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Autore: Chemical Lady    02/06/2014    4 recensioni
[Seguito di No Good Deed]
Passò gli occhi da una cartina all’altra, soffermandosi un istante sull’astrolabio che l’uomo davanti a lei le stava mostrando, fino ad arrivare alla pelle conciata dell’abissino.
La prese fra le mani, passandovi sopra le dita e saggiandone i rilievi, prima di alzare gli occhi in quelli di Leonardo. Il momento era giunto e lei si era preparata per quel giorno sin dalla sua nascita.
Aggirò il letto, andando verso quel piccolo scrigno che aveva sempre portato con sé, in ogni suo spostamento, quasi come se in esso vi fosse il più prezioso dei tesori.
Invero, era proprio così: Il diario di suo nonno, la chiave, il libro di Bologna e tutti i suoi appunti. Ore e ore passate a tradurre, interpretare e cercare di comprendere ciò che volevano dire.
Poi era arrivato lui, quell’artista folle dall’intelletto unico e tutto si era svelato: i pezzi di quel intricato puzzle erano finalmente disposti davanti a loro, ancora sparsi, ma pronti a rivelare la loro celata trama.
Genere: Avventura, Generale, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Girolamo Riario, Leonardo da Vinci, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: Movieverse, What if? | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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Buon inizio settimana a tutti quanti!

Tanto per iniziare, ringrazio chi ha letto il prologo e ha deciso di inserire la storia tra le seguite.

Siete più di quanti mi aspettassi, grazie!

Detto ciò, due avvertenze: in primo luogo, il capitolo è autobetato, quindi spero che non contenga troppi strafalcioni.

Secondariamente, qui si aggiungono diversi nuovi personaggi, che ci serviranno in vista dello scopo finale.

Nessuno è inutile, tutti hanno una meta, un arrivo.

Anche il nuovo animaletto di Beatrice e il misterioso Corax. (chi vi aspettate che sia, questo losco figuro?)

Trovate i pv che ho scelto sulla mia pagina, così che possano aiutarvi nella lettura.

Vi segnalo anche questo piccolo video che ho trovato per caso mentre sceglievo la canzone per il capitolo. Visto che immagino lei come Beatrice, magari è ispirante!

Inoltre, la festa della Madonna di Fuoco è davvero il patrono di Forlì, che io vi ho descritto così come veniva festeggiato nel tardo rinascimento: i poveri andavano dai propri parroci e chiedevano di scrivere su un foglio un messaggio per la Vergine, che poi veniva lanciato in un grande falò prima della messa e seguivano quindi tutte le preghiere del caso.

Detto ciò, buona lettura :D

Come sempre, un pensierino è ben accetto, se no a presto!

Jessy  

 

 

 

Amor onni cosa vince

 

Parte prima:

Raro cade, chi ben cammina.

Capitolo primo:

Cose che erano e cose che sono.

 

 

 

*

 

 

 

Everyone thinks that I have it all

But it's so empty living behind these castle walls

https://www.youtube.com/watch?v=qjY3LfHbdL0

 

 

 

 

4 febbraio 1478, Ducato di Forlì.

Patrono della Madonna di Fuoco.

Sette mesi prima dell’arrivo nel Nuovo Mondo

 

 

 

Il crepitare delle fiamme lo ipnotizzava, rendendo tutti i giocattoli che lo circondavano noiosi.

Nonostante potesse a stento star seduto, il bambino tentò di avvicinarsi al camino, allungando una manina verso il fuoco lontano. Si sbilanciò troppo e, quando la schiena si staccò del tutto dalla pila di cuscini e pelli che lo tenevano sollevato, cadde in avanti.

Non un solo vagito uscì però dalle sue labbra.

Per quanto piccolo, Alessandro non piangeva mai.

Era assai strano che un neonato di quattro mesi non emettesse un fiato dopo aver immerso il volto nelle più svariate pellicce stese sul pavimento, eppure lui insisteva, cercando di far leva sulle deboli e grassocce braccina per rimettersi seduto.

Gli venne data la possibilità di riuscire da solo, ma dopo qualche minuto fu aiutato.

Un paio di mani percorse da un dedalo di rughe e calli lo riappoggiarono sui cuscini, prima di passare le dita tra i radi capelli neri sulla sua testolina.

“Col padre che ti ritrovi, è un miracolo che tu sia tanto buono, creatura.”

Che fosse il figlio del conte, nessuno poteva negarlo; aveva gli stessi occhi del colore del miele, eppure al contrario di quelli del genitore, i suoi erano limpidi e puri di curiosa innocenza.

Ogni singolo giorno della sua longeva vita, monna Agnese pregava affinché essi rimanessero tali anche crescendo, seppur avesse ben poca fiducia in ciò.

“Una mela non cade mai troppo lontana dall’albero, dicono. Se diverrai come tua madre, avrai solo il coraggio di una tigre e la forza d’animo di cento uomini. Cresci per bene, piccolo Sandro.”

Aveva visto nascere più bambini di quanti ne potesse contare, nell’arco della sua vita; aveva sempre fatto la levatrice, sopravvivendo alle sue tre sorelle e arrivando alla veneranda età di settantasette anni per accudire il figlio del conte Riario e della contessa Beatrice.

In fin dei conti, le erano sempre piaciuti i castelli e il suo corpo le consentiva ancora di fare lunghe passeggiate per i genti giardini che la sua signora aveva provveduto a bonificare nell’ultimo anno.

La città era rinata, sotto la guida di Beatrice Riario de’Medici, fiorendo in tutta la sua antica bellezza.

Servirli era quindi un onore perché, per quanto male giudicasse il conte, la reggente della cittadella era più che meritevole della sua stima.

Rialzò gli occhi dalla figura del nobile fanciullo, tutto preso dal masticare la testa di un cavallino di legno lucido, riprendendo quindi a sferruzzarsi una copertina di lana.

Quello era l’inverno più rigido che avessero mai avuto.

Di rado nevicava, nella Romagna, ma ormai da più di due mesi ve ne era una gamba quasi ogni mattina al risveglio.

“Che tempo inclemente, chissà cosa il buon Signore vuole dirci.”

Quasi non fece in tempo a riabbassare gli occhi sui ferri, che le porte si aprirono.

Soprassedette sulla giovane guardia che non si era premurata di bussare, troppo presa dal  guardarlo in cagnesco.

“Vi chiedo perdono, madonna Agnese.” Iniziò, ma venne interrotto.

“Vi sembro una donna di nobili natali?” rilanciò lei, appoggiandosi al bracciolo della poltrona “Cosa volete?”

“Un ospite illustre quanto inaspettato è giunto alla rocca, ma in tende parlare solamente con la contessa.” Spiegò, timoroso.

Quella donna sapeva spaventar anche l’animo più forte.

“Beatrice non è a Forlì.” Riferì Agnese, sicura che quel ragazzetto lo sapesse e desiderasse solo tediarla. “Che torni un’altra volta.”

“Viene da Firenze.”

Furono quelle a risvegliare l’interesse della balia. Un po’ a fatica si alzò, sistemando il grembiule che portava in vita.

Nelle assenze sia della sua signora che del conte, era lei ad amministrare i loro affari alla rocca di Ravaldino, scavalcando spesso lo stesso Tommaso Feo. Era stata Beatrice stessa a deciderlo, viste le grandi abilità di persuasione di monna Agnese.

Era in grado di vendere acqua di mare ad un pescatore, se ci si impegnava davvero.

“Me ne occuperò subito.”  Reclamò autoritaria, prima di fermarsi davanti alla guardia, per guardarlo negli occhi “Il vostro nome, giovane?”

Buononato,  monna.” Rispose questi in fretta “Pio Buononato.”

Lei annuì, pensierosa, mentre lo memorizzava. Prese poi il ragazzo a braccetto, conducendolo davanti al focolare. Solo in quel momento, egli si accorse del bambino “Lo vedete, Pio? Quello è il pargolo di Girolamo Riario, sangue del suo sangue. Il suo erede. Rimarrete con lui e baderete alla sua incolumità. Se dovesse in qualche modo ferirsi, riporterò il vostro nome all’attenzione del conte o peggio... A quella di sua moglie.”

Lasciata la sfortunata guardia a quel pericoloso incarico – tanto che sicuramente avrebbe desiderato diventare un fante di prima linea, poi- Agnese si recò nell’atrio del castello.

Sapeva che chiunque non poteva spingersi oltre, previa autorizzazione della signoria o di lei stessa.

Ad attenderla, trovò uno stuolo di guardie in  cappa vermiglia e una donna.

La mantella nera le donava magnificamente, visto la sua figura snella.

Con lei vi era anche un uomo alto, che pareva un generale, visti i titoli che portava.

Agnese li guardò, schiarendosi poi la voce mentre scendeva le scale “Una delegazione fiorentina inaspettata.” Sottolineò, come a far pesare il fatto che nessuno aveva annunciato il loro arrivo “Io sono Agnese Casadei, balia e tutrice personale del figlio del conte Riario. Ho inoltre l’incarico di amministrare la dimora della mia signora quand’ella si intrattiene fuori dalle mura. Posso domandarvi chi siete? Nessuno mi ha riferito che sarebbe arrivata una diligenza.”

La donna abbassò il cappuccio, rivelando un paio di lucenti occhi zaffiro “Questa è una sorpresa, madonna Casadei.” Decretò, ma venne subito interrotta.

L’anziana finì di scendere i gradini, avvicinandosi “Io non sono una nobile, sono solo Agnese.” Studiò attentamente la donna, prima di alzare un sopracciglio “Le sorprese possono non venir gradite, sapete? Sono tempi duri, questi.”

L’altra parve risentita “Sono certa che Beatrice vorrà vedermi, se ho l’occasione di scambiare con lei un  paio di parole.”

“Peccato che la contessa non sia a Forlì.” Disse Agnese, calcando molto sul titolo della sua signora, come se il modo di esprimersi dell’ospite fosse inappropriato.

“Dove si trova?”

“A Rimini, siede ad un consiglio di guerra.”

Quelle parole parvero in qualche modo tranquillizzare l’ospite “Rimini è molto vicina. Tornerà per la cena, immagino.”

La balia annuì “Non vi è sera che non sia qui a mettere a letto suo figlio.”

Un sorriso sincero nacque sulle labbra della madonna, mentre sfilava i guanti da viaggio e muoveva un paio di passi verso Agnese  “Il mio nome è Clarice Orsini.”

“L’avevo ben inteso. Posso sentire il fetore di nobiltà romana fuoriuscire dalla vostra belle mantella. Il Magnifico, sta bene? Ho sentito dire che s’è ingrassato parecchio.”

Clarice non seppe come offendersi.

Presa di contropiede, non riuscì a ribattere subito e naturalmente Agnese non le regalò tempo “Seguitemi, madonna Orsini. Farò avere alla moglie del fratello della mia signora i migliori alloggi della rocca. Benvenuta a Forlì.”

 

 

“Se ci fermano ad ovest, non avremo modo di contrastare le truppe degli Este  presso quell’ invallamento. Attaccare ora sarebbe la nostra disfatta.”

La contessa alzò gli occhi dalla mappa della Romagna, puntandoli in quelli di Federico I Gonzaga.

Di tutti i suoi alleati, quello era il più allarmista. Uomo colto, certo, e sicuramente il suo buon senso evidenziava una grande saggezza, ma in guerra era deprecabile esser troppo cauti.

Per fortuna, ci pensò il padrone di casa a far gli onori del giorno.

“Se convinciamo anche i Malaspina di Faenza ad unirsi a noi, avremo tutta la Romagna sotto il nostro comando. Commercialmente e strategicamente, non avremo eguali.”

Levando gli stivalacci dalla tavola e ben piantandoli in terra, Pandolfo Malatesta si alzò in piedi. Dall’aspetto  di un giovane ragazzo, dai chiari capelli biondi come il grano e gli occhi di un turchese baciato dal cielo, poteva sembrava un giovane pacato di belle maniere. Mai descrizione fu più sbagliata.

Dopo la morte di suo padre aveva riconquistato la sua amata Rimini, prendendo a calci gli Estensi in quei loro ‘nobili culi’. Quando aveva poi minacciato di prendersi anche Ferrara per divertimento, il signore della città aveva dato sua figlia Ginevra come sposa a Pandolfo, ottenendo una traballante alleanza che si era inclinata negli ultimi mesi, quando il giovane aveva deciso di prendersi l’intera Romagna.

In un tempo irrisorio aveva stipulato patti su patti con il signore dei Gonzaga e Beatrice Riario de’Medici, i suoi più accaniti sostenitori, minacciando poi tutte quelle ‘ridicole masse di casette chiamate ducati’ di abbracciare la sua crociata o di perire nel suo fuoco. I signori di Ravenna lo avevano scoperto a loro spese, quando l’esercito forlivese e quello di Rimini avevano quasi dato fuoco a tutte le campagne del ravennate. Era il turno di Faenza, che ancora non si piegava.

Era giunto quindi il tempo di dimostrare cosa avveniva a coloro che non prestavano la dovuta attenzione, ancora una volta.

Beatrice prese in mano una statuetta intagliata. Una donna, con in mano una spada e nell’altra una rosa tinta con toni dorati.

Con attenzione, la posizionò accanto al pallino che indicava la città da assediare “Io direi di farlo appena cala il sole. Le mura dei Malaspina non sono troppo solide, ma il fossato è profondo. Se collochiamo i cannoni, non vi sarà esercito cittadino che potrà fermarci.”

Un terzo uomo, di bella presenza seppur la scarsa altezza, si fece avanti. Di aspetto fisico era più simile alla madre ormai defunta, che a suo padre, il signore dei Gonzaga. Francesco II era in assoluto il più tranquillo di quella stravagante compagnia e la sua età bilanciava un fragile equilibrio tra i ‘vecchi modi’ di suo padre Federico e i ‘nuovi modi’ di Beatrice e Pandolfo.

Prese una statuetta, con un giovane uomo che recava sulla spalla il falcone dei Gonzaga, e lo collocò accanto a quella di Beatrice “Mantova ci sarà, ma non credo che  alcun assedio avrà luogo. Ai Malaspina piace governare, una volta visti i nostri uomini, certamente caleranno le brache.”

Federico si sedette sulla sedia con un lungo sospiro.

Inavvertitamente, diede un calcio a uno dei due lupi che dormivano sotto la tavola e un ringhio basso lo fece quasi tremare “Tra le bestie e le scelte avventate, inizia a far caldo in questa stanza.”

Pandolfo non lo degnò di uno sguardo, mentre appoggiava la sua statuetta, un giovane fanciullo con la testa di un nemico stretta nella mano, proprio tra quella di Beatrice e quella di Gonzaga. “Attaccheremo di giorno, così che possano vedere attentamente chi siamo. Porterò un terzo delle mie lance e metà dei miei arcieri, circa mille e cinquecento uomini.”

Francesco parve pensieroso. Portò una mano al mento, analizzando attentamente la cartina come se cercasse in essa una falla in quel piano molto chiaro. Poi guardò verso il giovane Malatesta “Duemila teste da Mantova. Io porterò metà del mio esercito. Madonna Riario de’Medici?”

Beatrice prese un ultima statuetta, un uomo con un grande scudo e un biscione disegnato su di essa, collocandola poi ai confini a nord della mappa.

“Se io dovessi portare metà esercito forlivese, sarebbero sei mila uomini.” Ammise, facendo un paio di conti “Credo che tre mila fanti e cinquecento arcieri basteranno, per intimidire i Malaspina, gli altri rimarranno a guardia della città. Nel caso in cui gli Este decidano di alzare la testa e attaccarci, sarà il Moro da Milano a prenderli di sorpresa, con un attacco alle spalle.”

Pandolfo osservò la tavola, appoggiandosi ad essa con entrambe le mani. Il suo volto era una maschera satirica, piena di soddisfazione per quella che sapeva, sarebbe stata l’ennesima schiacciante vittoria.  Schioccò le dita e tre paggi bardati di verde e bianco iniziarono a versare calici d’oro contenenti vino invecchiato.

Beatrice li guardò mentre li distribuivano, alzando il suo quando il capo della casata dei Malatesta iniziò a brindare “Ai ducati di Rimini-Cesena, Forlì e Mantova.”

“E Milano.” Aggiunse la giovane, cercando di non mostrarsi eccessivamente scocciata all’occhiata allusiva che Panfoldo le lanciò.

“E Milano.” Aggiunse accondiscendente, prima di schiarirsi la voce, appoggiando la mano libera sull’elsa della spada. Immediatamente, anche i due Gonzaga alzarono i loro calici. “Oggi beviamo, portandoci così avanti con i festeggiamenti quando, presto, l’intera Romagna risponderà solo a noi.” Concluse, prendendo un bel sorso.

Quando la fiorentina appoggiò il calice ormai mezzo vuoto sulla superficie di legno del tavolo, non le parve di aver mai bevuto nulla di così dolce.

 

“Detesto invitarli sempre alle nostre riunioni. Quei Gonzaga sanno solamente esser cauti.”

Beatrice rise, lasciando che la sua limpida voce riecheggiasse per il giardino esterno della rocca malatestiana di Rimini “Sono la nostra banca, Pandolfo. Senza i loro finanziamenti, i nostri eserciti vivrebbero di aria. I fondi papali devo usarli per la mia città.” I due lupi passarono accanto alle loro gambe, rincorrendosi e giocando. La ragazza sorrise, guardandoli mentre arrivavano sino alla piccola delegazione forlivese che l’attendeva per tornare a casa “Mi chiedo se sia possibile, vivere di aria.”

“Sicuramente no.” Rispose a tono il ragazzo, senza risparmiarsi l’ironia “Ma voi avete un fratello che gestisce la più grande banca d’Europa e-”

“Per la milionesima volta, non chiederò prestiti a Lorenzo. Non è la battaglia della Repubblica di Firenze, questa.”

Il biondo alzò gli occhi al cielo, chiedendosi come facesse una ragazza tanto carina a rendersi così sgradevole, solo usando le parole.

“Quando Federico I morirà, avremo una bella gatta da pelare, temo.” Disse, indeciso tra l’essere ottimista riguardo l’anzianità dell’uomo e il preoccuparsi davvero su cosa mai deciderà di fare il buon Francesco.

Beatrice, però, grondava di ottimismo “Di solito è più preso lui del padre, ai nostri consigli. I Gonzaga non ci abbandoneranno e Federico non morirà a breve. Ricordati una cosa: la Romagna porta soldi, i soldi portano gli uomini.”

“Ormai  è così vecchio che le sue ossa non vanno bene nemmeno per il brodo.” Asserì il biondo, bussando contro lo spallaccio di metallo dell’armatura di Beatrice.

Lei rise, fermandosi accanto a lui, proprio al centro del cortile “C’è chi dice che noi siamo quelli sbagliati. Troppo giovani per tenere in mano degli eserciti.”

“Lo dicono perché vinciamo.”

Malatesta si bloccò, guardando la giovane fiorentina avanzare sino alla sua giumenta, che Olivieri teneva per le briglie.

A prima vista, Beatrice Riario de’Medici doveva parere davvero strana; aveva il viso di una fanciulla, ma l’espressione seria e distaccata di una donna. Aveva un meraviglioso abito nero, ricamato in oro su bordi dell’ampia gonna e maniche,forse persino sulla scollatura, se solo essa fosse visibile dall’armatura lucente che aveva sul busto. Un soldato nel corpo di una bellissima ragazza, ancor acerba nell’aspetto, ma sbocciata nell’animo.

Ogni uomo avrebbe perso la testa, per averla. Pandolfo per primo.

Si era mai vista, una donna così tanto forte da reggere sulle spalle il peso di un ducato in perenne guerra? La Romagna era una terra in fermento; vi erano più terre e famiglie in quel fazzoletto d’Italia che nel resto del nord della penisola e tutte si odiavano, cambiando ogni anno le loro alleanze. Eppure riusciva egregiamente nel suo ruolo.

La Tigre della Romagna, la contessa del popolo.

Titoli più che meritati.

Le si avvicinò mentre rammendava la strada da farsi al suo capitano della guardia e si inchinò in modo alquanto enfatizzato, prima di salutarla “Ti auguro un piacevole ritorno. Riposa bene, con la prossima luna avremo di che divertirci sul campo. Non vorrei lasciarti indietro.”

Beatrice prese il viso del duca tra le mani, baciandogli la fronte, prima di salire sulla sua cavalla grigia  “Cerca di crescere un poco in altezza, entro la prossima luna, o ti perderò sul campo.”

“Non mi hai mai perso.” Sottolineò lui, arretrando con le braccia incrociate sulla casacca dorata “E nella botte piccola fermenta il miglior vino, ragazza ingrata!”

Beatrice rise di cuore, voltandosi a guardare Edoardo, che le stava sistemando il mantello nero e la gonna di velluto sul dorso della bestia “Hai sentito, Olivieri? Con quella voce da gattino dovrebbe intimidirci?”

Il povero rosso, messo in mezzo, fece solo un breve inchino al duca, prima di montare a cavallo.

Nessuno parlava così a Pandolfo Malatesta, eccetto lei.

Nessuno, eccetto chi non bramava di vedere la sua testa su di una picca, come ornamento delle mura della rocca malatestiana.

Un ultimo cenno di saluto e il levatoio venne abbassato. Uno dei due lupi alzò il capo verso il drappello di forlivesi, prima di sfrecciare fuori dal castello per primo, aprendo la strada alla delegazione verso le loro terre.

 

 

Il falò ardeva in tutta la sua potenza, mentre uno ad uno, tutti i contadini portavano rotolini di carta verso di esso e li gettavano fra le fiamme.

Altezzosa come suo solito, una donna di alto lignaggio, con sottili occhi praticamente neri, scrutava la folla “Non capisco il perché ti questo inutile rito. Sembra quasi eretico.”

Camilla, che di natura non era mai stata una ragazza paziente, le schioccò un’occhiata tutt’altro che gentile “La Madonna del Fuoco è la patrona di questa città, dovreste averlo compreso la decima volta che vi è stato detto.”

Accanto a loro, una terza  giovane, che pareva più piccola di loro in età, ridacchiò allegra “Io la trovo un’usanza pittoresca e originale. Vorrei averlo saputo prima, per poter fare anche io una richiesta alla Beata Vergine.”

“Cosa mai avresti chiesto, Ombretta?” domandò acidamente la prima, stringendosi addosso lo scialle di volpe. Nessuna delle tre si accorse delle due figure che si stavano avvicinando a loro, scortate da altrettante guardie, nella piazza pubblica davanti alla basilica di San Mercuriale “Un po’ di senno, magari.”

“Non  parlatele così.” soffiò la Colonna, mentre la biondina sospirava affranta, domandandosi cosa avesse mai fatto di male nella vita per meritarsi un simile comportamento nei suoi riguardi.

“Se no, cosa? Andrete dalle contessa?” ribatté con ferocia la più matura delle tre, prima di sistemarsi i ricci corvini dietro alle spalle “Fatemi il piacere.”

“Siete voi la spia, qui in mezzo.” Camilla parve decisa a passare le mani, tanto che sbottonò il mantello “Andrete dal conte a dirgli chissà quale altra menzogna per infangare il nome di Beatrice?”

“Adesso basta, stupide oche!” la voce di monna Agnese le zittì come uno schiaffo in pieno viso. L’anziana si avvicinò, insieme ad una bellissima donna che tutte e tre le dame riconobbero subito. “Portate rispetto, abbiamo ospiti.”

“Madonna Orsini.” Camilla si fece avanti, sorridendo allegra a Clarice, mentre questa vezzeggiava il piccolo bambino che teneva sotto all’ampio mantello nero “Vedo che avete già conosciuto vostro nipote.”

“Monna Agnese mi ha permesso di vederlo, sostenendo che la madre non avrebbe avuto nulla da dire a riguardo.” Rispose cordiale la signora di Firenze, sorridendo a sua volta “Vi trovo in splendida forma, madonna Colonna.” I suoi occhi sottili, simili a zaffiri e luminosi come diamanti, saettarono poi alle altre due donne, a cui però rivolse solamente un cenno elegante con il capo. Un atto di gentilezza e di rispetto che venne ricambiato con la stessa riottosità.

Erano entrambe ben note a madonna Orsini, in quanto entrambe fiorentine.

La più giovane, dai lunghi capelli biondi conciati in tante trecce tenute insieme da fiocchi colorati era in assoluto la più innocua; si chiamava Ombretta Pitti e aveva da poco compiuto sedici anni. Per lei, divenire l’ancella della contessa di Forlì era stato un grande privilegio, quindi nonostante l’antipatia che la sua famiglia aveva nei riguardi dei de’Medici, le era stato garantito un buon posto all’interno dell’aristocrazia del tempo.

Lo stesso non poteva dirsi per l’altra donna.

Maddalena Pazzi non veniva solo da una famiglia che nutriva un’antipatia, verso i Medici, no. Erano i loro rivali diretti, erano coloro che, agli occhi dei Pazzi, stavano distruggendo la purezza e la santità di Firenze.

Non era tutto, però.

Maddalena era ancora nubile,  nonostante le mancasse poco per raggiungere i trent’anni. Sarebbe stato molto difficile, per lei, trovare un marito senza l’aiuto della contessa. Sarebbe stato difficile a priori, secondo Beatrice, visto che Maddalena aveva la stessa simpatia di suo fratello Francesco.

Tutto a causa di un patto finito male tra i Pazzi e gli Scaligeri. Mai fidanzarsi con un cavaliere di ventura; quando esso parte per anni e poi decide di morire sul campo di battaglia, non può tenere fede al patto.

Ironicamente, il conte Riario aveva scelto davvero due valide spie, da affiancare a sua moglie come donne di compagnia: una bambina troppo stupida per capire cosa le accadeva intorno di preciso, viziata e facile da compiacere e una de’Pazzi che aveva assolutamente bisogno dei favori della sua signora per maritarsi prima di venir giudicata troppo vecchia per procreare.

Naturalmente Beatrice sapeva fruttare bene quella situazione.

Monna Agnese anche meglio, “La signora tornerà a breve.” Disse con tono autoritario, appoggiando una mano sul braccio di Ombretta, mentre iniziavano ad avviarsi verso la chiesa, facendosi più vicini al falò. Arrivò addirittura a sorreggere la ragazzina, quando questa scivolò sulla neve fresca “Così come desidera, ci recheremo alla messa delle sei e poi andremo a cena al palazzo di giustizia con le altre famiglie. A quanto ha lasciato detto, il banchetto si terrà nella stanza di Apollo e Dafne, la più bella.”

Clarisse ascoltò interessata, ammirando come tutti lì paressero pendere dalle labbra della sua piccola Beatrice.

Quasi tutti.

 “Faremo così come la contessa comanda, immagino.” Con uno tono deciso, Maddalena si avvicinò alle fiamme, scoprendo appena la veste nera ricamata con un filo d’argento, sotto al pesante mantello invernale, quando allungò le mani verso il fuoco per scaldarsi.

Odiava quel luogo e ne odiava gli inverni freddi e spossanti.

Agnese ci mise poco a ribattere “Se la contessa lo comanda, tu le leccherai la spada ancora grondante di sangue Estense, madonna Pazzi”

“Una nobildonna come Beatrice non dovrebbe combattere le guerre. Non è costume, ergo è sbagliato.” Insistette Maddalena, sotto lo sguardo colmo di disapprovazione delle altre tre donne. Esse infatti non sembravano seccate da cosa ella stesse dicendo, ma dal tono che si permetteva di usare con monna Agnese.

A primo impatto, tutti le portavano rispetto e non solo per la sua veneranda età. aveva una luce diverse negli occhi e tutti si domandavano cosa essi avessero visto.  “Disse quella che a trent’anni ancora non s’è maritata. Se imparaste a tacere, magari, andrebbe meglio anche per voi. Solo le puttane possono permettersi un punto di vista.”

La donna si zittì, offesa da quelle parole che non si poteva nemmeno permettere di riportare alla sua signora.

Rimase quindi in silenzio, tenendo le mani incrociate sotto alla mantella e lo sguardo fisso sulle fiamme del falò. Chiunque l’avesse scorta in quel frangente, avrebbe detto che ella stava pensando di buttarci qualcuno dentro.

Come molte altre volte, nel bel mezzo dei litigi, l’arrivo di Beatrice fu provvidenziale.

Entrò in città allo squillare di un corno da guerra. Tutti si voltarono verso la discesa che conduceva alle porte, mentre sei cavalli arrivavano nella piazza al trotto.

La contessa scese per prima appena adocchiò le sue dame, sorridendo stupita e al tempo stesso felice a Clarice.

“Per il cielo,  non posso crederci!” quasi gridò dalla gioia, andando verso la cognata per poterla abbracciare. Le baciò le guance, prima di sorridere intenerita al figlio, che le venne subito dato in braccio insieme alle pelli in cui era stato avvolto “Non mi aspettavo una vostra visita, Clarice! Qual buon vento vi porta nella mia terra?”

“La felicità di rivederti, Beatrice.” Le rispose madonna Orsini, prima di ricordarsi con chi stava parlando. Fece un piccolo passetto indietro, chinando il capo “Volevo dire contessa.”

“Non siate ridicola.” La riprese subito la giovane de’Medici, appoggiandosi il piccolo Alessandro sul fianco con fare materno, così da poter prendere a braccetto la cognata. Solo allora, da sotto l’ampio mantello nero, si intravide lo scintillio metallico dell’armatura. Clarice sembrò non credere ai suoi occhi per un istante, nonostante quella non paresse la cosa più assurda. Un lupo grigio di dimensioni piuttosto allarmanti stava camminando accanto a loro. “Io per te sarò sempre Beatrice e basta. Mi hai in parte cresciuta.”

“Madonna” la voce di Agnese la richiamò all’ordine, come l’abbaiare di un mastino “La messa.” Le ricordò, minacciosa.

Con un sospiro, la contessa forzò un sorriso “La messa.” Asserì, accondiscendente, prima di rivolgersi di nuovo alla Orsini “Avremo il tempo dopo di parlare.”

 

 

La cena andò avanti più del previsto, al palazzo della signoria.

Tornate alla rocca di Ravaldino, sia Beatrice che Clarice si fecero preparare un bagno caldo, per rinfrancare le ossa dopo il freddo patito a messa.

Quando si incontrarono nello studio della contessa, nell’anticamera dei suoi alloggi, entrambe parevano stanche, ma al tempo stesso più serene.

Sedettero una di fronte all’altra, alla scrivania della giovane de’Medici, con una brocca di vin santo portato da madonna Orsini e due coppe che venivano sollevate anche troppo spesso.

All’inizio parlarono di frivolezze, per alleggerire la tensione che poteva esserci dopo quasi un anno e mezzo di lontananza ma poi, complici il vino e l’affetto che provavano l’una per l’altra, iniziarono a scavare più  nel profondo.

“Ti chiedo scusa se suonerò spaventata.” Ammise di punto in bianco Clarice, mentre Beatrice, giocherellava con una ciocca di capelli “Però quella bestia…. È addomesticata a dovere, voglio sperare.”

Gli occhi della contessa corsero per la stanza, individuando subito la ‘bestia’ in questione, addormentata davanti al camino. Sorrise, appoggiandosi con i gomiti al ripiano dello scrittoio “Si possono addomesticare i lupi?” chiese seria, ridendo poi divertita davanti alla faccia sbigottita della cognata “Posso assicurarvi che Mae è educatissima. Inoltre, è un regalo che mi è stato fatto da un caro amico, quando ho scoperto di aspettare Alessandro.”

“Un regalo?” chiese Clarice con un sospiro, incapace di accettare una cosa del genere “Che razza di persona donerebbe mai un lupo ad una donna incinta?”

“Pandolfo Malatesta, signore di Rimini e Cesena. Lui ha il fratello, che però è quasi tutto nero. Sono bellissimi lupi della Foresta Nera, fatti arrivare su ordine del duca in persona.” La informò la contessa “Mae è perfetta per cacciare, fermare chiunque mi stia sfuggendo, caricare soldati in battaglia…. Vi stupireste di come sia protettiva nei confronti di mio figlio; quando fa molto freddo e nevica si stende su un tappeto con lui e se lo tiene vicino, facendogli così caldo.” Beatrice pareva molto allietata da quella discussione  “Poi, se vi consola, il regalo di Girolamo quando è nato il suo primo erede è stato ancor meno romantico o fine di un lupo.”

Madonna Orsini pareva meno divertita di lei “Ho quasi timore a chiederti di cosa si tratta.”

Per risposta, Beatrice si alzò in piedi. Si sentì un po’ instabile a causa di tutto quel vino, ma riuscì comunque ad arrivare alla sua stanza. Facendo piano per non svegliare Alessandro che dormiva beato nella sua culla, ai piedi del grande baldacchino, prende l’oggetto che cercava da sopra una panca.

Tornò da Clarice e questa portò subito una mano alla fronte “Temevo fosse una spada.” ammise, guardando l’arma che la giovane fiorentina ora brandiva, dopo averla estratta dal suo fodero.

“Non una semplice spada” ammise, prendendola per la lama per passarla così alla cognata “Guardate vicino all’elsa, vi è un blasone.”

Madonna Orsini lo fece, ritrovandosi di fronte lo stemma delle famiglie Riario e de’Medici unite. “Un dono molto bello.” Ammise, passando un dito su quel rilievo dorato, prima di riconsegnarle quell’arma “Tuo marito deve avere molto a cuore la tua incolumità. Non sono una grande intenditrice di spade, ma mi è parsa molto leggera eppure solida.”
“Una lega speciale.” Ammise Beatrice, sedendosi parzialmente sulla scrivania, mentre rinfoderava la lama. “Mi mancava la spada di mio nonno e Girolamo ha deciso di rimpiazzarla con qualcosa che fosse per me famigliare, aspettando a darmela sino al giorno in cui ho messo al mondo Alessandro.”

“Come la nomina a cavaliere.” Ironizzò Clarisse, facendo ridere la più giovane.

“La fatica è di gran lunga superiore, però.” Puntualizzò Beatrice,trovando subito il consenso di madonna Orsini “Ero così stremata che il braccio mi tremava, mentre la tenevo alzata. Alla fine ho ceduto e ho dormito quasi un giorno intero.” Un ultimo sorso di vino, poi pose la domanda che più le premeva “Siete qui per Lorenzo, ammettetelo.”

Clarice parve a disagio. Si morse le labbra, sistemando la gonna sulle gambe con un paio di movimenti nervosi, prima di parlare “In verità, sì.” Attese lo stretto necessario per dare alla contessa l’opportunità di fermarla. Ciò non avvenne, Beatrice la guardava dall’alto dello scrittoio con espressione seria, così si costrinse a parlare “Tuo fratello domanda agevolazioni per il trasporto delle merci che giungono sui porti adriatici. Il Papa ha pesantemente tassato i mercanti, che vendono stoffe e spezie a prezzi altissimi, una volta giunti a Firenze. Sappiamo che qualsiasi cosa arrivi a qualsiasi porto della Romagna, da Ravenna a Rimini, deve passare per la tua giurisdizione, qui a Forlì. Ti chiediamo solo di abbassare i dazi per ciò che giungerà poi nella nostra Repubblica.”

Beatrice parve pensierosa. Si alzò in piedi e misurò la stanza ad ampi passi.

Fu in quel momento, mentre attendeva un responso, che Clarice finalmente la vide davvero.

La giovane fanciulla che correva per i campi attorno a Firenze con un ghirlanda di fiori sul capo e un sorriso dolce e spensierato sulle labbra non c’era più; al suo posto vi era una donna, diventata tale troppo in fretta, che agli abiti dei colori dell’estate prediligeva eleganti vesti nere o blu notte. La bambina che adorava farsi pettinare i capelli da lei era stata sostituita dalla contessa di Forlì, che prediligeva l’elmo alla ghirlanda. Le fughe improvvise, i dolci portati via dalle mense….

Erano tutti ricordi ormai.

Di Beatrice, della sua Beatrice, era rimasto poco.

Intristita, Clarice si alzò in piedi. Per lei, era come rivedersi allo specchio.

Vedere come il matrimonio aveva portato quel triste rigore nella sua vita, seppur con minori responsabilità.

“Puoi pensarci con calma, dormici su.” Le disse, prendendole una mano e destandola da quei pensieri.

Beatrice, però, sembrava pronta a darle una risposta “Accetto.” Ammise, stupendola. La prima volta che qualcuno si era azzardato a presentarsi da lei con una richiesta, era stato Giuliano, che si era sentito dire di no dal conte Riario.

“Non vuoi parlarne con tuo marito?”

La giovane scosse il capo “Con Girolamo discuto solo le questioni riguardo Imola. Ho carta bianca su questa città.”

Era così. Da quando era tornata a Forlì dopo ciò che  era successo a Roma, dopo ciò che Sisto le aveva fatto, aveva preso in mano le redini del suo destino.

Aveva bonificato la città, creato un esercito di volontari pagati, raccogliendo giovani contadini da tutta la penisola e invitandoli a scegliere la carriera militare, aveva provveduto ai molti malati di peste che affollavano le vie a causa del via vai di mercanti.

Tutto questo utilizzando i soldi del papato, ma senza mai chiedendo nulla la marito.

Lui firmava i documenti che lei compilava in anticipo.

“In cambio, però, voglio una cosa.”

Clarice non si stupì, mentre le sorrideva “Nulla è gratis, nemmeno per la famiglia.”

Beatrice asserì con il capo, prima di tornare verso lo scrittoio “Dite a Lorenzo che mi deve un favore. Lo incasserò con il tempo.”

Madonna Orsini chinò il capo in segno di riconoscenza, mentre nella stanza un bambino iniziava a piangere “Qualcuno ti reclama” disse, sorridendo come solo una madre era in grado di fare “Ne discuteremo meglio domani.”

“Ti farò avere un contratto, quando partirai per Firenze.” Beatrice si avviò verso la porta e così fece anche Clarice. Prima che la donna se ne andasse, però, la contessa la fermò “Sono felice che tu sia qui.”

Si scambiarono un sorriso e la buonanotte, poi la fiorentina entrò nella stanza da letto e la romana si diresse verso il suo alloggi.

Ancora persa in quel dolce momento, Beatrice non adocchiò subito la figura che troneggiava sulla culla. Quando la vide, però, si spaventò.

Istintivamente però alla spada, lasciata sullo scrittoio, mentre l’uomo alto si alzata di nuovo diritto, tenendo il bambino tra le braccia.

Si chiese come fosse entrato, visto che le finestre erano chiuse e che lei non aveva mai lasciato l’anticamera. Nemmeno Mae aveva dato segni di aver sentito un intruso e la signora della rocca comprese presto il motivo. A questi cadde il cappuccio ed ella si sentì nuovamente tranquilla.

Avanzò di qualche passo, mentre il bambino rideva verso il nuovo arrivato.

“Piangeva.” Si giustificò semplicemente l’uomo ammantato di nero, quando Beatrice gli fu davanti. Le mise il piccolo fra le braccia, prima di incrociare le sue sul petto, come per rimproverarla.

“Faccende di stato.” Lo liquidò lei, coccolando Alessandro e riempiendogli il viso di dolci baci. Quando puntò gli occhi su quelli dell’altro, questi stava sorridendo intenerito “Deve mangiare, dopo di che inizieremo a lavorare, Corax.”

La figura alta fece un breve inchino, prima di girare sui tacchi per andare nello studio e lasciarla sola, ad accudire con amore il suo pargolo.

Mentre usciva, lo stemma dei Riario de’Medici brillò d’argento sopra al suo mantello nero come le più cupe tenebre.

Rimasta sola, Beatrice si slacciò il corsetto, così da poter sfamare la sua creatura.

Gli accarezzò i capelli tutto il tempo, cantando a bocca chiusa una vecchia ninnananna.

In quel momento di solitudine e silenzio, tutta la tristezza e l’infelicità che covava dentro di sé strisciarono fuori inumidendole gli occhi. Dietro alla facciata di nobile signora e di stratega militare, c’era una ragazza non ancora ventenne che ogni notte si addormentava in un letto freddo e vuoto, dopo molte ore passate a studiare i libri lasciatagli da suo nonno.

Le mancavano così tante cose e persone da non riuscire più a ricordarle tutte.

Giuliano, che nonostante ricevesse tutte le settimane una sua lettera, avvertiva così lontano e distaccato; Lorenzo, che mandava sempre emissari e mai si mostrava o inviava di suo pugno una missiva; la sua Firenze, così lontana da quella città che ormai era casa sua, ma che sapeva essere fredda come quell’inverno senza fine; la sua innocenza, persa per sempre.

Suo marito, che non vedeva dall’investimento a cardinale del cugino Raffaele a dicembre.

Si chiedeva spesso chi fosse avvero Beatrice Riario de’Medici: La contessa di Forlì, la sorella del Magnifico, la Tigre della Romagna o una figlia di Mitra. Così spaccata, in quattro parti speculari e opposte, non sapeva rispondersi.

 

 

 

On top of the world is beautiful,

But there’s no place to fall….

 

  
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