai a me stessa. L'ultima.

«Ho fatto una scelta», sussurrai sulla sua spalla.

Una scelta di cui avrei scontato appieno le conseguenze, non molto tempo più tardi.

 

Fui innalzata al rango di Assassina il 24 maggio 1512, a Bologna.

Non tutti gli Alti Ranghi furono unanimi in questa decisione. Tuttavia, alla fine perfino Giovanni De Medici, che era stato pronto ad uccidermi pur di non lasciarmi cadere vittima del Serpente, aveva dovuto convenire a denti stretti che non ero stata soggiogata affatto; anzi, tecnicamente avevo superato un'ordalia quale nemmeno il leggendario Ezio Auditore da Firenze aveva mai affrontato. Lui aveva incontrato un essere appartenente a un'altra civiltà, vissuta prima della nostra; aveva portato il suo messaggio ad un destinatario invisibile del futuro e ricevuto visioni sulla fine del mondo. Per me era stato diverso: non ero stata un tramite, ma un agente. Come la leggenda cristiana racconta di Eva, il Serpente mi aveva messa di fronte ad una scelta, ed io l'avevo compiuta. Non conoscevano ancora  le ripercussioni, ma la mia volontà di sacrificare me stessa fu encomiata da tutti. Io ascoltai quelle argomentazioni con il volto basso e gli occhi al suolo. Almeno fino a che non sentii Ludovico Ariosto dire:

«Avete fatto ciò che credevate giusto, Bianca. Ci saranno conseguenze, per questo...ma un capo deve saper compiere scelte difficili, e voi vi siete dimostrata all'altezza.» Guardò mio padre, come ad aspettare un cenno di assenso. Ezio disse soltanto, guardandomi intensamente: «Sarà domani. Preparati.»

Non so cosa provai, mentre attraversavo la navata della Chiesa della Madonna del Baraccano. L'affresco della Pace era lì, e mi guardava fisso come il giorno in cui avevo incontrato Zenobia per la prima volta. Così tanto della mia vita mi era stato profetizzato, quel giorno. Così tanto sarebbe andato perduto, dopo poco tempo. Tuttavia, quando sotto gli occhi dei miei compagni e famigliari tesi il dito perché Ezio lo marchiasse a fuoco, ricordai un altro giorno della mia vita, forse meno significativo ma tanto, tanto più caro al mio cuore.

Quando mio padre mi aveva messo tra le mani la mia prima lama celata, aveva detto:

Io non ho scelto il mio destino. È stato lui a scegliere me.”

Ora sapevo di cosa parlava. Ora capivo.

Mentre la tenaglia arroventata mi stringeva la carne, lo guardai, e lui resse il mio sguardo. Avevo smaniato perché quel giorno arrivasse, e oggi che ero finalmente un'iniziata comprendevo tutti i dubbi di Rosa ed Ezio nell'avvicinare Vanni e me al Credo. Capivo perché avessero desiderato per noi una vita diversa, e li ringraziavo, per questo. Ma ormai sapevo chi ero, chi non sarei mai stata, e in cosa credevo. Sapevo che non sarei più potuta, e non avrei più voluto, tornare indietro. Ero Bianca Auditore da Monteriggioni – e, come i miei genitori prima di me, ero un'assassina.

 

Giuliano affonda tra le lenzuola damascate, gli stucchi e gli ori della stanza emergono appena dalla coltre di nebbia che gli copre gli occhi. Maledetto corpo, carcassa inutile che ormai non può più contenere il suo spirito feroce. Tra poco non dovrà più preoccuparsi delle gamb che non lo sostengono, dei polmoni che non riescono più a divorare l'aria, del cuore che non segue più un battito razionale e costante. Tutto ciò che è terreno lo abbandonerà presto.

Quanta strada, dalla minuscola Albisola. Quanta pena quando, sotto la tunica francescana, indossava il cilicio, mentre studiava diritto a Perugia e si illudeva di purgare i peccati della carne per elevare la mente verso Dio. Poi, era arrivata la fumata bianca che gli aveva cambiato la vita. Suo zio Francesco, a cui doveva tutto, era diventato Papa. E Giuliano aveva seguito la sua strada lastricata d'oro e promesse, iniziando a sognare.

Ha desiderato una Chiesa forte, e un Ordine Templare finalmente epurato da quella piaga in suppurazione che porta il nome di Borgia. Ha voluto un'Italia potente, pia e libera. E oggi muore di rabbia e fiele, le mani adunche contratte per il dolore di non stringere ciò che più di tutto desiderano. Il Serpente, il misterioso Frutto dell'Eden che ha affidato alle mani impure di una zingara, e alla custodia del traditore De Medici. Volta il capo, osserva le facce pallide che galleggiano nella penombra accanto a lui. Distingue il volsto asciutto di Francesco Maria, il nipote su cui ha caricato il peso della propria eredità. Tende la mano. Il giovane uomo la stringe nelle proprie, impedendole di tremare.

«Ti ho sempre assolto» mormora il Papa «Da ogni omicidio, da ogni strage, da ogni furto tu abbia commesso in tutta la tua vita. Ti assolverò...» Un sogghigno, ma sofferente, gli tira le labbra. «...anche dal mio omicidio.»

Un silenzio, prima sbalordito, poi scandalizzato, da parte del giovane uomo.

«Zio, la febbre vi fa delirare.»

Giuliano si umetta le labbra secche con il poco sputo che gli è rimasto in bocca. Così bravo, Francesco Maria, a giocare la parte dell'innocente con il difetto dell'eccessiva irruenza. Così inutile, ora, la sua farsa.

Nel momento in cui aveva costretto Isabella d'Este a dare sua figlia Eleonora in sposa a Francesco Maria, Giuliano sapeva di aver commesso un azzardo; d'altronde, chi non osa non vince nulla, se non un'evanescente gloria. Non poteva immaginare che quell'idiota si sarebbe innamorato di sua moglie, lasciandosi guidare dai suoi giudizi imbevuti di ideologia nemica. Ma va bene così, dopo tutto. L'affetto è la debolezza di ogni guerriero. Non può imputare a Francesco Maria lo stesso difetto che ha condotto Giuliano alla morte: troppo attaccamento per quel ragazzo del tutto inadatto ad ereditare la sua grande visione militare ha ottenebrato il suo giudizio. Si è lasciato fuorviare lui stesso, e questo l'ha condotto alla fine.

«Ti assolvo dal peccato di essere caduto nella rete della puttana assassina che hai sposato» bisbiglia ancora «colei che doveva essere il tuo ostaggio ed è diventata la tua rovina. Ti assolvo perché hai avvelenato il mio cibo fino a che non ho potuto più alzare la testa da questo cuscino...ma per aver rinnegato la Croce e gli insegnamenti del Tempio, no, non sarai mai perdonato, da me e da quanti sono venuti prima di me. Quando arriverai dall'altra parte di quel fiume che mi accingo ad attraversare, chiederò a San Pietro di sbarrarti i cancelli del Paradiso, affinché la tua anima marcisca per sempre...non nell'inferno, ma nell'attesa di una beatitudine eterna che non ti spetterà mai.»

Non vede la reazione di Francesco Maria; immagina il suo volto sciolto in un'espressione di tacito avvilimento. Tutto nel mondo in cui inala lentamente grida: umiliazione. Sì, Giuliano conosce il dolce sapore dell'umiliazione inflitta a chi ti vuole distruggere. Il ragazzo potrà anche essere riuscito ad ammazzarlo, ma lo sa, quelle parole rimarranno un tarlo nella sua mente fino all'ultimo respiro.

Il suo ultimo respiro. È arrivato, forse è proprio questo...forse il prossimo. Quella gran troia di Isabella D'Este se la riderà, chiusa nel suo palazzo a giocare a scacchi illudendosi che i pezzi che muove siano re e regine d'Europa, e le caselle regni interi piegati alla sua intelligenza. Farà inaugurare le botti migliori del suo vino soltanto per festeggiare la notizia. Deve aver progettato questo istante di trionfo fin dal momento in cui ha spinto nel mondo dal proprio fetido grembo quella piccola sirena ammaliatrice di Eleonora; deve averla allevata appositamente per farne lo strumento della rovina di Giuliano.

Un'altra donna gioirà stanotte, quando saprà che il Papa Guerriero ha deposto le armi: la figlia dello Spagnolo, che dopo essersi rotolata nel fango con il proprio fratello ha trovato il modo di eliminare il padre affinché non fosse d'ostacolo alle loro porcherie. Povero Ordine del Tempio, in quali grinfie devo vederti cadere? Posso lasciare che una femmina ti porti alla distruzione? E' arrivata ad allearsi con quella canaglia di Ezio Auditore, la Borgia, pur di vedere il dominio di Giuliano sgretolarsi nella polvere. Ebbene, questo non accadrà...fino a che avrà respiro, e anche quando non ne avrà più. Ci sarà chi porterà avanti il suo disegno.

Fa chiamare il medico bolognese, Tancredi. Bestia infida, quella: ma letale. Gli dà istruzioni. Deve fare di tutto perché il conclave finisca per proclamare come nuovo papa Raffaele Riario. Se i Medici si insidieranno sul seggio di Pietro, allora...la Conoscenza, l'Armonia, tutto ciò per cui hanno lottato da sempre......ah, com'è difficile mettere insieme i pensieri...finito, per i capricciosi occhi di una donna. Sprofondato tra le luride cosce di una...i rumori, non avverte più i rumori...non c'erano rumori nel chiostro del convento in cui giocava da bambino...la stanza è sfocata, i volti danzano intorno senza forma e Giuliano non sa più chi è chi...ma sì, convincerà San Pietro a lasciargli tenere strette le chiavi ancora per un po', per serrare e disserrare i cancelli del Paradiso un'ultima...


 

Tancredi libera delicatamente il bavero della camicia dalla stretta adunca del morto. E' l'una di notte del giorno del Signore 21 Febbraio 1513: Giulio II è morto, la Cristianità è orfana e con essa i Cavalieri del Tempio. Il medico bolognese sa che quel vuoto di potere deve essere riempito. E morirà, prima che a farlo sia un Assassino.


Note di BlackFool

Eccoci qui, finalmente. Mancano solo un capitolo e l'epilogo (li pubblicherò insieme appena saranno finiti entrambi)...che strana sensazione, essere a un passo dalla fine. Ho molto chiaro nella mente quello che voglio fare, vediamo se l'ispirazione seguirà. Forse, dopo BCP, prenderò una pausa dal mondo di Assassin's Creed e cercherò di mettere su carta qualche trama Regency che ho intesta da un po'. Forse riscriverò un vecchio romanzo fantasy-romano di cinque anni fa. Chi lo sa. Per quanto, lo ammetto, alle volte io abbia odiato questa storia che si complicava sotto le mie dita senza che apparentemente riuscissi a tirarne le fila, so già che mi mancherà da morire. 
Bianca è andata all'inferno per davvero: ha tirato fuori Agamennone dalla trappola delle stelle, ma per farlo ha venduto l'anima. Su chi ricadrà la scelta dell'Universo? Al prossimo capitolo, provvisoriamente intitolato "Il volo dell'aquila". 

Laura.

   
 
Leggi le 4 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Videogiochi > Assassin's Creed / Vai alla pagina dell'autore: RobynODriscoll