Buon inizio settimana a tutti quanti!
Tanto per iniziare, ringrazio chi ha letto il prologo e ha
deciso di inserire la storia tra le seguite.
Siete più di quanti mi aspettassi, grazie!
Detto ciò, due avvertenze: in primo luogo, il capitolo è autobetato, quindi spero che non contenga troppi
strafalcioni.
Secondariamente, qui si aggiungono diversi nuovi personaggi,
che ci serviranno in vista dello scopo finale.
Nessuno è inutile, tutti hanno una meta, un arrivo.
Anche il nuovo animaletto di Beatrice e il misterioso Corax. (chi vi aspettate che sia, questo losco figuro?)
Trovate i pv che ho scelto sulla mia
pagina, così che possano aiutarvi nella lettura.
Vi segnalo anche questo piccolo video che
ho trovato per caso mentre sceglievo la canzone per il capitolo. Visto che
immagino lei come Beatrice, magari è ispirante!
Inoltre, la festa della Madonna di Fuoco è davvero il patrono
di Forlì, che io vi ho descritto così come veniva festeggiato nel tardo
rinascimento: i poveri andavano dai propri parroci e chiedevano di scrivere su
un foglio un messaggio per la Vergine, che poi veniva lanciato in un grande
falò prima della messa e seguivano quindi tutte le preghiere del caso.
Detto ciò, buona lettura :D
Come sempre, un pensierino è ben accetto, se no a presto!
Jessy
Amor onni cosa
vince
Parte
prima:
Raro cade, chi ben cammina.
Capitolo
primo:
Cose che erano e cose che sono.
*
Everyone thinks that I
have it all
But it's so empty living
behind these castle walls
https://www.youtube.com/watch?v=qjY3LfHbdL0
4
febbraio 1478,
Ducato di Forlì.
Patrono della Madonna di Fuoco.
Sette mesi
prima dell’arrivo nel Nuovo Mondo
Il crepitare delle fiamme
lo ipnotizzava, rendendo tutti i giocattoli che lo circondavano noiosi.
Nonostante potesse a
stento star seduto, il bambino tentò di avvicinarsi al camino, allungando una
manina verso il fuoco lontano. Si sbilanciò troppo e, quando la schiena si
staccò del tutto dalla pila di cuscini e pelli che lo tenevano sollevato, cadde
in avanti.
Non un solo vagito uscì
però dalle sue labbra.
Per quanto piccolo,
Alessandro non piangeva mai.
Era assai strano che un neonato
di quattro mesi non emettesse un fiato dopo aver immerso il volto nelle più
svariate pellicce stese sul pavimento, eppure lui insisteva, cercando di far
leva sulle deboli e grassocce braccina per rimettersi
seduto.
Gli venne data la possibilità
di riuscire da solo, ma dopo qualche minuto fu aiutato.
Un paio di mani percorse
da un dedalo di rughe e calli lo riappoggiarono sui cuscini, prima di passare le
dita tra i radi capelli neri sulla sua testolina.
“Col padre che ti ritrovi,
è un miracolo che tu sia tanto buono, creatura.”
Che fosse il figlio del
conte, nessuno poteva negarlo; aveva gli stessi occhi del colore del miele,
eppure al contrario di quelli del genitore, i suoi erano limpidi e puri di
curiosa innocenza.
Ogni singolo giorno della
sua longeva vita, monna Agnese pregava affinché essi rimanessero tali anche
crescendo, seppur avesse ben poca fiducia in ciò.
“Una mela non cade mai
troppo lontana dall’albero, dicono. Se diverrai come tua madre, avrai solo il
coraggio di una tigre e la forza d’animo di cento uomini. Cresci per bene,
piccolo Sandro.”
Aveva visto nascere più
bambini di quanti ne potesse contare, nell’arco della sua vita; aveva sempre
fatto la levatrice, sopravvivendo alle sue tre sorelle e arrivando alla
veneranda età di settantasette anni per accudire il figlio del conte Riario e della
contessa Beatrice.
In fin dei conti, le erano
sempre piaciuti i castelli e il suo corpo le consentiva ancora di fare lunghe
passeggiate per i genti giardini che la sua signora aveva provveduto a
bonificare nell’ultimo anno.
La città era rinata, sotto
la guida di Beatrice Riario de’Medici, fiorendo in tutta la sua antica
bellezza.
Servirli era quindi un
onore perché, per quanto male giudicasse il conte, la reggente della cittadella
era più che meritevole della sua stima.
Rialzò gli occhi dalla
figura del nobile fanciullo, tutto preso dal masticare la testa di un cavallino
di legno lucido, riprendendo quindi a sferruzzarsi una copertina di lana.
Quello era l’inverno più
rigido che avessero mai avuto.
Di rado nevicava, nella
Romagna, ma ormai da più di due mesi ve ne era una gamba quasi ogni mattina al
risveglio.
“Che tempo inclemente,
chissà cosa il buon Signore vuole dirci.”
Quasi non fece in tempo a
riabbassare gli occhi sui ferri, che le porte si aprirono.
Soprassedette sulla
giovane guardia che non si era premurata di bussare, troppo presa dal guardarlo in cagnesco.
“Vi chiedo perdono,
madonna Agnese.” Iniziò, ma venne interrotto.
“Vi sembro una donna di
nobili natali?” rilanciò lei, appoggiandosi al bracciolo della poltrona “Cosa
volete?”
“Un ospite illustre quanto
inaspettato è giunto alla rocca, ma in tende parlare solamente con la
contessa.” Spiegò, timoroso.
Quella donna sapeva
spaventar anche l’animo più forte.
“Beatrice non è a Forlì.”
Riferì Agnese, sicura che quel ragazzetto lo sapesse e desiderasse solo
tediarla. “Che torni un’altra volta.”
“Viene da Firenze.”
Furono quelle a
risvegliare l’interesse della balia. Un po’ a fatica si alzò, sistemando il
grembiule che portava in vita.
Nelle assenze sia della
sua signora che del conte, era lei ad amministrare i loro affari alla rocca di
Ravaldino, scavalcando spesso lo stesso Tommaso Feo.
Era stata Beatrice stessa a deciderlo, viste le grandi abilità di persuasione
di monna Agnese.
Era in grado di vendere
acqua di mare ad un pescatore, se ci si impegnava davvero.
“Me ne occuperò
subito.” Reclamò autoritaria, prima di
fermarsi davanti alla guardia, per guardarlo negli occhi “Il vostro nome,
giovane?”
“Buononato,
monna.” Rispose questi in fretta “Pio Buononato.”
Lei annuì, pensierosa,
mentre lo memorizzava. Prese poi il ragazzo a braccetto, conducendolo davanti
al focolare. Solo in quel momento, egli si accorse del bambino “Lo vedete, Pio?
Quello è il pargolo di Girolamo Riario, sangue del suo sangue. Il suo erede.
Rimarrete con lui e baderete alla sua incolumità. Se dovesse in qualche modo
ferirsi, riporterò il vostro nome all’attenzione del conte o peggio... A quella
di sua moglie.”
Lasciata la sfortunata
guardia a quel pericoloso incarico – tanto che sicuramente avrebbe desiderato
diventare un fante di prima linea, poi- Agnese si recò nell’atrio del castello.
Sapeva che chiunque non
poteva spingersi oltre, previa autorizzazione della signoria o di lei stessa.
Ad attenderla, trovò uno
stuolo di guardie in cappa vermiglia e
una donna.
La mantella nera le donava
magnificamente, visto la sua figura snella.
Con lei vi era anche un
uomo alto, che pareva un generale, visti i titoli che portava.
Agnese li guardò,
schiarendosi poi la voce mentre scendeva le scale “Una delegazione fiorentina
inaspettata.” Sottolineò, come a far pesare il fatto che nessuno aveva
annunciato il loro arrivo “Io sono Agnese Casadei, balia e tutrice personale
del figlio del conte Riario. Ho inoltre l’incarico di amministrare la dimora
della mia signora quand’ella si intrattiene fuori dalle mura. Posso domandarvi
chi siete? Nessuno mi ha riferito che sarebbe arrivata una diligenza.”
La donna abbassò il
cappuccio, rivelando un paio di lucenti occhi zaffiro “Questa è una sorpresa,
madonna Casadei.” Decretò, ma venne subito interrotta.
L’anziana finì di scendere
i gradini, avvicinandosi “Io non sono una nobile, sono solo Agnese.” Studiò
attentamente la donna, prima di alzare un sopracciglio “Le sorprese possono non
venir gradite, sapete? Sono tempi duri, questi.”
L’altra parve risentita
“Sono certa che Beatrice vorrà vedermi, se ho l’occasione di scambiare con lei
un paio di parole.”
“Peccato che la contessa
non sia a Forlì.” Disse Agnese, calcando molto sul titolo della sua signora,
come se il modo di esprimersi dell’ospite fosse inappropriato.
“Dove si trova?”
“A Rimini, siede ad un
consiglio di guerra.”
Quelle parole parvero in
qualche modo tranquillizzare l’ospite “Rimini è molto vicina. Tornerà per la
cena, immagino.”
La balia annuì “Non vi è
sera che non sia qui a mettere a letto suo figlio.”
Un sorriso sincero nacque
sulle labbra della madonna, mentre sfilava i guanti da viaggio e muoveva un
paio di passi verso Agnese “Il mio nome
è Clarice Orsini.”
“L’avevo ben inteso. Posso
sentire il fetore di nobiltà romana fuoriuscire dalla vostra belle mantella. Il
Magnifico, sta bene? Ho sentito dire che s’è ingrassato parecchio.”
Clarice non seppe come offendersi.
Presa di contropiede, non
riuscì a ribattere subito e naturalmente Agnese non le regalò tempo “Seguitemi,
madonna Orsini. Farò avere alla moglie del fratello della mia signora i
migliori alloggi della rocca. Benvenuta a Forlì.”
“Se ci fermano ad ovest,
non avremo modo di contrastare le truppe degli Este presso quell’ invallamento.
Attaccare ora sarebbe la nostra disfatta.”
La contessa alzò gli occhi
dalla mappa della Romagna, puntandoli in quelli di Federico I Gonzaga.
Di tutti i suoi alleati,
quello era il più allarmista. Uomo colto, certo, e sicuramente il suo buon
senso evidenziava una grande saggezza, ma in guerra era deprecabile esser
troppo cauti.
Per fortuna, ci pensò il
padrone di casa a far gli onori del giorno.
“Se convinciamo anche i
Malaspina di Faenza ad unirsi a noi, avremo tutta la Romagna sotto il nostro
comando. Commercialmente e strategicamente, non avremo eguali.”
Levando gli stivalacci dalla tavola e ben piantandoli in terra,
Pandolfo Malatesta si alzò in piedi. Dall’aspetto di un giovane ragazzo, dai chiari capelli
biondi come il grano e gli occhi di un turchese baciato dal cielo, poteva sembrava
un giovane pacato di belle maniere. Mai descrizione fu più sbagliata.
Dopo la morte di suo padre
aveva riconquistato la sua amata Rimini, prendendo a calci gli Estensi in quei
loro ‘nobili culi’. Quando aveva poi
minacciato di prendersi anche Ferrara per divertimento, il signore della città
aveva dato sua figlia Ginevra come sposa a Pandolfo, ottenendo una traballante
alleanza che si era inclinata negli ultimi mesi, quando il giovane aveva deciso
di prendersi l’intera Romagna.
In un tempo irrisorio
aveva stipulato patti su patti con il signore dei Gonzaga e Beatrice Riario
de’Medici, i suoi più accaniti sostenitori, minacciando poi tutte quelle ‘ridicole masse di casette chiamate ducati’
di abbracciare la sua crociata o di perire nel suo fuoco. I signori di Ravenna
lo avevano scoperto a loro spese, quando l’esercito forlivese e quello di
Rimini avevano quasi dato fuoco a tutte le campagne del ravennate. Era il turno
di Faenza, che ancora non si piegava.
Era giunto quindi il tempo
di dimostrare cosa avveniva a coloro che non prestavano la dovuta attenzione,
ancora una volta.
Beatrice prese in mano una
statuetta intagliata. Una donna, con in mano una spada e nell’altra una rosa
tinta con toni dorati.
Con attenzione, la
posizionò accanto al pallino che indicava la città da assediare “Io direi di
farlo appena cala il sole. Le mura dei Malaspina non sono troppo solide, ma il
fossato è profondo. Se collochiamo i cannoni, non vi sarà esercito cittadino
che potrà fermarci.”
Un terzo uomo, di bella
presenza seppur la scarsa altezza, si fece avanti. Di aspetto fisico era più
simile alla madre ormai defunta, che a suo padre, il signore dei Gonzaga.
Francesco II era in assoluto il più tranquillo di quella stravagante compagnia
e la sua età bilanciava un fragile equilibrio tra i ‘vecchi modi’ di suo padre
Federico e i ‘nuovi modi’ di Beatrice e Pandolfo.
Prese una statuetta, con
un giovane uomo che recava sulla spalla il falcone dei Gonzaga, e lo collocò
accanto a quella di Beatrice “Mantova ci sarà, ma non credo che alcun assedio avrà luogo. Ai Malaspina piace
governare, una volta visti i nostri uomini, certamente caleranno le brache.”
Federico si sedette sulla
sedia con un lungo sospiro.
Inavvertitamente, diede un
calcio a uno dei due lupi che dormivano sotto la tavola e un ringhio basso lo
fece quasi tremare “Tra le bestie e le scelte avventate, inizia a far caldo in
questa stanza.”
Pandolfo non lo degnò di
uno sguardo, mentre appoggiava la sua statuetta, un giovane fanciullo con la
testa di un nemico stretta nella mano, proprio tra quella di Beatrice e quella
di Gonzaga. “Attaccheremo di giorno, così che possano vedere attentamente chi
siamo. Porterò un terzo delle mie lance e metà dei miei arcieri, circa mille e
cinquecento uomini.”
Francesco parve
pensieroso. Portò una mano al mento, analizzando attentamente la cartina come
se cercasse in essa una falla in quel piano molto chiaro. Poi guardò verso il
giovane Malatesta “Duemila teste da Mantova. Io porterò metà del mio esercito.
Madonna Riario de’Medici?”
Beatrice prese un ultima
statuetta, un uomo con un grande scudo e un biscione disegnato su di essa,
collocandola poi ai confini a nord della mappa.
“Se io dovessi portare
metà esercito forlivese, sarebbero sei mila uomini.” Ammise, facendo un paio di
conti “Credo che tre mila fanti e cinquecento arcieri basteranno, per
intimidire i Malaspina, gli altri rimarranno a guardia della città. Nel caso in
cui gli Este decidano di alzare la testa e attaccarci, sarà il Moro da Milano a
prenderli di sorpresa, con un attacco alle spalle.”
Pandolfo osservò la
tavola, appoggiandosi ad essa con entrambe le mani. Il suo volto era una
maschera satirica, piena di soddisfazione per quella che sapeva, sarebbe stata
l’ennesima schiacciante vittoria.
Schioccò le dita e tre paggi bardati di verde e bianco iniziarono a
versare calici d’oro contenenti vino invecchiato.
Beatrice li guardò mentre
li distribuivano, alzando il suo quando il capo della casata dei Malatesta
iniziò a brindare “Ai ducati di Rimini-Cesena, Forlì
e Mantova.”
“E Milano.” Aggiunse la
giovane, cercando di non mostrarsi eccessivamente scocciata all’occhiata
allusiva che Panfoldo le lanciò.
“E Milano.” Aggiunse
accondiscendente, prima di schiarirsi la voce, appoggiando la mano libera
sull’elsa della spada. Immediatamente, anche i due Gonzaga alzarono i loro
calici. “Oggi beviamo, portandoci così avanti con i festeggiamenti quando,
presto, l’intera Romagna risponderà solo a noi.” Concluse, prendendo un bel
sorso.
Quando la fiorentina
appoggiò il calice ormai mezzo vuoto sulla superficie di legno del tavolo, non
le parve di aver mai bevuto nulla di così dolce.
“Detesto invitarli sempre
alle nostre riunioni. Quei Gonzaga sanno solamente esser cauti.”
Beatrice rise, lasciando
che la sua limpida voce riecheggiasse per il giardino esterno della rocca
malatestiana di Rimini “Sono la nostra banca, Pandolfo. Senza i loro
finanziamenti, i nostri eserciti vivrebbero di aria. I fondi papali devo usarli
per la mia città.” I due lupi passarono accanto alle loro gambe, rincorrendosi
e giocando. La ragazza sorrise, guardandoli mentre arrivavano sino alla piccola
delegazione forlivese che l’attendeva per tornare a casa “Mi chiedo se sia
possibile, vivere di aria.”
“Sicuramente no.” Rispose
a tono il ragazzo, senza risparmiarsi l’ironia “Ma voi avete un fratello che
gestisce la più grande banca d’Europa e-”
“Per la milionesima volta,
non chiederò prestiti a Lorenzo. Non è la battaglia della Repubblica di
Firenze, questa.”
Il biondo alzò gli occhi
al cielo, chiedendosi come facesse una ragazza tanto carina a rendersi così
sgradevole, solo usando le parole.
“Quando Federico I morirà,
avremo una bella gatta da pelare, temo.” Disse, indeciso tra l’essere ottimista
riguardo l’anzianità dell’uomo e il preoccuparsi davvero su cosa mai deciderà
di fare il buon Francesco.
Beatrice, però, grondava
di ottimismo “Di solito è più preso lui del padre, ai nostri consigli. I
Gonzaga non ci abbandoneranno e Federico non morirà a breve. Ricordati una
cosa: la Romagna porta soldi, i soldi portano gli uomini.”
“Ormai è così vecchio che le sue ossa non vanno bene
nemmeno per il brodo.” Asserì il biondo, bussando contro lo spallaccio di
metallo dell’armatura di Beatrice.
Lei rise, fermandosi
accanto a lui, proprio al centro del cortile “C’è chi dice che noi siamo quelli
sbagliati. Troppo giovani per tenere in mano degli eserciti.”
“Lo dicono perché
vinciamo.”
Malatesta si bloccò,
guardando la giovane fiorentina avanzare sino alla sua giumenta, che Olivieri
teneva per le briglie.
A prima vista, Beatrice
Riario de’Medici doveva parere davvero strana; aveva il viso di una fanciulla,
ma l’espressione seria e distaccata di una donna. Aveva un meraviglioso abito
nero, ricamato in oro su bordi dell’ampia gonna e maniche,forse persino sulla
scollatura, se solo essa fosse visibile dall’armatura lucente che aveva sul busto.
Un soldato nel corpo di una bellissima ragazza, ancor acerba nell’aspetto, ma
sbocciata nell’animo.
Ogni uomo avrebbe perso la
testa, per averla. Pandolfo per primo.
Si era mai vista, una
donna così tanto forte da reggere sulle spalle il peso di un ducato in perenne
guerra? La Romagna era una terra in fermento; vi erano più terre e famiglie in
quel fazzoletto d’Italia che nel resto del nord della penisola e tutte si
odiavano, cambiando ogni anno le loro alleanze. Eppure riusciva egregiamente
nel suo ruolo.
La Tigre della Romagna, la
contessa del popolo.
Titoli più che meritati.
Le si avvicinò mentre
rammendava la strada da farsi al suo capitano della guardia e si inchinò in
modo alquanto enfatizzato, prima di salutarla “Ti auguro un piacevole ritorno.
Riposa bene, con la prossima luna avremo di che divertirci sul campo. Non
vorrei lasciarti indietro.”
Beatrice prese il viso del
duca tra le mani, baciandogli la fronte, prima di salire sulla sua cavalla
grigia “Cerca di crescere un poco in
altezza, entro la prossima luna, o ti perderò sul campo.”
“Non mi hai mai perso.”
Sottolineò lui, arretrando con le braccia incrociate sulla casacca dorata “E
nella botte piccola fermenta il miglior vino, ragazza ingrata!”
Beatrice rise di cuore,
voltandosi a guardare Edoardo, che le stava sistemando il mantello nero e la
gonna di velluto sul dorso della bestia “Hai sentito, Olivieri? Con quella voce
da gattino dovrebbe intimidirci?”
Il povero rosso, messo in
mezzo, fece solo un breve inchino al duca, prima di montare a cavallo.
Nessuno parlava così a
Pandolfo Malatesta, eccetto lei.
Nessuno, eccetto chi non
bramava di vedere la sua testa su di una picca, come ornamento delle mura della
rocca malatestiana.
Un ultimo cenno di saluto
e il levatoio venne abbassato. Uno dei due lupi alzò il capo verso il drappello
di forlivesi, prima di sfrecciare fuori dal castello per primo, aprendo la
strada alla delegazione verso le loro terre.
Il falò ardeva in tutta la
sua potenza, mentre uno ad uno, tutti i contadini portavano rotolini
di carta verso di esso e li gettavano fra le fiamme.
Altezzosa come suo solito,
una donna di alto lignaggio, con sottili occhi praticamente neri, scrutava la
folla “Non capisco il perché ti questo inutile rito. Sembra quasi eretico.”
Camilla, che di natura non
era mai stata una ragazza paziente, le schioccò un’occhiata tutt’altro che
gentile “La Madonna del Fuoco è la patrona di questa città, dovreste averlo
compreso la decima volta che vi è stato detto.”
Accanto a loro, una
terza giovane, che pareva più piccola di
loro in età, ridacchiò allegra “Io la trovo un’usanza pittoresca e originale.
Vorrei averlo saputo prima, per poter fare anche io una richiesta alla Beata
Vergine.”
“Cosa mai avresti chiesto,
Ombretta?” domandò acidamente la prima, stringendosi addosso lo scialle di
volpe. Nessuna delle tre si accorse delle due figure che si stavano avvicinando
a loro, scortate da altrettante guardie, nella piazza pubblica davanti alla
basilica di San Mercuriale “Un po’ di senno, magari.”
“Non parlatele così.” soffiò la Colonna, mentre la
biondina sospirava affranta, domandandosi cosa avesse mai fatto di male nella
vita per meritarsi un simile comportamento nei suoi riguardi.
“Se no, cosa? Andrete
dalle contessa?” ribatté con ferocia la più matura delle tre, prima di sistemarsi
i ricci corvini dietro alle spalle “Fatemi il piacere.”
“Siete voi la spia, qui in
mezzo.” Camilla parve decisa a passare le mani, tanto che sbottonò il mantello
“Andrete dal conte a dirgli chissà quale altra menzogna per infangare il nome
di Beatrice?”
“Adesso basta, stupide
oche!” la voce di monna Agnese le zittì come uno schiaffo in pieno viso.
L’anziana si avvicinò, insieme ad una bellissima donna che tutte e tre le dame
riconobbero subito. “Portate rispetto, abbiamo ospiti.”
“Madonna Orsini.” Camilla
si fece avanti, sorridendo allegra a Clarice, mentre questa vezzeggiava il
piccolo bambino che teneva sotto all’ampio mantello nero “Vedo che avete già
conosciuto vostro nipote.”
“Monna Agnese mi ha
permesso di vederlo, sostenendo che la madre non avrebbe avuto nulla da dire a
riguardo.” Rispose cordiale la signora di Firenze, sorridendo a sua volta “Vi
trovo in splendida forma, madonna Colonna.” I suoi occhi sottili, simili a
zaffiri e luminosi come diamanti, saettarono poi alle altre due donne, a cui
però rivolse solamente un cenno elegante con il capo. Un atto di gentilezza e
di rispetto che venne ricambiato con la stessa riottosità.
Erano entrambe ben note a
madonna Orsini, in quanto entrambe fiorentine.
La più giovane, dai lunghi
capelli biondi conciati in tante trecce tenute insieme da fiocchi colorati era
in assoluto la più innocua; si chiamava Ombretta Pitti
e aveva da poco compiuto sedici anni. Per lei, divenire l’ancella della
contessa di Forlì era stato un grande privilegio, quindi nonostante l’antipatia
che la sua famiglia aveva nei riguardi dei de’Medici, le era stato garantito un
buon posto all’interno dell’aristocrazia del tempo.
Lo stesso non poteva dirsi
per l’altra donna.
Maddalena Pazzi non veniva
solo da una famiglia che nutriva un’antipatia, verso i Medici, no. Erano i loro
rivali diretti, erano coloro che, agli occhi dei Pazzi, stavano distruggendo la
purezza e la santità di Firenze.
Non era tutto, però.
Maddalena era ancora
nubile, nonostante le mancasse poco per
raggiungere i trent’anni. Sarebbe stato molto difficile, per lei, trovare un
marito senza l’aiuto della contessa. Sarebbe stato difficile a priori, secondo
Beatrice, visto che Maddalena aveva la stessa simpatia di suo fratello
Francesco.
Tutto a causa di un patto
finito male tra i Pazzi e gli Scaligeri. Mai fidanzarsi con un cavaliere di
ventura; quando esso parte per anni e poi decide di morire sul campo di
battaglia, non può tenere fede al patto.
Ironicamente, il conte
Riario aveva scelto davvero due valide spie, da affiancare a sua moglie come
donne di compagnia: una bambina troppo stupida per capire cosa le accadeva
intorno di preciso, viziata e facile da compiacere e una de’Pazzi che aveva
assolutamente bisogno dei favori della sua signora per maritarsi prima di venir
giudicata troppo vecchia per procreare.
Naturalmente Beatrice
sapeva fruttare bene quella situazione.
Monna Agnese anche meglio,
“La signora tornerà a breve.” Disse con tono autoritario, appoggiando una mano
sul braccio di Ombretta, mentre iniziavano ad avviarsi verso la chiesa,
facendosi più vicini al falò. Arrivò addirittura a sorreggere la ragazzina,
quando questa scivolò sulla neve fresca “Così come desidera, ci recheremo alla
messa delle sei e poi andremo a cena al palazzo di giustizia con le altre
famiglie. A quanto ha lasciato detto, il banchetto si terrà nella stanza di
Apollo e Dafne, la più bella.”
Clarisse ascoltò
interessata, ammirando come tutti lì paressero pendere dalle labbra della sua
piccola Beatrice.
Quasi tutti.
“Faremo così come la contessa comanda,
immagino.” Con uno tono deciso, Maddalena si avvicinò alle fiamme, scoprendo
appena la veste nera ricamata con un filo d’argento, sotto al pesante mantello
invernale, quando allungò le mani verso il fuoco per scaldarsi.
Odiava quel luogo e ne
odiava gli inverni freddi e spossanti.
Agnese ci mise poco a
ribattere “Se la contessa lo comanda, tu le leccherai la spada ancora grondante
di sangue Estense, madonna Pazzi”
“Una nobildonna come
Beatrice non dovrebbe combattere le guerre. Non è costume, ergo è sbagliato.”
Insistette Maddalena, sotto lo sguardo colmo di disapprovazione delle altre tre
donne. Esse infatti non sembravano seccate da cosa ella stesse dicendo, ma dal
tono che si permetteva di usare con monna Agnese.
A primo impatto, tutti le
portavano rispetto e non solo per la sua veneranda età. aveva una luce diverse
negli occhi e tutti si domandavano cosa essi avessero visto. “Disse quella che a trent’anni ancora non s’è
maritata. Se imparaste a tacere, magari, andrebbe meglio anche per voi. Solo le
puttane possono permettersi un punto di vista.”
La donna si zittì, offesa
da quelle parole che non si poteva nemmeno permettere di riportare alla sua
signora.
Rimase quindi in silenzio,
tenendo le mani incrociate sotto alla mantella e lo sguardo fisso sulle fiamme
del falò. Chiunque l’avesse scorta in quel frangente, avrebbe detto che ella
stava pensando di buttarci qualcuno dentro.
Come molte altre volte, nel
bel mezzo dei litigi, l’arrivo di Beatrice fu provvidenziale.
Entrò in città allo
squillare di un corno da guerra. Tutti si voltarono verso la discesa che
conduceva alle porte, mentre sei cavalli arrivavano nella piazza al trotto.
La contessa scese per prima
appena adocchiò le sue dame, sorridendo stupita e al tempo stesso felice a
Clarice.
“Per il cielo, non posso crederci!” quasi gridò dalla gioia,
andando verso la cognata per poterla abbracciare. Le baciò le guance, prima di
sorridere intenerita al figlio, che le venne subito dato in braccio insieme
alle pelli in cui era stato avvolto “Non mi aspettavo una vostra visita,
Clarice! Qual buon vento vi porta nella mia terra?”
“La felicità di rivederti,
Beatrice.” Le rispose madonna Orsini, prima di ricordarsi con chi stava
parlando. Fece un piccolo passetto indietro, chinando il capo “Volevo dire
contessa.”
“Non siate ridicola.” La
riprese subito la giovane de’Medici, appoggiandosi il piccolo Alessandro sul
fianco con fare materno, così da poter prendere a braccetto la cognata. Solo
allora, da sotto l’ampio mantello nero, si intravide lo scintillio metallico
dell’armatura. Clarice sembrò non credere ai suoi occhi per un istante,
nonostante quella non paresse la cosa più assurda. Un lupo grigio di dimensioni
piuttosto allarmanti stava camminando accanto a loro. “Io per te sarò sempre
Beatrice e basta. Mi hai in parte cresciuta.”
“Madonna” la voce di
Agnese la richiamò all’ordine, come l’abbaiare di un mastino “La messa.” Le
ricordò, minacciosa.
Con un sospiro, la
contessa forzò un sorriso “La messa.” Asserì, accondiscendente, prima di
rivolgersi di nuovo alla Orsini “Avremo il tempo dopo di parlare.”
La cena andò avanti più
del previsto, al palazzo della signoria.
Tornate alla rocca di
Ravaldino, sia Beatrice che Clarice si fecero preparare un bagno caldo, per
rinfrancare le ossa dopo il freddo patito a messa.
Quando si incontrarono
nello studio della contessa, nell’anticamera dei suoi alloggi, entrambe
parevano stanche, ma al tempo stesso più serene.
Sedettero una di fronte
all’altra, alla scrivania della giovane de’Medici, con una brocca di vin santo
portato da madonna Orsini e due coppe che venivano sollevate anche troppo
spesso.
All’inizio parlarono di
frivolezze, per alleggerire la tensione che poteva esserci dopo quasi un anno e
mezzo di lontananza ma poi, complici il vino e l’affetto che provavano l’una
per l’altra, iniziarono a scavare più
nel profondo.
“Ti chiedo scusa se
suonerò spaventata.” Ammise di punto in bianco Clarice, mentre Beatrice, giocherellava
con una ciocca di capelli “Però quella bestia…. È addomesticata
a dovere, voglio sperare.”
Gli occhi della contessa
corsero per la stanza, individuando subito la ‘bestia’ in questione,
addormentata davanti al camino. Sorrise, appoggiandosi con i gomiti al ripiano
dello scrittoio “Si possono addomesticare i lupi?” chiese seria, ridendo poi
divertita davanti alla faccia sbigottita della cognata “Posso assicurarvi che Mae è educatissima. Inoltre, è un regalo che mi è stato
fatto da un caro amico, quando ho scoperto di aspettare Alessandro.”
“Un regalo?” chiese
Clarice con un sospiro, incapace di accettare una cosa del genere “Che razza di
persona donerebbe mai un lupo ad una donna incinta?”
“Pandolfo Malatesta,
signore di Rimini e Cesena. Lui ha il fratello, che però è quasi tutto nero.
Sono bellissimi lupi della Foresta Nera, fatti arrivare su ordine del duca in
persona.” La informò la contessa “Mae è perfetta per
cacciare, fermare chiunque mi stia sfuggendo, caricare soldati in battaglia…. Vi stupireste di come sia protettiva nei
confronti di mio figlio; quando fa molto freddo e nevica si stende su un
tappeto con lui e se lo tiene vicino, facendogli così caldo.” Beatrice pareva
molto allietata da quella discussione
“Poi, se vi consola, il regalo di Girolamo quando è nato il suo primo
erede è stato ancor meno romantico o fine di un lupo.”
Madonna Orsini pareva meno
divertita di lei “Ho quasi timore a chiederti di cosa si tratta.”
Per risposta, Beatrice si
alzò in piedi. Si sentì un po’ instabile a causa di tutto quel vino, ma riuscì
comunque ad arrivare alla sua stanza. Facendo piano per non svegliare
Alessandro che dormiva beato nella sua culla, ai piedi del grande baldacchino,
prende l’oggetto che cercava da sopra una panca.
Tornò da Clarice e questa
portò subito una mano alla fronte “Temevo fosse una spada.” ammise, guardando
l’arma che la giovane fiorentina ora brandiva, dopo averla estratta dal suo
fodero.
“Non una semplice spada”
ammise, prendendola per la lama per passarla così alla cognata “Guardate vicino
all’elsa, vi è un blasone.”
Madonna Orsini lo fece,
ritrovandosi di fronte lo stemma delle famiglie Riario e de’Medici unite. “Un
dono molto bello.” Ammise, passando un dito su quel rilievo dorato, prima di
riconsegnarle quell’arma “Tuo marito deve avere molto a cuore la tua
incolumità. Non sono una grande intenditrice di spade, ma mi è parsa molto
leggera eppure solida.”
“Una lega speciale.” Ammise Beatrice, sedendosi parzialmente sulla scrivania,
mentre rinfoderava la lama. “Mi mancava la spada di mio nonno e Girolamo ha
deciso di rimpiazzarla con qualcosa che fosse per me famigliare, aspettando a
darmela sino al giorno in cui ho messo al mondo Alessandro.”
“Come la nomina a
cavaliere.” Ironizzò Clarisse, facendo ridere la più giovane.
“La fatica è di gran lunga
superiore, però.” Puntualizzò Beatrice,trovando subito il consenso di madonna
Orsini “Ero così stremata che il braccio mi tremava, mentre la tenevo alzata. Alla
fine ho ceduto e ho dormito quasi un giorno intero.” Un ultimo sorso di vino,
poi pose la domanda che più le premeva “Siete qui per Lorenzo, ammettetelo.”
Clarice parve a disagio. Si
morse le labbra, sistemando la gonna sulle gambe con un paio di movimenti
nervosi, prima di parlare “In verità, sì.” Attese lo stretto necessario per
dare alla contessa l’opportunità di fermarla. Ciò non avvenne, Beatrice la
guardava dall’alto dello scrittoio con espressione seria, così si costrinse a
parlare “Tuo fratello domanda agevolazioni per il trasporto delle merci che
giungono sui porti adriatici. Il Papa ha pesantemente tassato i mercanti, che
vendono stoffe e spezie a prezzi altissimi, una volta giunti a Firenze. Sappiamo
che qualsiasi cosa arrivi a qualsiasi porto della Romagna, da Ravenna a Rimini,
deve passare per la tua giurisdizione, qui a Forlì. Ti chiediamo solo di
abbassare i dazi per ciò che giungerà poi nella nostra Repubblica.”
Beatrice parve pensierosa.
Si alzò in piedi e misurò la stanza ad ampi passi.
Fu in quel momento, mentre
attendeva un responso, che Clarice finalmente la vide davvero.
La giovane fanciulla che
correva per i campi attorno a Firenze con un ghirlanda di fiori sul capo e un
sorriso dolce e spensierato sulle labbra non c’era più; al suo posto vi era una
donna, diventata tale troppo in fretta, che agli abiti dei colori dell’estate
prediligeva eleganti vesti nere o blu notte. La bambina che adorava farsi
pettinare i capelli da lei era stata sostituita dalla contessa di Forlì, che
prediligeva l’elmo alla ghirlanda. Le fughe improvvise, i dolci portati via
dalle mense….
Erano tutti ricordi ormai.
Di Beatrice, della sua
Beatrice, era rimasto poco.
Intristita, Clarice si
alzò in piedi. Per lei, era come rivedersi allo specchio.
Vedere come il matrimonio
aveva portato quel triste rigore nella sua vita, seppur con minori responsabilità.
“Puoi pensarci con calma,
dormici su.” Le disse, prendendole una mano e destandola da quei pensieri.
Beatrice, però, sembrava
pronta a darle una risposta “Accetto.” Ammise, stupendola. La prima volta che
qualcuno si era azzardato a presentarsi da lei con una richiesta, era stato
Giuliano, che si era sentito dire di no dal conte Riario.
“Non vuoi parlarne con tuo
marito?”
La giovane scosse il capo “Con
Girolamo discuto solo le questioni riguardo Imola. Ho carta bianca su questa
città.”
Era così. Da quando era
tornata a Forlì dopo ciò che era
successo a Roma, dopo ciò che Sisto le aveva fatto, aveva preso in mano le
redini del suo destino.
Aveva bonificato la città,
creato un esercito di volontari pagati, raccogliendo giovani contadini da tutta
la penisola e invitandoli a scegliere la carriera militare, aveva provveduto ai
molti malati di peste che affollavano le vie a causa del via vai di mercanti.
Tutto questo utilizzando i
soldi del papato, ma senza mai chiedendo nulla la marito.
Lui firmava i documenti
che lei compilava in anticipo.
“In cambio, però, voglio
una cosa.”
Clarice non si stupì,
mentre le sorrideva “Nulla è gratis, nemmeno per la famiglia.”
Beatrice asserì con il
capo, prima di tornare verso lo scrittoio “Dite a Lorenzo che mi deve un
favore. Lo incasserò con il tempo.”
Madonna Orsini chinò il
capo in segno di riconoscenza, mentre nella stanza un bambino iniziava a
piangere “Qualcuno ti reclama” disse, sorridendo come solo una madre era in
grado di fare “Ne discuteremo meglio domani.”
“Ti farò avere un
contratto, quando partirai per Firenze.” Beatrice si avviò verso la porta e
così fece anche Clarice. Prima che la donna se ne andasse, però, la contessa la
fermò “Sono felice che tu sia qui.”
Si scambiarono un sorriso
e la buonanotte, poi la fiorentina entrò nella stanza da letto e la romana si
diresse verso il suo alloggi.
Ancora persa in quel dolce
momento, Beatrice non adocchiò subito la figura che troneggiava sulla culla. Quando
la vide, però, si spaventò.
Istintivamente però alla
spada, lasciata sullo scrittoio, mentre l’uomo alto si alzata di nuovo diritto,
tenendo il bambino tra le braccia.
Si chiese come fosse
entrato, visto che le finestre erano chiuse e che lei non aveva mai lasciato l’anticamera.
Nemmeno Mae aveva dato segni di aver sentito un
intruso e la signora della rocca comprese presto il motivo. A questi cadde il
cappuccio ed ella si sentì nuovamente tranquilla.
Avanzò di qualche passo,
mentre il bambino rideva verso il nuovo arrivato.
“Piangeva.” Si giustificò
semplicemente l’uomo ammantato di nero, quando Beatrice gli fu davanti. Le mise
il piccolo fra le braccia, prima di incrociare le sue sul petto, come per
rimproverarla.
“Faccende di stato.” Lo liquidò
lei, coccolando Alessandro e riempiendogli il viso di dolci baci. Quando puntò
gli occhi su quelli dell’altro, questi stava sorridendo intenerito “Deve
mangiare, dopo di che inizieremo a lavorare, Corax.”
La figura alta fece un
breve inchino, prima di girare sui tacchi per andare nello studio e lasciarla
sola, ad accudire con amore il suo pargolo.
Mentre usciva, lo stemma
dei Riario de’Medici brillò d’argento sopra al suo mantello nero come le più
cupe tenebre.
Rimasta sola, Beatrice si
slacciò il corsetto, così da poter sfamare la sua creatura.
Gli accarezzò i capelli
tutto il tempo, cantando a bocca chiusa una vecchia ninnananna.
In quel momento di
solitudine e silenzio, tutta la tristezza e l’infelicità che covava dentro di sé
strisciarono fuori inumidendole gli occhi. Dietro alla facciata di nobile
signora e di stratega militare, c’era una ragazza non ancora ventenne che ogni
notte si addormentava in un letto freddo e vuoto, dopo molte ore passate a
studiare i libri lasciatagli da suo nonno.
Le mancavano così tante
cose e persone da non riuscire più a ricordarle tutte.
Giuliano, che nonostante
ricevesse tutte le settimane una sua lettera, avvertiva così lontano e
distaccato; Lorenzo, che mandava sempre emissari e mai si mostrava o inviava di
suo pugno una missiva; la sua Firenze, così lontana da quella città che ormai
era casa sua, ma che sapeva essere fredda come quell’inverno senza fine; la sua
innocenza, persa per sempre.
Suo marito, che non vedeva
dall’investimento a cardinale del cugino Raffaele a dicembre.
Si chiedeva spesso chi
fosse avvero Beatrice Riario de’Medici: La contessa di Forlì, la sorella del
Magnifico, la Tigre della Romagna o una figlia di Mitra. Così spaccata, in
quattro parti speculari e opposte, non sapeva rispondersi.
On top of the world is beautiful,
But there’s no place to fall….