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Autore: _FrenkieFaye_    01/06/2014    0 recensioni
In guerra, Marie Howell dà alla luce una bambina, mentre attorno la terra trema e le vite si accartocciano su se stesse, rotolando placide verso la morte; è proprio dagli occhi della loro bambina, Aria, che la storia viene raccontata, anni dopo.
Ignara delle sue origini, del suo passato. Diciott'anni dopo Wondlake è di nuovo in pericolo, minacciata da una seconda guerra che si prospetta più dolente e feroce della precedente.
Fazioni opposte pronte a contendersi il potere per intenti diversi.
E tra tutto l'orrore, sconcerto, dolore e disprezzo, dei germogli timorosi crescono: amicizie pronte a cambiare tutto, a riscrivere la storia. Un amore impossibile. Delle perdite incolmabili.
Gideon, Lewis, Green e Trendolf ancora insieme, come l’ultima volta.
Questa è la storia di Aria Faith Lewis: la bambina nata in guerra, tornata alla guerra per vivere.
Genere: Fantasy, Guerra, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Look your Falling Star ::
Cap. III (Revelations)

Immagini si distorcono nella mia mente, confuse, veloci.
Immagini che non riconosco, che non riesco ad afferrare e mettere a fuoco.

Che non mi appartengono.
Non tutte, almeno.
Di quelle poche che sento mie ne colgo appena i tratti.
Rivedo me stessa, bambina.
Rivedo volti che avevo dimenticato: compagni d’orfanotrofio, assistenti sociali, personale medico sanitario, le signore della mensa, gli animatori dell’orfanotrofio;
rivedo luoghi: le camere d’accoglienza dei vari istituti che mi avevano ospitato nel corso degli anni,
vedo aule di tribunale. Vedo Hanna disperata guardarmi con sconforto.
E solo adesso mi ritorna alla mente quella donna e mi chiedo che fine abbia fatto.

Rivivo il mio viaggio in macchina con lei, verso Powerell Town.

 
Rivedo le strade, le case, la brina dei vetri colare a picco insieme alle mie lacrime.
Rivivo la paura, lo sconforto nascosto dietro l’arroganza.
Rivedo Penelope per la prima volta.

Io che mi nascondo dietro le gambe lunghe di Hanna, impaurita.
Io, che orgogliosamente incrocio gli occhi in quelli di una donna che piange nel vedermi, capelli bianchi raccolti sul capo, occhi castani e caldi.
Lei che mi accarezza una guancia, scruta il mio viso.
Le labbra tremano prima di dirmi
: «Ti stavo aspettando».

Assimilo ossessivamente quelle parole che diventano un eco nella mia testa.
Si ripetono, assordanti, fin quando non sembrano perdere del tutto il significato.
Una lenta cantilena che mi da la nausea.

“Ti stavo aspettando”.
Da quanto tempo?
Da quanto tempo mi stava aspettando?
E ancora: William che è tornato per il mio compleanno.
Il picnic improvvisato in soffitta.
Il libro. La paura. Le fiamme che ci sovrastano.

“A Wondlake il consiglio è riunito”
Il signor Gideon che trema a queste parole.

Sento dentro di me la consapevolezza che tutto sta cambiando.
Di nuovo.
Ne ho paura.
E poi ripendo i sensi.

~

Quando riapro gli occhi, sento un formicolio al braccio destro e abbasso lo sguardo.
Trovo i capelli di Will, dritti e fissati sulla testa, a sfiorarmi la spalla.
E’ seduto in modo irregolare su una sedia troppo piccola per la sua altezza, il torace poggiato sul bordo del letto, le mani chiuse sotto il capo come un cuscino. Rimango a fissarlo per un po’ mentre dorme, ad ascoltare il suo respiro lento, regolare, mentre mi schiarisco la mente e decido cosa fare.
Mi chiedo da quanto tempo sia qui.
Come se avesse potuto ascoltare i miei pensieri rumorosi, Will distorce la bocca in un’espressione infastidita e apre gli occhi leggermente.
“Buongiorno a te, silenziosa spettatrice del mio sonno” dice, con voce roca e divertita.
“Buongiorno a te, William”.
“Come va?” mi chiede.
“Bene”, rispondo.
Lui annuisce, sembra poco convinto ma non aggiunge altro.
Si mette dritto sul busto, apre le braccia in aria, stiracchiandosi.
Poi allunga il collo verso la porta, incuriosito, io a mia volta mi metto dritta e guardo nella stessa direzione, dove vedo spuntare una testa.
“Buongiorno a tutti e due!” dice la ragazza della sera scorsa, i lunghi e lisci capelli castani raccolti in una treccia spettinata. Sbatto un paio di volte le palpebre prima di rispondere.
“Buongiorno...”, chiudo gli occhi e mi sforzo di ricordare il suo nome, ma è inutile.
“Emma…” risponde. Sorride gentilmente nella mia direzione.
“Sì, Emma…” le dico. “…entra”, e lei si avvicina a me.
“Come andiamo?”, mi chiede.
Sbuffo e guardo il soffitto, mi prendo un po’ di tempo prima di rispondere.
“… andiamo… ma non so precisamente dove…” rispondo debolmente, e lei non sembra sorpresa dalla mia risposta.
“Lo so…” dice semplicemente, e poi si siede sul cassettone ai piedi del letto, sospira.
“Quello che è successo ieri, Aria… è stato azzardato. Da parte mia, dovevo avvicinarmi con più riguardo nei tuoi confronti”. Guarda prima me, poi Will.
“Mi dispiace, ragazzi, tutti e due meritate una spiegazione… e anche se non mi sento la persona più adatta… è giusto che sia io a iniziare…”
Io guardo Will, e Will guarda prima Emma, poi me.
Nei suoi occhi vedo la stessa confusione che cala nella mia mente come una nebbia.
“Sarò concisa, e mi scuso per questo: voglio arrivare subito al punto, forse perché penso sia la via più efficace. Se per voi va bene!”.
Annuisco debolmente e mi metto seduta meglio nel letto, le mani abbandonate in grembo che tormento l’una con l’altra dal nervosismo.
Will non ha ancora detto una parola da quando Emma è entrata nella stanza, cosa strana e assai rara.
Ha uno sguardo attento, il corpo teso, e questo mi fa ancora più preoccupare.
“Partirò dal principio. Dal tuo arrivo qui, Aria, se non ti dispiace!”
Apre una busta che non avevo notato stringesse tra le mani, ne caccia fuori il contenuto che si rivelano delle fotografie. Me le mette in ordine, in fila orizzontale, ai piedi del letto.

E so con tutta me stessa, in questo momento, che vorrei andare via.
Non vorrei essere qui.
Non vorrei avere occhi per vedere quello che i miei occhi stanno vedendo.

Lo sento. Lo sento nel sangue, nelle cellule del mio corpo, che tutto questo… tutto questo che sembra profondamente sbagliato è, in realtà, la cosa più giusta che io abbia mai provato in tutta la mia vita.

Fa male, però.
Perché mi smonta, pezzo dopo pezzo, da tutte le convinzioni che io abbia mai avuto.
Nella prima foto vedo Penelope, più giovane di come io l’abbia mai conosciuta, abbracciare due ragazzi. Un uomo e una donna, tra le braccia della donna è stretto un piccolo fagotto di lenzuola da cui spunta il viso di un neonato.
Guardo il viso dei due giovani.

Lo so dal colore degli occhi e dai suoi capelli.
E dal mento e dalle guance di lui.

Allo stesso modo in cui capisco che la neonata, nelle braccia di sua madre, sono io.

 

Io so chi sono, mi dicevo.
E invece non ne sapevo niente.

Questa foto è come se mi avesse costretta di peso di fronte a uno specchio a rimirare la mia immagine, così, fino alla nausea, fino a perdermi e non capire davvero chi sia la ragazza che mi guarda dall’altro lato.
Perché, dal modo in cui la donna nella foto stringe la neonata — dal sorriso sulle sue labbra mentre la neonata respira sul suo petto, gli occhietti chiusi e le manine strette a pugno— non posso credere che una donna del genere possa aver abbandonato sua figlia, non senza aver visto una parte di lei morire a sua volta.

E’ di questo, adesso, che ho paura.
Mi sono raccontata per diciotto anni sempre la stessa storia.
E invece non ne sapevo niente.

 

«Ti prego, non voglio... non voglio sapere nulla».
Mi tappo le orecchie con entrambe le mani, scuoto la testa mentre la nascondo tra le ginocchia. Mi piego su me stessa. Sento le braccia di Will tirarmi di peso dalla mia posizione, io che oppongo resistenza, inutilmente.
Mi stringe. Non parla, ma so che vuole darmi una forza che adesso mi serve.
Nascondo gli occhi nella sua camicia azzurra di cotone.

“Non farmi questo, Emma…” dico con voce soffocata. «Facciamo che non è successo niente, otto anni di bugie... non sono niente… se puoi raccontarmi ancora l’ultima bugia. Dimmi che tutto questo non è vero!»

Sento una mano posarsi sulla mia spalla. Una mano calda, calma.
Non so quando è entrata nella stanza, ma sento la sua voce e so che è al mio fianco.
E capisco che sta per succedere, la barriera sta per infrangersi. E non so se sono pronta.
“Troppe bugie, da otto anni a questa parte. Mi devi scusare, bambina mia... non potevo fare altrimenti!”.
Solo allora mi stacco dalla presa di Will, e guardo il viso di Penelope.
Mi sembra così stanca, adesso.
Emma mi guarda, si alza dalla panca e mi sorride.
Fa un cenno con la testa a William, in direzione della porta, e poi esce dalla stanza.
Will mi guarda, capisce, mi lascia un bacio veloce su una tempia, e poi va via a sua volta.

E’ una presa di coscienza veloce.
A parlarmi è quel tipo di sensazioni che va oltre il pensiero umano, ti scivola dentro e ti scava a fondo, trovando solo strada spianata.
Mi sembra di aver corso una maratona per tutto questo tempo, trascinata da una forza tenace e meschina. Sento di essere arrivata dove dovevo arrivare. Ad aver raggiunto quella consapevolezza, quel tassello del puzzle che rimette tutto al suo posto.
... perché appartengo a questa donna.
E lei appartiene a me, da sempre.
Sono stata io a scegliere questa donna, a chiamarla nonna, prima ancora di sapere.
Questo particolare, insignificante quanto importante, mi porta a guardarmi indietro, e tutto cambia, si scompone e ricompone di fronte ai miei occhi.
Tutto diventa più nitido, particolari irrisori assumono significati più importanti.
Tutti i momenti insieme, tutti i ricordi...

Non ho mai dato tutta me stessa a una completa sconosciuta.
Solo una domanda si fa spazio e sfiora le mie labbra: “Perché?”.

 Il volto di Penelope mi sembra più vecchio, fragile, adesso.
Mi fa pensare a quelle foglie autunnali troppo stanche per restare aggrappate al proprio ramo, che sono trascinate via da una potente folata di vento.
Le pieghe sul suo viso mi hanno lasciato vedere la sofferenza, gli occhi per un attimo sono tornati assenti, persi lontano chissà dove, a respingere il dolore.
Quando ha parlato la sua voce è uscita fioca, debole, ho represso l’istinto di abbracciarla come ad assicurarmi che la foglia non voli via, che non si allontani da me.

"Perché... perché sono egoista. Perché non volevo ricordare, Aria. Non volevo ritornare con la mente lì, non volevo rivivere certe cose... certi momenti"
Ho incassato la testa tra le spalle, indurito lo sguardo.
"... prima ancora che tu lo sapessi, prima ancora che tu nascessi. Dal momento che questo piccolo e immenso miracolo è giunto a noi, donandoci la speranza di lottare... andare avanti. Sono sempre stata tua nonna. E ne avevamo bisogno, Aria... Avevamo bisogno di credere…"
"Perché?" ripeto.

La mia domanda è diretta e riempie ogni cosa.
Anche il silenzio che ne segue è pregno d’indugio, paura, attesa.
Prendo tra le dita tremanti un’altra delle foto.
Studio i visi che mi sorridono dalla pellicola fotografica lucida, avidamente ripercorro il profilo della mascella, delle labbra, il taglio degli occhi, e un nodo mi stringe la gola.

Un uomo e una donna, sempre loro: lei è stretta in un vestito da sposa liscio e semplice, capelli rossi raccolti a metà sul capo, acconciati in fondo in morbidi boccoli.
Orecchini semplici di madreperla, occhi verdi e lucidi d’emozione.
Lui è più alto di lei, più magro, capelli e occhi castani, drizzati leggermente sul capo in un ciuffo vaporoso. Basette lunghe ma ordinate, labbra sottili e rosse, un viso pulito da bambino, con qualche ruga d’espressione di troppo.
E’ vestito in uno smoking gessato color marrone, una camicia bianca spunta da sotto la giacca abbottonata, una cravatta pende dal suo collo esile.
Lei sorride a trentadue denti mentre si tiene la pancia con le mani, piegata leggermente sulla schiena, una lacrima spunta dall’angolo dell’occhio destro.
Lui, proprio come lei, non degna di uno sguardo l’obiettivo.
Guarda la donna che ha accanto sorridere, gesticola al suo fianco, le lunghe e sproporzionate dita perse nel vuoto, come se stesse suonando un pianoforte invisibile.

"Non si sono mai sposati davvero, sai?", aggiunge Penelope, poggiando una sua mano sulla mia.
Non rispondo, il mio silenzio è eloquente, e lei continua.
Io, intanto, sono rapita dall’effetto che mi fa vedere quei sorrisi e non permetto ai miei occhi di lasciarli andare.
Non più, adesso che so non posso lasciarli andare.
“Quando si è giovani si commettono tanti errori. Si pensa all’eternità, ogni errore così sembra quasi giustificato…” sorride, alzando gli occhi al cielo.
“E così Marie e Joseph si sono ritrovati a scappare, celebrare il matrimonio in segreto… e tutto andava secondo i piani… poi la macchina andò in panne e li lasciò per strada, alla ricerca di un taxi… Erano molto innamorati, Aria, questo te lo posso assicurare. Si completavano. E ti hanno voluto con tutto l’amore del mondo. Non c’è giorno in cui tuo padre non mi manchi”.
“Parlami di loro” le chiedo prontamente, senza pensarci due volte, implorando altre notizie, così da riempire di dettagli l’immagine che mi sto facendo di loro, sentendomi avida di particolari.
"
Tuo padre era... un vulcano, sempre pieno di energie, entusiasta. E ti coinvolgeva nella sua pazzia. Uno poco realista, se devo essere sincera…” ride. “…sempre con la testa tra le nuvole...lo è sempre stato. ma sapeva leggere negli occhi i bisogni della gente. Mi manca la sua risata più di ogni altra cosa al mondo…"
"Mi dispiace...", dico, portandomi una mano al petto.
"Per cosa?" risponde lei, leggermente sorpresa.
"Non ho perso solo io... anche tu hai perso tanto..."
Penelope chiude gli occhi. Annuisce silenziosamente col capo. I suoi occhi diventano umidi ma ricaccia indietro le lacrime con un sorriso, prima di continuare:
“Comunque, dopo quel giorno hanno deciso di rinviare il matrimonio a quanto tu saresti stata abbastanza grande da portare le fedi all’altare. Così si sono ritrovati in una gelateria, tua madre aveva le voglie. Due sposi, in gelateria, che ordinano due coppie di gelato maxi; Hanno chiesto a un passante di scattargli una fotografia e poi sono tornati a casa, finalmente...  sporchi di pistacchio e nocciola… ma felici”.

 

…hanno deciso di rinviare il matrimonio a quanto tu saresti stata abbastanza grande da portare le fedi all’altare…

Non era nei loro piani lasciarmi andare.
Non era nei loro piani non amarmi, non prendersi cura di me.
Mi avrebbero amato incondizionatamente, con quell’amore cieco e sordo e quel pizzico di incoscienza che contraddistingueva la loro età.

Ma qualcuno, o qualcosa… ha impedito loro di veder realizzato il loro sogno.

 
Penelope mi prende le mani, le sento tremare nelle mie mentre guarda i miei occhi attentamente.
Vuole che capisca, vuole assicurarsi che io sia completamente presente a me stessa adesso.
Che io sia pronta per quello che mi sta per dire.
“… sono morti, vero?” abbasso lo sguardo mentre pronuncio questa frase.
E per un attimo spero, voglio credere che non sia così, ma la presa di Penelope si fa ancora più tenace ed io capisco, e contraccambio.

Allora i suoi occhi si riempiono di lacrime.
“C’era una guerra… a Wondlake, quando sei nata. Sono stati anni bui, terribili, sono state fatte cose indicibili e abbiamo perso cose inquantificabili. Capisco che quello che sto per dirti può sembrare assurdo, scioccante, ma devi starmi a sentire adesso…”

Annuisco.

“… nessuno sa perché si nasce come si nasce. La creazione stessa è un mistero… e nessuno sa perché, nel corso dei secoli, particolari esseri umani hanno ereditato particolari doti. C’è chi nasce per essere artista, per fare la differenza, per avere una carriera tutta in salita… e poi c’è chi si riscopre padrone delle parole. E con quelle parole riesce a creare qualcosa, in qualche modo… la magia… si crea”.

Scuoto la testa in senso di diniego: “…è… contro natura?”

“Beh…” risponde Penelope. “Dipende da come decidi di usare questo potenziale che ti è stato dato dalla vita. Sei lo preservi e te ne prendi cura rispettando la natura, il tempo, non cambiando gli eventi con il potere che hai… preservi la natura stessa e l’aiuti”.

“Perché è scoppiata una guerra, allora?” chiedo.

“Perché… siamo uomini, e l’uomo è fallibile, si macchia di colpe, la ragione non sempre ci appartiene. E si fanno cose sbagliate. Si vuole raggiungere un potere ancora più assoluto, si vuole dominare sugli altri. Si è accecati. Il più forte vince sul più debole. Eravamo quattro famiglie, a Wondlake, responsabili del grande consiglio: il nostro compito era di mantenere l’equilibrio delle cose. Fino e quando, una di noi, ha raggiunto un potere maggiore, affidandosi a forze diverse da quelle della natura, ma piuttosto a forze sporche, oscure, dalla morte, dagli inferi. Gideon, Lewis, Green e Trendolf allora si sono uniti contro di Darkins… ma il loro potere era più forte. Hanno ucciso tutti i nostri figli, il loro intento era di spazzare via i giovani, così da colpire, di conseguenza, anche noi, annientando le nostre speranze. Quando i tuoi genitori hanno capito questo, e tuo madre ti ha dato alla luce, il suo primo pensiero è stato quello di allontanarti da questo mondo. Metterti al sicuro, rilegandoti a una vita normale”.

 
…il loro intento era di spazzare via i giovani…

“Anche i genitori di William sono morti per mano dei Darkins?”
Penelope annuisce.

“Adesso, per fermare questa guerra potevamo far fronte solo a una soluzione: eliminare il potere dalla fonte. Sia la magia bianca che quella nera, rinunciare ai nostri “doni”. Ogni traccia di magia è stata rimossa, racchiusa, intrappolata. I Darkins hanno fatto perdere le loro tracce. Wondlake è diventata una città fantasma. Il consiglio è stato sciolto, perché non aveva più scopo di esistere… fino a ieri”.

“Ieri è successo qualcosa…” dico. “Io… e Will… non so come… c’era un incendio. Poi tutto è tornato normale. Avevamo trovato un libro, c’erano strane cose scritte sopra. E poi ho letto una frase: “A Wondlake il consiglio è riunito”.

“Esatto…” Penelope si alza, apre il cassettone ai piedi del letto, la vedo fare pressione sul fondo del baule, contro il pannello di legno. Sento un suono come un lucchetto aprirsi, poi prende tra le mani quello che a me sembra una copia esatta del libro che abbiamo trovato nella soffitta del Wake up Brain.

“Questo, ce l’ha ognuno di noi. Era il nostro modo di comunicare in segreto durante la guerra. Qualcuno ha riusato questo metodo, dopo anni… e mettendo insieme i pezzi di quello che mi hai raccontato di te e William, e di Emma che si è trasfigurata da gatto di fronte alla nostra porta… posso solo capire che i poteri non sono più vincolati. Sono tornati.”

“E questo che vuol dire?” chiedo.

Penelope mi guarda con timore, sospira prima di dire:

“Che il consiglio è riunito. E dobbiamo tornare a Wondlake, oggi”.

 

SpazioAutrice: allora, facciamo un po’ di chiarezza. E’ passato più di un anno da quando ho ri-postato questa nuova versione di Your Falling Star. E sono stata davvero poco costante con gli aggiornamenti, mi sono dedicata ad altri progetti, a One-Shot, a serie televisive… e non a questa storia che per me è l’inizio di tutto.  Adesso, so di essere un disastro… e non so neanche se c’è ancora qualcuno disposto a seguire questa storia. E non so quanto potrà passare tra un aggiornamento e l’altro, io faccio del mio meglio ma non sono una persona costante.
MA DI UNA COSA SONO CERTA: questa storia sarà scritta per intero e sarà finita perché la porto dentro. So dove sono partita, so dove voglio arrivare, quello che c’è in mezzo è un viaggio stupendo da cui rimango sempre affascinata ogni volta che scrivo di Aria, di Will, di Powerell Town o Wondlake. QUESTA STORIA VEDRA’ UNA FINE. E’ una promessa.
E adesso, se c’è ancora qualcuno disposto a leggere lo sproloquio di una giovane aspirante scrittrice\psicopatica, prego. Aspetto con tutto il cuore di sapere cosa ne pensate di questo capitolo. Delle rivelazioni. Cosa vi è piaciuto, cosa no.
A presto (spero). Un bacio immenso.

-Francesca.

 

 

   
 
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