Look your Falling Star ::
Cap. III (Revelations)
Immagini
si distorcono nella mia mente, confuse, veloci.
Immagini che non riconosco, che non riesco ad afferrare e
mettere a fuoco.
Che
non mi appartengono.
Non tutte,
almeno.
Di quelle poche che sento mie ne colgo appena i tratti.
Rivedo me stessa, bambina.
Rivedo volti che avevo dimenticato: compagni d’orfanotrofio,
assistenti sociali, personale medico sanitario, le signore della mensa,
gli
animatori dell’orfanotrofio;
rivedo luoghi: le camere d’accoglienza dei vari istituti che
mi avevano ospitato nel corso degli anni,
vedo aule di tribunale. Vedo Hanna disperata guardarmi con
sconforto.
E solo adesso mi ritorna alla mente quella donna e mi chiedo
che fine abbia fatto.
Rivivo
il mio viaggio in macchina con lei, verso Powerell Town.
Rivedo le strade, le case, la brina dei vetri colare a picco
insieme alle mie lacrime.
Rivivo la paura, lo sconforto nascosto dietro l’arroganza.
Rivedo Penelope per la prima volta.
Io
che mi nascondo dietro le gambe lunghe di Hanna, impaurita.
Io,
che orgogliosamente incrocio gli occhi in quelli di una donna che
piange nel
vedermi, capelli bianchi raccolti sul capo, occhi castani e caldi.
Lei
che mi accarezza una guancia, scruta il mio viso.
Le
labbra tremano prima di dirmi: «Ti stavo aspettando».
Si ripetono, assordanti, fin quando non sembrano perdere del
tutto il significato.
Una lenta cantilena che mi da la nausea.
“Ti
stavo aspettando”.
Da
quanto tempo?
Da
quanto tempo mi stava aspettando?
E
ancora: William che
è tornato per il mio compleanno.
Il
picnic improvvisato in soffitta.
Il libro. La paura. Le fiamme che ci sovrastano.
“A
Wondlake il consiglio è riunito”
Il
signor Gideon che trema a queste parole.
Di
nuovo.
Ne
ho paura.
E poi ripendo i sensi.
Quando
riapro gli occhi, sento un formicolio al
braccio destro e abbasso lo sguardo.
Trovo i capelli di Will, dritti e fissati sulla
testa, a sfiorarmi la spalla.
E’ seduto in modo irregolare su una sedia troppo
piccola per la sua altezza, il torace poggiato sul bordo del letto, le
mani
chiuse sotto il capo come un cuscino. Rimango a fissarlo per un
po’ mentre
dorme, ad ascoltare il suo respiro lento, regolare, mentre mi
schiarisco la
mente e decido cosa fare.
Mi chiedo da quanto tempo sia qui.
Come se avesse potuto ascoltare i miei pensieri
rumorosi, Will distorce la bocca in un’espressione
infastidita e apre gli occhi
leggermente.
“Buongiorno a te, silenziosa spettatrice del mio
sonno” dice, con voce roca e divertita.
“Buongiorno a te, William”.
“Come va?” mi chiede.
“Bene”, rispondo.
Lui annuisce, sembra poco convinto ma non
aggiunge altro.
Si mette dritto sul busto, apre le braccia in
aria, stiracchiandosi.
Poi allunga il collo verso la porta, incuriosito,
io a mia volta mi metto dritta e guardo nella stessa direzione, dove
vedo
spuntare una testa.
“Buongiorno a tutti e due!” dice la ragazza
della sera scorsa, i lunghi e lisci capelli castani raccolti in una
treccia
spettinata. Sbatto un paio di volte le palpebre prima di rispondere.
“Buongiorno...”, chiudo gli occhi e mi sforzo di
ricordare il suo nome, ma è inutile.
“Emma…”
risponde.
Sorride gentilmente nella mia direzione.
“Sì, Emma…” le dico.
“…entra”, e lei si avvicina
a me.
“Come andiamo?”, mi chiede.
Sbuffo e guardo il soffitto, mi prendo un po’ di
tempo prima di rispondere.
“… andiamo… ma non so precisamente
dove…”
rispondo debolmente, e lei non sembra sorpresa dalla mia risposta.
“Lo so…” dice semplicemente, e poi si
siede sul
cassettone ai piedi del letto, sospira.
“Quello che è successo ieri, Aria…
è stato
azzardato. Da parte mia, dovevo avvicinarmi con più riguardo
nei tuoi
confronti”. Guarda prima me, poi Will.
“Mi dispiace, ragazzi, tutti e due meritate una
spiegazione… e anche se non mi sento la persona
più adatta… è giusto che sia io
a iniziare…”
Io guardo Will, e Will guarda prima Emma, poi
me.
Nei suoi occhi vedo la stessa confusione che
cala nella mia mente come una nebbia.
“Sarò concisa, e mi scuso per questo: voglio
arrivare subito al punto, forse perché penso sia la via
più efficace. Se per
voi va bene!”.
Annuisco debolmente e mi metto seduta meglio nel
letto, le mani abbandonate in grembo che tormento l’una con
l’altra dal
nervosismo.
Will non ha ancora detto una parola da quando
Emma è entrata nella stanza, cosa strana e assai rara.
Ha uno sguardo attento, il corpo teso, e questo
mi fa ancora più preoccupare.
“Partirò dal principio. Dal tuo arrivo qui,
Aria, se non ti dispiace!”
Apre una busta che non avevo notato stringesse
tra le mani, ne caccia fuori il contenuto che si rivelano delle
fotografie. Me
le mette in ordine, in fila orizzontale, ai piedi del letto.
E so
con tutta me stessa, in questo momento, che vorrei andare
via.
Non
vorrei essere qui.
Non vorrei avere occhi per vedere quello che i
miei occhi stanno vedendo.
Lo
sento. Lo
sento nel sangue, nelle
cellule del mio corpo, che tutto questo… tutto questo che
sembra profondamente
sbagliato è, in realtà, la cosa più
giusta che io abbia mai provato in tutta la
mia vita.
Fa
male, però.
Perché mi smonta, pezzo dopo pezzo, da tutte le
convinzioni che io abbia mai avuto.
Nella prima foto vedo Penelope, più giovane di
come io l’abbia mai conosciuta, abbracciare due ragazzi. Un
uomo e una donna,
tra le braccia della donna è stretto un piccolo fagotto di
lenzuola da cui
spunta il viso di un neonato.
Guardo il viso dei due giovani.
Lo so
dal colore degli occhi e dai suoi capelli.
E dal mento e dalle guance di lui.
Allo
stesso modo in cui capisco che la neonata,
nelle braccia di sua madre, sono io.
Io so
chi sono, mi dicevo.
E
invece non ne sapevo niente.
Perché, dal modo in cui la donna nella foto
stringe la neonata — dal sorriso sulle sue labbra mentre la
neonata respira sul
suo petto, gli occhietti chiusi e le manine strette a pugno—
non posso credere che
una donna del genere possa aver abbandonato sua figlia, non senza aver
visto
una parte di lei morire a sua volta.
E’
di questo, adesso, che ho paura.
Mi
sono raccontata per diciotto anni sempre la
stessa storia.
E
invece non ne sapevo niente.
«Ti
prego, non voglio... non voglio sapere
nulla».
Mi tappo le orecchie con entrambe le mani,
scuoto la testa mentre la nascondo tra le ginocchia. Mi piego su me
stessa. Sento
le braccia di Will tirarmi di peso dalla mia posizione, io che oppongo
resistenza, inutilmente.
Mi stringe. Non parla, ma so che vuole darmi una
forza che adesso mi serve.
Nascondo gli occhi nella sua camicia azzurra di
cotone.
“Non
farmi questo, Emma…” dico
con
voce soffocata. «Facciamo
che non è
successo niente, otto anni di bugie...
non sono niente… se puoi raccontarmi ancora
l’ultima bugia. Dimmi che tutto
questo non è vero!»
Non so quando è entrata nella stanza, ma sento
la sua voce e so che è al mio fianco.
E capisco che sta per succedere, la barriera sta
per infrangersi. E non so se sono pronta.
“Troppe bugie, da otto anni a questa parte. Mi
devi scusare, bambina mia... non potevo fare altrimenti!”.
Solo allora mi stacco dalla presa di Will, e
guardo il viso di Penelope.
Mi sembra così stanca, adesso.
Emma mi guarda, si alza dalla panca e mi
sorride.
Fa un cenno con la testa a William, in direzione
della porta, e poi esce dalla stanza.
Will mi guarda, capisce, mi lascia un bacio
veloce su una tempia, e poi va via a sua volta.
A parlarmi è quel tipo di sensazioni che va
oltre il pensiero umano, ti scivola dentro e ti scava a fondo, trovando
solo
strada spianata.
Mi sembra di aver corso una maratona per tutto
questo tempo, trascinata da una forza tenace e meschina. Sento di
essere
arrivata dove dovevo arrivare. Ad aver raggiunto quella consapevolezza,
quel
tassello del puzzle che rimette tutto al suo posto.
... perché
appartengo a questa donna.
E lei appartiene a me, da sempre.
Sono stata io a scegliere questa donna, a
chiamarla nonna, prima ancora di
sapere.
Questo particolare, insignificante quanto
importante, mi porta a guardarmi indietro, e tutto cambia, si scompone
e
ricompone di fronte ai miei occhi.
Tutto diventa più nitido, particolari irrisori assumono
significati più importanti.
Tutti i momenti insieme, tutti i ricordi...
Non ho
mai dato tutta me stessa a una completa sconosciuta.
Solo
una domanda si fa spazio e sfiora le mie
labbra: “Perché?”.
Mi fa pensare a quelle foglie autunnali troppo
stanche per restare aggrappate al proprio ramo, che sono trascinate via
da una
potente folata di vento.
Le pieghe sul suo viso mi hanno lasciato vedere
la sofferenza, gli occhi per un attimo sono tornati assenti, persi
lontano chissà
dove, a respingere il dolore.
Quando ha parlato la sua voce è uscita fioca,
debole, ho represso l’istinto di abbracciarla come ad
assicurarmi che la foglia
non voli via, che non si allontani da me.
Ho incassato la testa tra le spalle, indurito lo
sguardo.
"... prima ancora che tu lo sapessi, prima
ancora che tu nascessi. Dal momento che questo piccolo e immenso
miracolo è
giunto a noi, donandoci la speranza di lottare... andare avanti. Sono
sempre
stata tua nonna. E ne avevamo bisogno, Aria... Avevamo bisogno di
credere…"
"Perché?" ripeto.
Anche il silenzio che ne segue è pregno
d’indugio, paura, attesa.
Prendo tra le dita tremanti un’altra delle foto.
Studio i visi che mi sorridono dalla pellicola
fotografica lucida, avidamente ripercorro il profilo della mascella,
delle
labbra, il taglio degli occhi, e un nodo mi stringe la gola.
Un
uomo e una donna,
sempre loro: lei è
stretta in un vestito da sposa liscio e semplice, capelli rossi
raccolti a metà
sul capo, acconciati in fondo in morbidi boccoli.
Orecchini semplici di madreperla, occhi verdi e
lucidi d’emozione.
Lui è più alto di lei, più magro,
capelli e
occhi castani, drizzati leggermente sul capo in un ciuffo vaporoso.
Basette
lunghe ma ordinate, labbra sottili e rosse, un viso pulito da bambino,
con
qualche ruga d’espressione di troppo.
E’ vestito in uno smoking gessato color marrone,
una camicia bianca spunta da sotto la giacca abbottonata, una cravatta
pende
dal suo collo esile.
Lei sorride a trentadue denti mentre si tiene la
pancia con le mani, piegata leggermente sulla schiena, una lacrima
spunta
dall’angolo dell’occhio destro.
Lui, proprio come lei, non degna di uno sguardo
l’obiettivo.
Guarda la donna che ha accanto sorridere,
gesticola al suo fianco, le lunghe e sproporzionate dita perse nel
vuoto, come
se stesse suonando un pianoforte invisibile.
Non rispondo, il mio silenzio è eloquente, e lei
continua.
Io, intanto, sono rapita dall’effetto che mi fa
vedere quei sorrisi e non permetto ai miei occhi di lasciarli andare. Non
più, adesso che so non posso lasciarli andare.
“Quando si è giovani si
commettono tanti errori. Si pensa all’eternità,
ogni errore così sembra quasi
giustificato…” sorride, alzando gli occhi al
cielo.
“E così Marie e Joseph si
sono ritrovati a scappare, celebrare il matrimonio in
segreto… e tutto andava
secondo i piani… poi la macchina andò in panne e
li lasciò per strada, alla
ricerca di un taxi… Erano molto innamorati, Aria, questo te
lo posso
assicurare. Si completavano. E ti hanno voluto con tutto
l’amore del mondo. Non
c’è giorno in cui tuo padre non mi
manchi”.
“Parlami di loro” le chiedo
prontamente, senza pensarci due volte, implorando altre notizie,
così da
riempire di dettagli l’immagine che mi sto facendo di loro,
sentendomi avida di
particolari.
"Tuo
padre era... un vulcano, sempre
pieno di energie, entusiasta. E ti coinvolgeva nella sua pazzia. Uno
poco
realista, se devo essere sincera…” ride.
“…sempre con la testa tra le nuvole...lo
è sempre stato. ma sapeva leggere negli occhi i bisogni
della gente. Mi manca
la sua risata più di ogni altra cosa al mondo…"
"Mi
dispiace...", dico, portandomi una mano al petto.
"Per
cosa?" risponde lei, leggermente sorpresa.
"Non
ho perso solo io... anche tu hai perso tanto..."
Penelope
chiude gli occhi. Annuisce silenziosamente col capo. I suoi occhi
diventano
umidi ma ricaccia indietro le lacrime con un sorriso, prima di
continuare:
“Comunque,
dopo quel giorno hanno deciso di rinviare il matrimonio a quanto tu
saresti
stata abbastanza grande da portare le fedi all’altare.
Così si sono ritrovati
in una gelateria, tua madre aveva le voglie. Due sposi, in gelateria,
che
ordinano due coppie di gelato maxi; Hanno chiesto a un passante di
scattargli
una fotografia e poi sono tornati a casa, finalmente... sporchi di pistacchio e
nocciola… ma felici”.
…hanno
deciso di rinviare il
matrimonio a quanto tu saresti stata abbastanza grande da portare le
fedi all’altare…
Non
era nei loro piani non amarmi, non prendersi cura di me.
Mi
avrebbero amato incondizionatamente, con quell’amore cieco e
sordo e quel
pizzico di incoscienza che contraddistingueva la loro età.
Ma
qualcuno, o qualcosa… ha
impedito loro di veder realizzato il loro sogno.
Penelope mi prende le mani,
le sento tremare nelle mie mentre guarda i miei occhi attentamente.
Vuole che capisca, vuole
assicurarsi che io sia completamente presente a me stessa adesso.
Che io sia pronta per quello
che mi sta per dire.
E per un attimo spero, voglio
credere che non sia così, ma la presa di Penelope si fa
ancora più tenace ed io
capisco, e contraccambio.
Allora
i suoi occhi si
riempiono di lacrime.
“C’era una guerra… a Wondlake,
quando sei nata. Sono stati anni bui, terribili, sono state fatte cose
indicibili e abbiamo perso cose inquantificabili. Capisco che quello
che sto
per dirti può sembrare assurdo, scioccante, ma devi starmi a
sentire adesso…”
Annuisco.
“…
nessuno sa perché si nasce
come si nasce. La creazione stessa è un mistero…
e nessuno sa perché, nel corso
dei secoli, particolari esseri umani hanno ereditato particolari doti.
C’è chi
nasce per essere artista, per fare la differenza, per avere una
carriera tutta
in salita… e poi c’è chi si riscopre
padrone delle parole. E con quelle parole
riesce a creare qualcosa, in qualche modo… la magia…
si crea”.
Scuoto
la testa in senso di
diniego: “…è… contro
natura?”
“Beh…”
risponde Penelope. “Dipende
da come decidi di usare questo potenziale che ti è stato
dato dalla vita. Sei
lo preservi e te ne prendi cura rispettando la natura, il tempo, non
cambiando
gli eventi con il potere che hai… preservi la natura stessa
e l’aiuti”.
“Perché
è scoppiata una
guerra, allora?” chiedo.
“Perché…
siamo uomini, e l’uomo
è fallibile, si macchia di colpe, la ragione non sempre ci
appartiene. E si
fanno cose sbagliate. Si vuole raggiungere un potere ancora
più assoluto, si
vuole dominare sugli altri. Si è accecati. Il più
forte vince sul più debole.
Eravamo quattro famiglie, a Wondlake, responsabili del grande
consiglio: il
nostro compito era di mantenere l’equilibrio delle cose. Fino
e quando, una di
noi, ha raggiunto un potere maggiore, affidandosi a forze diverse da
quelle
della natura, ma piuttosto a forze sporche, oscure, dalla morte, dagli
inferi. Gideon,
Lewis, Green e Trendolf allora si sono uniti contro di
Darkins… ma il
loro potere era più forte. Hanno ucciso tutti i nostri
figli, il loro intento
era di spazzare via i giovani, così da colpire, di
conseguenza, anche noi,
annientando le nostre speranze. Quando i tuoi genitori hanno capito
questo, e
tuo madre ti ha dato alla luce, il suo primo pensiero è
stato quello di
allontanarti da questo mondo. Metterti al sicuro, rilegandoti a una
vita
normale”.
…il
loro
intento era di spazzare via i giovani…
“Anche
i genitori di William sono morti per mano dei Darkins?”
Penelope
annuisce.
“Adesso,
per fermare questa guerra potevamo far fronte solo a una soluzione:
eliminare
il potere dalla fonte. Sia la magia bianca che quella nera, rinunciare
ai
nostri “doni”. Ogni traccia di magia è
stata rimossa, racchiusa, intrappolata. I
Darkins hanno fatto perdere le loro tracce. Wondlake è
diventata una città
fantasma. Il consiglio è stato sciolto, perché
non aveva più scopo di esistere…
fino a ieri”.
“Ieri
è successo qualcosa…” dico.
“Io… e Will… non so come…
c’era un incendio. Poi
tutto è tornato normale. Avevamo trovato un libro,
c’erano strane cose scritte
sopra. E poi ho letto una frase: “A
Wondlake
il consiglio è riunito”.
“Esatto…”
Penelope si alza, apre il cassettone ai piedi del letto, la vedo fare
pressione
sul fondo del baule, contro il pannello di legno. Sento un suono come
un
lucchetto aprirsi, poi prende tra le mani quello che a me sembra una
copia
esatta del libro che abbiamo trovato nella soffitta del Wake up Brain.
“Questo,
ce l’ha ognuno di noi. Era il nostro modo di comunicare in
segreto durante la
guerra. Qualcuno ha riusato questo metodo, dopo anni… e
mettendo insieme i
pezzi di quello che mi hai raccontato di te e William, e di Emma che si
è
trasfigurata da gatto di fronte alla nostra porta… posso
solo capire che i poteri
non sono più vincolati. Sono tornati.”
“E
questo che vuol dire?” chiedo.
Penelope
mi guarda con timore, sospira prima di dire:
MA
DI UNA COSA SONO CERTA: questa storia sarà scritta per
intero e sarà finita perché
la porto dentro. So dove sono partita, so dove voglio arrivare, quello
che c’è
in mezzo è un viaggio stupendo da cui rimango sempre
affascinata ogni volta che
scrivo di Aria, di Will, di Powerell Town o Wondlake. QUESTA STORIA
VEDRA’ UNA
FINE. E’ una promessa.
E
adesso, se c’è ancora qualcuno disposto a leggere
lo sproloquio di una giovane
aspirante scrittrice\psicopatica, prego. Aspetto con tutto il cuore di
sapere
cosa ne pensate di questo capitolo. Delle rivelazioni. Cosa vi
è piaciuto, cosa
no.
A
presto (spero). Un bacio immenso.
-Francesca.