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Autore: 9CRIS3    09/06/2014    3 recensioni
< Cosa sta succedendo? > chiese Abby in modo tranquillo ed efficiente.
Aveva capito che si trattava di un'emergenze e che mi serviva in veste di avvocato e non di cognata.
< Ci toccherà parlare a bassa voce e fingere qualche sorriso. Ryan ci sta guardando > la informai.
Abby annuì e poi mi chiese di sputare il rospo.
< Okay. Sto per dirti qualcosa che non ho ancora detto ai miei genitori o a Ted. Non lo sa nessuno e preferirei che continuasse a non saperlo nessuno fino a quando non diventa assolutamente indispensabile che anche gli altri siano informati. >
< Chiaro > fece lei, guardandomi con un'espressione mortalmente seria.
< Sto per assumerti come mio avvocato. > iniziai.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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L'ansia mi stringeva in morsa serrata.
Il panico faceva aumentare i miei battiti cardiaci  e mi impediva di ragionare lucidamente.
Violenza e percosse.
Violenza e percosse.
Non avevo mosso un singolo dito contro quel bambino o quella donna, anche se in quel momento desideravo ardentemente averla a portata di mano per farle assaggiare effettivamente la "Violenza e le percosse".
Sentivo freddo eppure mi rendevo perfettamente conto di sudare per l'agitazione che si era impossessata di me.
Non sapevo cosa fare e non riuscivo nemmeno più a ricordarmi come si facesse a muoversi.
Me ne stavo li impalata a fissare la vetrata davanti a me, dove potevo distinguere l'intera città. Le persone passeggiavano tranquille, uomini d'affari camminavano veloci con l'orecchio incollato al loro cellulare, le mamme spingevano i passeggini dove stavano sdraiati i loro bimbi.
Tutti ignoravano completamente la mia presenza a questo mondo.
Tutti avevano altro da fare che provare a pensare a quello che succedeva nella sanità in quel momento.
Tutti avevano le proprie preoccupazioni.
Mi chiesi come fosse possibile per quella gente non riuscire a vedere me, un puntino che offuscavo quella vetrata con i pensieri più cupi che la mente di un essere umano avesse mai potuto partorire.
Una mano strinse la mia spalla, facendomi sobbalzare. Avevo completamente dimenticato che non ero da sola in quella stanza; mi ero estraniata dall'universo nel momento stesso in cui Marcus aveva pronunciato il nome di quel bimbo.
Un bambino che per me era così prezioso, che avevo cercato di salvare con tutte le mie forze e ci ero riuscita:  gli avevo donato una vita lunga e felice, gli avevo dato la possibilità di crescere, realizzare i suoi sogni e di innamorarsi. Nello stesso tempo però, mi ero marchiata da sola e condannata al patibolo.
Così funziona il mondo: una vita viene ed un'altra se ne va.
Jack Braden era la vita che veniva, Phoebe Grey quella che se ne andava, magari in una fattoria a curare maiali e cavalli e buoi, perchè questo è quello che mi avrebbero consentito di fare, d'ora in avanti, se fossi stata abbastanza fortunata.
Papà mi obbligò a voltarmi verso di lui e mi fissò negli occhi, con le mani appoggiate sulle mie braccia.
Il suo sguardo diventò ancora più ansioso quando si incontrò con il mio, dove probabilmente lesse.. il nulla.
Non riuscivo a concentrarmi sul mio corpo, sui miei sensi. Tutto quello che vedevo era una stanza grande, con quattro uomini vestiti in eleganti completi scuri che mi fissavano con espressione stupita, preoccupata e ansiosa e io non sapevo come reagire.
< Phoebe? Ti senti bene? > mio padre mi scosse, continuando a tenermi stretta per le braccia.
Non risposi, ma sentii chiaramente una lacrima scendere lungo la mia guancia.
< Phoebe? > anche Ted si era avvicinato e mi fissava, con il volto stravolto dalla preoccupazione.
Papà e Ted erano in piedi, di fronte a me, l'uno vicino all'altro. Mi parve quasi di avere due immagini dello stesso uomo ma distanziate nel tempo.
Christian Grey da giovane e Christian Grey di mezza età. L'unica differenza era il colore degli occhi; negli occhi di mio fratello c'era un pezzetto di mia madre. Mia madre che più volte era stata dolce con me, comprensiva, cercando di farsi spazio nel mio cuore per convincermi ad aprirmi con lei e a confidarmi. A raccontarle cosa c'era che non andava.
Mi sfuggì un gemito.
Oh, mamma, se solo tu sapessi!
Immediatamente Ryan mi fu di fianco.
< Phoebe? > il suo tono di voce era terrorizzato e la sua mano afferrò la mia per stringerla convulsamente tra le sue.
Non mi resi neppure conto di quello che aveva fatto e che aveva commesso quel gesto davanti a mio fratello e mio padre, il suo capo.
Voltai lo sguardo verso di lui ed iniziai a piangere.
< No, no, piccola. Perchè piangi? > papà mi asciugò velocemente le lacrime con i suoi pollici e poi mi attirò  a sé in un abbraccio protettivo.
< Cosa succede, Phoebe? > fece Ted allarmato.
Ryan lasciò l mia mano e seguì Taylor fuori la porta.
Non capivo perchè lo aveva fatto: quel contatto mi era necessario. Non dissi nulla però e mi strinsi di più nell'abbraccio di papà, cercando e prendendo il conforto che lui era più che disponibile a darmi.
< Il dottor Marcus è il tuo capo, giusto? > indagò papà, spostandosi leggermente da me.
< S-s-i > balbettai
< E Jack è il bambino che temevi fosse malato anche durante la cena dalla nonna > continuò
< Si > tirai su con il naso.
< Cosa succede, piccola? >
Scossi la testa. Lui non doveva sapere. Non doveva essere immischiato in quella brutta situazione.
Anche solo il fatto che qualcuno potesse collegare me, la dottoressa denunciata per violenza e percosse, a lui, il famoso imprenditore brillante e super ricco, gli avrebbe rovinato la reputazione; i suoi affari sarebbero potuti precipitare in un battito di ciglia e avrebbe potuto perdere anche credibilità. Per non parlare del fatto che aveva chiesto proprio a me di occuparmi del progetto della sicurezza, ad un medico con una sospensione ed ora una denuncia. Un medico senza abilitazione ad operare o ad esercitare anche il minimo concetto teorico.
Mi scansai dal suo abbraccio. Avevo bisogno di riacquistare lucidità, di riprendere il controllo di me stessa e correre da Abby ed informarla dell'accaduto.
Marcus aveva ragione: prima Abby fosse venuta a conoscenza del nuovo risvolto e prima avrebbe potuto organizzarsi e cercare di salvarmi da quell'inferno, se ancora fosse possibile fare qualcosa.
< Io.. Devo.. Devo andare > presi solo la borsa e uscii di corsa dal suo ufficio.
Ignorai le sue urla dietro di me, ignorai il fatto che Ted mi era corso dietro per cercare di capire quale fosse il problema. Ignorai lo sguardo allibito di Ryan e  Taylor che lo spronava a corrermi dietro per non lasciarmi andare via da sola.
Ignorai chiunque mi passava accanto e mi fiondai nell'ascensore un attimo prima che le porte si chiudessero, lasciando fuori Ted e Ryan.
Sapevo bene che per loro non si sarebbe conclusa lì: non mi avrebbero permesso di scappare via da sola e soprattutto non dopo la scena a cui avevano appena assistito. Mi avrebbero inseguita fino in capo al mondo per scoprire quale fosse il problema.
Pensai in fretta: non avrebbero di certo aspettato il prossimo ascensore prima di potermi raggiungere all'ingresso. Ero convinta che avrebbero preso le scale e quindi avevo un vantaggio di circa due minuti su di loro.
Non appena mi trovai nell'atrio corso fuori, incurante di non avere una giacca e di correre con i tacchi alti sull'asfalto scivoloso, coperto di ghiaccio e neve.
Salii sul primo taxi libero e diedi l'indirizzo dell'ufficio di Abby al tassista, urlandogli di fare in fretta.
 
Entrai senza preoccuparmi di bussare o di chiudere la porta alle mie spalle.
Abby mi rivolse uno sguardo assassino, ma quando vide che ero io e probabilmente quando notò la mia espressione, la sua fronte assunse un'espressione interrogativa.
< Rebecca Williams mi ha appena denunciata per violenza e percosse > esordii
< Devo lasciarti, Kevin > fece lei al telefono, e senza aspettare la replica buttò giù la cornetta. < Che diavolo stai dicendo? >domandò poi.
< Rebecca Williams mi ha appena denunciata per violenza e percosse > ripetei
< Le hai messo le mani addosso? Quando? Perchè non me lo hai detto? >
< No, non l'ho mai fatto > ma in quel momento tornò in me la voglia di picchiarla, selvaggiamente.
< Ti è arrivata la lettera di denuncia? > mi domandò
< No >
< Come l'hai saputo? >
< Mi ha chiamata il mio capo, il dottor Marcus >
Abby senza proseguire afferrò il telefono e compose il numero dell'avvocato di Marcus, che sapeva essere in contatto con quello del consiglio d'amministrazione dell'ospedale.
La sentii imprecare un paio di volte, ma sempre a bassa voce, mentre si copriva con la mano la bocca e sgranava gli occhi.
Vederla reagire in quel modo alle parole, a me sconosciute, del legale del mio capo, mi fece solo temere il peggio e non aiutò affatto a lenire la mia ansia.
Abby posò il telefono e mi fissò dritta negli occhi.
< La madre del ragazzino ha visto che l'ospedale non si decideva a prendere provvedimenti concreti con te e ha deciso di andare lei da sola dalla polizia e ti ha denunciata per violenze e percosse contro suo figlio >
< Ma non ho mai toccato nemmeno con un dito quel bambino! Non nel senso delle violenze e percosse >
< Hai iniettato una cura non richiesta, senza il permesso esplicito dei genitori, in un minorenne indifeso e incapace d'agire, oltre che di intendere e di volere, viste le sue situazioni mediche al momento dell'iniezione > mi spiegò sbrigativa.
< Non vedo dove sia la violenza! >
< Si tratta di violenza psicologica, Phoebe. In quanto minorenne, ma soprattutto perchè un infante, lui non aveva la capacità o la forza di poterti ostacolare, perchè riconosceva in te innanzitutto un autorità. Secondo la legge tu hai approfittato di questa cosa e hai fatto del bambino quello che volevi >
Rimasi di sasso davanti alla sua spiegazione.
Già mi vedevo dietro le sbarre del carcere, con una tuta arancione addosso e i capelli raccolti in una disordinata coda di cavallo. Sola, abbandonata a me stessa.
Vedevo la radiazione dall'albo.
Vedevo il mio sogno e i miei sacrifici essere appallottolati e buttati fuori dalla finestra.
< Rischi fino a sei mesi di carcere e una multa salata >
< Chi se ne frega dei soldi! > sbraitai, sul punto di perdere la ragione di nuovo
< Calmati, Phoebe >
< Non avrei mai dovuto fare quello che ho fatto > sussurrai, cominciando a sentire per la prima volta i rimorsi per quello che avevo fatto a quel povero bambino.
< Hai salvato la vita a quel ragazzino > mi fece notare lei.
< Si, ma a quale prezzo? > mi posai le mani sulla bocca, coprendola e la guardai, sinceramente sconvolta.
Se mi fossi attenuta al protocollo avrei chiesto a Mrs Williams, alla strega, il permesso di fare quello che avevo fatto e magari avrei ottenuto un si e ora non sarei in questo schifo.
Chi volevo prendere in giro? Quella donna avrebbe detto di no per il semplice motivo che nemmeno una settimana prima l'avevo sbattuta fuori da casa mia in malo modo.
Le avevo urlato contro tutta la mia rabbia e l'avevo costretta ad uscire dal mio appartamento nuda come un verme, mentre le gettavo i vestiti addosso.
L'umiliazione probabilmente le avrebbe fatto dire di no come segno di sfida nei miei confronti. Ero fermamente convita di quella cosa, perchè mai, da quando avevo preso in cura suo figlio, l'avevo vista passare una notte con lui, leggergli una storia o confortarlo o stringergli la mano. Semplicemente non l'avevo mai vista esserci per lui.
Mai.
Lei arrivava, controllava che il figlio fosse vivo, si faceva ragguagliare sulla situazione, lasciava l'assegno per le cure mediche extra che eseguivamo sul piccolino e poi se ne andava veloce come era arrivata.
il bambino la vedeva come una sorta di eroina. Si era creato nella mente l'immagine che la mamma fosse impegnata a salvare il mondo, ecco perchè non rimaneva mai con lui per più di qualche minuto.
La prima volta che lo avevo sentito pronunciare una frase simile, una rabbia cieca mi era montata dentro per respingerla non avevo potuto fare altro che abbracciarlo stretto, attraverso la tuta di plastica che ero costretta ad indossare ogni volta che oltrepassavo la barriera in silicone che lo separava dal mondo normale per confinarlo in una stanzetta asettica. Lo abbracciavo stretto e gli sussurravo che anche se non ero un'eroina ci sarei stata io con lui e lo avrei coccolato fino a quando non si fosse addormentato.
Mi sfiorai istintivamente la pancia che era piatta, inespressiva, a voler dimostrare che dentro di me non c'era più una piccola vita e giurai a me stessa che i miei figli avrebbero avuto una madre presente, una madre che li sapesse amare.
< La lettera non arriverà qui ma a  casa tua a New York, quindi i tuoi genitori ne resteranno all'oscuro. Sempre che tu non decida di parlargliene > disse Abby, togliendomi dai miei pensieri per riportarmi alla realtà.
La guardai ma non risposi.
< Come tuo avvocato non sono tenuta a darti consigli in merito, ma come la ragazza di tuo fratello dovrei farlo. Dovresti dirlo ai tuoi genitori, Phoebe. E' importante avere qualcuno accanto durante un momento simile > i suoi occhi azzurri incatenarono i miei e mi sentii subito piccola piccola.
< L'ho detto ad Ava >
< Mi fa piacere che tu ti sia sfogata con qualcuno, ma.. Sul serio dovresti parlarne con la tua famiglia >
La guardai, inespressiva.
Voleva che io tornassi a casa e dicessi ai miei genitori di quanto fossi stata stupida, dell'errore che avevo commesso perchè mi credevo tanto invincibile quanto Dio, del fatto che io avessi scavalcato la madre di un mio paziente perchè l'avevo ritenuta una persona non adatta a ricoprire proprio quel ruolo.
Certo non la si poteva ritenere una madre come si deve, ma era pur sempre l'unico genitore che quanto meno si faceva vedere in quell'ospedale.
Voleva che io tornassi a casa e dicessi alla mia perfetta famiglia quanto imperfetta io fossi; che raccontassi al maniaco del controllo che era mio padre che avevo fatto una cazzata perchè ero stata parzialmente accecata dall'odio che provavo per quella donna per essersi scopata il mio fidanzato.
Mi sentivo un'idiota, un'inetta solo a realizzare quello che avevo combinato, figuriamoci dare voce ai miei incubi.
Qui non si trattava di Ava, che mi aveva abbracciata e consolata e mi aveva assicurata di esserci per me in quella situazione difficile; qui si trattava di due genitori che avevano creduto in me dal primo momento in cui mi avevano tenuta in braccio, che mi avevano spronata, appoggiata e che avevano fatto tutto il possibile per aiutarmi ad essere chi io ero in quel momento. Come si faceva a tornare a casa per dire a mamma e papà che la loro figlia è un disastro totale? Che è diventata esattamente quello che loro non avrebbero mai voluto diventasse: un'incompetente.
< Non credo che lo farò > dissi.
< Phoebe.. >
< Abby, sono qui perchè sei il mio avvocato e in quanto tale ti prego di risolvere questa situazione. Fa tutto quello che si deve fare, ma limitati a svolgere il tuo lavoro. Lascia perdere la mia famiglia: ci penso io a loro. Liberami da questa merda! >
< Mi metti in una brutta posizione con Ted > sussurrò lei.
Improvvisamente aveva perso la tenacia che le avevo sentito usare al telefono con l'avvocato di Marcus.
Aveva ragione: la stavo mettendo di fronte alla scelta più dura della sua vita. O il suo lavoro o l'amore per mio fratello.
Il mio caso, se fosse riuscita a vincerlo, le avrebbe procurato una notorietà tale da far schizzare la sua credibilità e reputazione alle stelle. L'avrebbe aiutata ad accaparrarsi i clienti più importanti ed un sacco di guadagni. Allo stesso tempo però, il fatto di dover mentire a mio fratello su quello che faceva in quell'ufficio, su chi stava aiutando metteva a rischio la loro relazione.
Fu in quel momento che realizzai che probabilmente Ted le aveva confessato che il nostro rapporto era teso a causa del litigio che avevamo avuto su Jacob, ed immaginai che Abby  se ne fosse uscita con le solite frasi di circostanza, non potendo fare altro. Non avevo però la minima idea di quanto le fosse costato mentire alla persona che amava, fare finta che si trattasse di una cosetta da nulla quando invece dietro c'era un vero e proprio ciclone.
< Posso immaginare quanto questo ti possa costare > iniziai, combattuta dal rimorso. < Se credi che possa diventare troppo, posso sempre trovarmi un altro avvocato. >
< No > fece lei, cambiando atteggiamento. Da remissiva, con le spalle curve, la vidi assumere una posa dritta e fiera. < So cosa fare. Manterrò il segreto professionale e continuerò a seguire questo caso. Ma le cose si faranno sempre più serie e vorrai avere qualcuno della tua famiglia vicino > disse.
Aveva pronunciato quella frase come se lei non facesse parte della mia famiglia.
L'avevo ferita. Avevo colpito la dolce ragazza che era innamorata di mio fratello, mettendola davanti ad una scelta dura: o lui o il lavoro.
Stavo superando ogni limite e tutto perchè non ero stata capace di controllare un mio stupido impulso.
 
Uscii dall'edificio in cui c'era lo studio d'avvocatura per cui lavorava Abby e iniziai a camminare per strada.
Sentii il mio telefono squillare e senza nemmeno rispondere o guardare da chi provenisse la chiamata lo spensi, in modo da non dare adito a mio padre di potermi rintracciare.
Volevo stare da sola.
Camminavo per la strada, con le braccia conserte, stringendomi nelle spalle per cercare di ripararmi dal freddo.
Nessuno mi notava, nessuno alzava lo sguardo per incontrare i miei occhi. A nessuno importava realmente di quello che succedeva al resto delle persone che si trovava attorno. Erano tutti concentrati sulla propria meta, sulla propria vita, sugli impegni che avevano.
Parevano tutte pecorelle che si rincorrevano l'una con l'altra; le loro vite potevano essere completamente diverse eppure parevano tutte uguali, senza un vero scopo, senza vere sofferenze.
Scossi la testa, infastidita da corso dei miei pensieri.
Cosa diavolo potevo saperne io di quali erano le battaglie personali che ognuna di quelle persone stava combattendo? Chi ero per giudicare il modo di che quegli individui avevano di affrontare la loro vita?
Da quando mi era capitato Jacob nella mia vita non facevo altro che mettere le mie sofferenze, i miei problemi davanti a tutto e tutti, e questo non era da me, non lo era mai stato.
La nostra storia d'amore seppure fosse iniziata di un modo puro e dolce si era trasformata in un incubo da cui si cerca di svegliarsi ma che ci costringere a rimanere addormentati, impedendoci di vedere la luce alla fine del tunnel.
Mi ero lasciata coinvolgere troppo, avevo lasciato che lui diventasse così importante per me da non poterne più farne a meno, ecco perchè ero passata quasi su tutti i suoi errori. Avevo la vana speranza che l'amore fosse più forte di tutto, che fosse l'unico sentimento capace di raddrizzare ogni cosa e invece non era così.
L'amore è come un'arma a doppio taglio: ti fa stare bene fino a quando sei capace di meritarti quel bene ma subito dopo ti tradisce e ti mette davanti l'esatto contrario della felicità, spensieratezza e gioia.
Per egoismo, per ripicca avevo iniettato quella cura a Jack Braden. L'avevo fatto principalmente per salvargli la vita e non era un progetto che avevo sviluppato nel giro di pochi giorni. No, quella era una cosa su cui stavo lavorando da mesi. Stavo sviluppando quella cura per permettere al bambino di vivere, ma avevo iniettato senza permesso per dimostrare quanto brava io fossi nel mio lavoro, per far vedere alla strega chi tenesse di più a quella creatura, chi si stesse comportando da madre.
In parte volevo, speravo, che lei morisse di preoccupazione per quel figlio di cui pareva essersi dimenticata, che le prendesse un accidenti quando le avrei comunicato che gli avevo iniettato un virus che per molti era stato letale. E lei aveva reagito da brava burattina nelle mia mani, inizialmente. Si era dimenata, aveva urlato, aveva assunto un aria e un tono preoccupati;  poi però come per darmi il colpo di grazia era corsa da Jacob, supplicandolo di aiutare il suo bambino. Il mio ex non si era lasciato ripetere due volte la richiesta: era venuto da me in cerca di spiegazioni e una volta ottenutele era andato da Marcus, non prima di avermi rivolto uno sguardo sprezzante.
Alzai lo sguardo per guardarmi attorno e mi sorpresi di trovarmi davanti all'ospedale.
Mi bloccai sul marciapiede e continuai a fissare l'edificio imponente e bianco. Fino a quel momento, qualsiasi ospedale mi sembrava una casa in cui potevo rilassarmi.
La gente normale tornava nelle proprie abitazioni per rilassare le spalle e riprendere fiato dopo una pesante giornata di lavoro, io invece, rilassavo le spalle e riprendevo fiato nel momento in cui indossavo il camicie.
Ora invece, guardando da fuori il posto in cui avevo salvato la vita alla mia amica, l'unica cosa che mi veniva in mente era "violenza e percosse".
Può la tua casa diventare anche il posto da cui cerchi di fuggire?
Se prima sentivo, provavo, una sensazione di tranquillità e pace ogni volta che pensavo al mio lavoro, ora mi sentivo ansiosa e percepivo il senso di vomito farsi strada dentro di me, fino a lasciare nella mia bocca un gusto amaro, di quelli che fanno rabbrividire dal disgusto.
Mi feci coraggio e decisi di entrare comunque per affrontare Jacob, per metterlo al corrente della situazione in cui mi trovavo grazie all'aiuto della sua "fidanzatina".
Entrai e mi diressi direttamente nella stanza di Betty.
I corridoi erano gli stessi che avevo percorso appena tre giorni prima, le facce però non riuscivo a riconoscerle. L'odore era sempre quello: disinfettante e malattia.
Entrai in camera e la trovai vuota. La luce era però accesa ed il letto sfatto.
Mi avvicinai ai piedi del letto per leggere la cartella della persona che era in cura in quella camera e constatai si trattasse ancora di Betty. Cercai di tranquillizzarmi sul perchè non fosse in camera, magari era andata a fare due passi.
Sedetti sulla poltrona accanto la letto, accavallando le gambe e incrociando le braccia al petto.
Rimasi immobile a fissare il vuoto a cercare di formulare il discorso che avrei dovuto rivolgere a Jacob non appena lo avessi visto.
< Ciao, Phoebe > a parlare fu una voce di donna, una voce roca che graffiava.
Sollevai lo sguardo e vidi Betty sorreggersi all'asta della flebo e sorridermi debolmente.
Mi avvicinai a lei e l'aiutai a risistemarsi a letto.
< Come stai? > le chiesi, facendole alzare il collo per controllare la ferita.
Si stava rimarginando e fui contenta di vedere che non aveva più bisogno del respiratore.
< Bene > gracchiò lei. < Mi sento solo un po' debole > mi spiegò.
< Immagino > cercai di sorriderle.
< Come stai tu? > chiese poi.
< Male > le dissi la verità.
< Lo sospettavo > fece un sospiro e fece quella particolare smorfia con la bocca che mi era così familiare da fare male.
Era la stessa espressione che faceva anche Jacob quando qualcosa non andava. Incurvavano le labbra all'insù come in sorriso ma contemporaneamente arricciavano appena le labbra dimostrando invece il loro disappunto.
< Lui è qui? > chiesi, andando dritta al sodo.
< No, è andato a prendere Billy all'aeroporto. > mi spiegò. Billy era suo marito.
< Capisco > andai a sedermi di nuovo sulla poltrona, più sollevata.
Il fatto che lui non ci fosse mi fece sentire più tranquilla.
< Phoebe, mi dispiace così tanto per essere venuti qui > mi disse Betty con tono sincero.
< Tu sei dispiaciuta? > ero incredula. < A me dispiace che per la testardaggine di tuo fratello tu sia stata esposta ad un pericolo così grave >
< A proposito, grazie. Jake mi ha detto che mi hai operata tu >
< Dovere > risposi semplicemente.
I suoi occhi azzurro chiaro mi fissavano pieni di rimorso.
< Io ero contraria a venire qui > mi disse dopo qualche attimo di silenzio.
< Me lo ha detto anche Jacob >
< So che voi due non avete avuto modo di parlare da quando siamo qui >
< Si, è così >
< Lui ha sbagliato, Pheebs, ma è seriamente dispiaciuto >
< Betty, tu non sai tutto >
< Si invece. > mi corresse. < L'ho messo alle strette: se dovevo salire su un aereo per venire qui ed aiutarlo ad affrontarti mi doveva almeno la verità. La completa, totale, verità >
< Ti ha detto tutto? > ero sorpresa.
< Si > Betty fece scivolare il suo sguardo sul mio ventre e io spostai il mio verso il muro, incapace di guardarla ulteriormente negli occhi.
< Lui ha veramente sbagliato. > ripeté.
< Si > ero d'accordo.
< Non merita che tu torni con lui, come spera ardentemente. Ma tutti meritiamo di essere perdonati, non credi? >
Fino a quel momento non mi ero mai posta il problema del perdono, avevo sempre creduto che fosse qualcosa di cui si dovesse occupare chi di dovere, come un prete, un sacerdote un rabbino o addirittura Dio. Io non ero nessuna di quelle cose e in quanto tale non potevo concedere il perdono.
La sua frase però non fece che rimbombarmi nelle orecchie.
Tutti meritiamo di essere perdonati, non credi?
Meritavo anche io il perdono, per quello che avevo fatto?
Tutti meritiamo di essere perdonati, non credi?
Potevo chiedere una cosa così grande?
Tutti meritiamo di essere perdonati, non credi?
A chi dovevo implorare il perdono? Mi avrebbe aiutata a dormire di notte? Mi avrebbe aiutata ad uscire da quella situazione?
< Sto così male, Betty > singhiozzai, prima di scoppiare in un pianto senza precedenti.
Mi abbandonai alle lacrime con un certo senso di liberazione, sfogai la mia rabbia e la paura tramite quella lacrime, nascondendo il viso tra le mani, mentre la mia amica mi porgeva una scatola di clenex e mi accarezzava dolcemente i capelli, mantenendo il silenzio per permettermi di lasciare che venisse tutto fuori, per darmi il tempo di perdermi nell'autocommiserazione. 
  
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