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Autore: Inathia Len    30/05/2014    1 recensioni
Celia Stebbins è una ragazza qualsiasi, ma nasconde un segreto.
Celia sogna.
Celia ricorda.
Di un tempo in cui un uomo che viaggia in una cabina blu più grande all'interni rispetto all'esterno l'ha salvata dalla morte, quando era solo una bambina. Ma Celia non sa la verità, non sa che la donna che chiama madre non lo è davvero, non sa chi lei sia.
Quando i sogni si colorano di rosso e Celia ricorda di un pianeta andato distrutto, sa che deve scoprire la verità. E sa anche che c'è un solo uomo che la può aiutare: Sherlock Holmes.
Primo cross-over tra Doctor Who e Sherlock, ambientato tra la seconda e la terza stagione del primo e dopo la terza del secondo. Fatemi sapere che ne pensate :-)
Genere: Angst, Azione, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: John Watson, Nuovo personaggio, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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A call from a lost clock

 

 

 

-E adesso?- mormorò John, restituendo il telefono a Sherlock con la mano che gli tremava.

-E adesso bisogna concentrarsi su Stebbins "padre"- rispose Sherlock, mettendo via il cellulare.

-Dobbiamo dirlo a Celia. Ne rimarrà sconvolta, poverina.-

-Puoi venire a casa adesso, sono sicuro sarà ancora sveglia- disse Sherlock, alzandosi e dirigendosi verso la strada.

John diede un'occhiata all'orologio. Erano le dieci e mezza. Magari, una volta a casa, sarebbe stato capace di far mangiare qualcosa a Sherlock. Non lo vedeva toccare cibo da quella mattina e, anche se sapeva che poteva stare senza mangiare per giorni interi quando era impegnato in un caso, l'idea che potesse stare male gli metteva uno strano peso sullo stomaco.

Salirono su un taxi diretti a Baker Street.

-Come va la gravidanza di Mary?- chiese Sherlock, improvvisamente, rompendo il silenzio.

-Bene. In un paio di settimane dovremmo esserci.-

-Una bambina, quindi.-

-Non la chiameremo Sherlock, se è lì che vuoi andare a parare. Ne abbiamo già parlato.-

-Peccato. Sherlock Watson suona bene.-

Quasi quanto John Holmes, si ritrovò a pensare John.

Scosse la testa come per scacciare quello strano pensiero. Che diavolo gli stava succedendo?

Rimasero in silenzio per il resto del viaggio, gli sguardi persi fuori dal finestrino. Finiva così ogni volta che parlavano di Mary, l'allegria spariva e un silenzio imbarazzato seguiva regolarmente. John credeva che Sherlock non lo avesse mai perdonato per il fatto che si era rifatto una vita mentre lui "moriva" per proteggerlo. Ma cosa avrebbe dovuto fare? C'erano stati dei momenti in cui aveva pensato di uccidersi a sua volta, quando le giornate erano troppo vuote e grigie, quando quella lapide sembrava troppo nera e cupa. Quando gli sembrava non ci fosse altra via di uscita. Non glielo aveva mai detto, né lo avrebbe mai fatto, ma aveva dovuto consegnare la pistola alla sua analista, per precauzione, dopo che una volta, in una seduta, si era lasciato sfuggire qualcosa. E Mary era stata l'unica a salvarlo. Quindi, anche se poi si era rivelata una bugiarda, un merito lo aveva avuto. Senza di lei, non avrebbe mai rivisto Sherlock e questo non se lo sarebbe mai perdonato. Forse era anche questo che Sherlock si rimproverava. Se lui non fosse "morto", Mary non sarebbe mai entrata nelle loro vite.

Pagarono il tassista e salirono fino al salottino. Come previsto, Celia era lì sulla vecchia poltrona rossa di John, il cucino con la bandiera inglese sulle gambe e un librone sulle ginocchia.

-Buona sera- la salutò Sherlock, entrando nella stanza e togliendosi la giaccia.

-'sera- rispose lei, alzando lo sguardo dalla sua lettura. -Dove siete stati?- chiese curiosa.

-Ho portato John a cena.-

-Oh, non avevo idea che voi due...-

-Non siamo una coppia!- la interruppe un po' troppo velocemente John, incespicando nelle sue stesse parole. -Era solo una cena tra amici... Tra colleghi.-

Celia ridacchiò guardando Sherlock, il quale stava trattenendo male un sorrisino.

-Rimani a dormire qui, John? Porto le mie cose di sotto, posso dormire sul divano...-

-No, no, tranquilla. Sono qui solo di passaggio. Volevamo dirti una cosa- cominciò John, cercando sostengo da parte di Sherlock, il quale era però scomparso in cucina. Sperò almeno che si stesse prendendo qualcosa da mangiare.

-E successo qualcosa?- chiese Celia, mettendo da parte il libro e sedendosi dritta, mentre John prendeva posto di fronte a lei.

-La Rose Tyler di cui ci hai parlato- disse John, mentre Sherlock tornava nelle stanza e si sistemava sul bracciolo della poltrona dove stava seduto John.

-L'avete trovata, la posso vedere?-

-È morta, Celia. Mi dispiace.-

-Morta?-

-Cinque anni fa, nel disastro del Canary Wharf- precisò Sherlock, fulminato da John. Si salvò da un rimprovero solo perché stava mangiando un biscotto. Meglio di niente.

Celia si coprì la faccia con le mani e cominciò a piangere silenziosamente.

-Quindi sogno le persone morte?- chiese, la voce rotta.

-Vedi il lato positivo. Adesso siamo sicuri che tu stia dicendo la verità.-

-Sherlock, non è davvero il momento.-

-La vera domanda- continuò lui, come se John non avesse mai aperto bocca, -è come tu faccia a sapere di lei. Certo, sei anni fa la città era tappezzata con sue foto, ma da qui a sognarsela...-

Suonò il telefono ed interruppe la conversazione.

-Celia, è per te- disse Sherlock, porgendole il cordless. -Roona.-

Celia aggrottò le sopracciglia.

-Dimmi.-

Quella mattina le aveva lasciato quel numero per contattarla, ma aveva specificato che dovevano essere delle vere e proprie emergenze. Per quanto riguardava l'indirizzo, invece, non le aveva detto nulla. Non voleva ritrovarsela alla porta.

-Devo darti una cosa, Celia. Dimmi dove ti posso trovare.-

-Assolutamente no. Di qualsiasi cosa si tratti, può aspettare fino a domani mattina. E poi, è inutile che inventi queste scuse solo per vedermi- disse, gelida.

-Celia, stai bene? Stai piangendo?-

Celia chiuse e gli occhi per trattenere le lacrime. Non voleva che la sentisse singhiozzare al telefono.

-Celia, sono seria adesso. Torna a casa, ti devo dare una cosa.-

-Che cos'è, perché non puoi aspettare domani?-

Roona sospirò al telefono.

-Devi venire, Celia. Si tratta del tuo orologio da taschino e...-

-Cosa avrei a che fare io con tutto ciò?- chiese Celia, dimenticandosi per un attimo di essere arrabbiata con Roona e lasciando trasparire tutta la sua paura.

-Celia, ti prego, vieni a casa…-

-Dimmi cosa centra quel maledetto coso con me! Non è mio, io non ha mai avuto un orologio da taschino in tutta la mia vita!- gridò Celia mentre ormai le lacrime le scorrevano lungo le guance.

-Celia, calmati- intervenne John, togliendole il telefono dalle mani e mettendo il vivavoce. –Signora Stebbins, sono il dottor Watson, ci siamo presentati questa mattina. Celia ha avuto una giornata pesante, è nervosa e si sta lasciando andare al panico. Ma ora si sta calmando, non si preoccupi. Preferirei comunque che spiegasse anche a me e Sherlock questa storia.-

Seguì un attimo di silenzio, poi la voce di Roona uscì di nuovo dalla cornetta, sottile e tremula.

-È l’orologio.-

-Che cosa fa, signora Stebbins?- insistette John, lanciando uno sguardo veloce a Sherlock. Era pallido e fissava il telefono come se potesse morderlo da un momento all’altro, le sopracciglia aggrottate. Non stava capendo, quelle informazioni non avevano senso per lui, la cosa si stava facendo troppo grande e assurda per lui.

-Celia, l’orologio vuole te- sussurrò Roona.

La ragazza impallidì, ma i suoi singhiozzi cessarono. Era troppo spaventata anche per piangere.

-Come fa a dirlo, Ronna?- chiese John, mettendo una mano sulla spalla di Celia e stringendo forte. –Abbiamo bisogno di saperlo.-

-Ti chiama, Celia. Dice il tuo nome. Il tuo vero nome.-

  
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