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Autore: 9CRIS3    13/06/2014    4 recensioni
< Cosa sta succedendo? > chiese Abby in modo tranquillo ed efficiente.
Aveva capito che si trattava di un'emergenze e che mi serviva in veste di avvocato e non di cognata.
< Ci toccherà parlare a bassa voce e fingere qualche sorriso. Ryan ci sta guardando > la informai.
Abby annuì e poi mi chiese di sputare il rospo.
< Okay. Sto per dirti qualcosa che non ho ancora detto ai miei genitori o a Ted. Non lo sa nessuno e preferirei che continuasse a non saperlo nessuno fino a quando non diventa assolutamente indispensabile che anche gli altri siano informati. >
< Chiaro > fece lei, guardandomi con un'espressione mortalmente seria.
< Sto per assumerti come mio avvocato. > iniziai.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Entrai in camera mia  mi sedetti sul bordo del letto.
Osservai la stanza che mi circondava in un silenzio quasi spaventoso.
Quelle quattro mura erano state testimoni della mia infanzia, adolescenza e quale sprazzo dell'età adulta.
Le pareti erano dipinte di un giallino paglia tenue. Un colore che in circostanza normali avrebbe dovuto rilassare, o così aveva detto la designer di interni.
Il letto era di due piazze e mezzo, anche troppo per una persona sola, ma risultò utile per le serate tra ragazze. La testata era imbottita, un particolare che aveva richiesto mamma, quando avevo cominciato a crescere e a non starci più nella culla, in quel mondo avrei evitato di sbattere la testa e farmi male.
C'erano un sacco di cuscini bianchi e turchesi. Il piumone era dello stesso turchese dei cuscini ma in più aveva delle margherite bianche disegnate sopra. Quei colori mi facevano venire in mente la primavera ed avevano veramente poco a che fare con l'inverso gelido di quel periodo dell'anno, o del freddo che avevo io dentro.
Sulla destra c'erano due grandi finestre che partivano dal soffitto ed arrivavano fino quasi a per terra, sotto di esse c'era una specie di rientranza, su cui a volte mi sedevo ed ammiravo il panorama all'esterno. Panorama di casa, come dicevano spesso anche mamma e papà.
Le tende erano leggere, turchesi.
Non avevo scelto io i colori della mia camera: l'aveva fatta arredare mamma e sospettai che avesse scelto quei colori perchè erano i suoi preferiti, considerando che la stessa tonalità, in qualche modo, era riuscito a portarlo anche nella stanza da letto sua e di papà, e far rimanere qualche accessorio in quella di Ted.
Di fronte a me c'erano due porte. Una era quella della cabina armadio e l'altra quella del bagno.
Tutto sommato quella era la camera dei sogni di qualunque bambina, ragazzina e donna del pianeta, eppure in quel momento a me sembrava solo la stanza di chi aveva sempre avuto tutto troppo facile.
Niente in quella stanza indicava che avevo dovuto sgobbare per ottenerla, io avevo chiesto e papà e mamma avevano comprato.
Nulla lì dentro era frutto del mio sudore.
Le uniche cose che potevo essere più che orgogliosa di dire che me le ero meritate e guadagnate, erano le mie lauree, ma entrambi gli attestati erano appesi nel mio appartamento di New York, ed in ogni caso, poterli osservare in quel momento non mi avrebbe aiutata.
Certo, avevo ottenuto un risultato a dire poco brillante negli studi, qualcosa che solo in pochi riuscivano ad ottenere, ma quello non era il momento adatto per ricordarmi di quanto in gamba fossi stata nella mia carriera da studentessa perchè sarebbe solo servito a portare il mio cervello a pensare al passo successivo della mia vita, e cioè quello in cui avevo cominciato ad operare da medico a tutti gli effetti e non da specializzanda.
Ero brava nel mio lavoro, lo sapevo bene. Non avevo bisogno che qualcuno si complimentasse con me per farmi salire l'autostima. Sapevo riconoscere i miei meriti, ed era una cosa che avevo imparato a fare grazie all'aiuto di mio padre.
Da sempre, in qualunque cose mi impegnassi, che si trattasse di uno sport, di un progetto scolastico o più semplicemente di studiare per il compito in classe, qualunque risultato io riuscissi a portare a casa la risposta di mio padre era : < Sono fiero di te, Phoebe, significa che questo è il risultato che da sola sei riuscita ad ottenere >.
Era una risposta così semplice eppure così vera. Il risultato che ottenevo era esattamente uguale alle forze impiegate per ottenerlo; quanto più mi impegnavo, tanto più il risultato migliorava, i voti si alzavano e la laurea si avvicinava. Mi aveva aiutata a capire che non era necessario che tante persone credessero in me: la persona più importante che doveva farlo ero io. Se io ero il mio primo avversario, non sarei mai andata molto lontano.
Ed ora però, nonostante non fossi stata io il mio nemico, mi trovavo ad un punto piuttosto brutto della mia vita. Forse il fatto di credere così tanto in me, di sapere di avere tutte le carte in regola per poter fare qualunque cosa ed eccellere, mi aveva portata ad eludere il protocollo e fare quello che mi pareva di un bambino indifeso.
"Ci hanno fatto causa, Phoebe"
"Violenza e percosse"
"Sospensione"
Così mi sarei dovuta preparare ad un processo.
Questa storia diventava sempre più complessa, troppo.
Sarei potuta rimanere a Seattle, trovare lavoro nell'ospedale della zona, evitare di incontrare Jack Braden, sua madre e Jacob.
Magari ora avrei avuto una vita normale, senza queste preoccupazioni. Sarei stata una dottoressa capace nel suo lavoro che poteva fare qualunque attività riteneva più opportuna senza timore che il macigno che si stava trascinando dietro potesse schiacciarla da un momento all'altro.
E che fine avrebbe fatto Jack?, la fastidiosa vocina.
Probabilmente avrebbe trovato qualcuno capace di aiutarlo. In fondo Betty era la sua pediatra, ed era più che capace nel suo lavoro. In un modo o nell'altro l'avrebbe aiutato, no?
Dovetti ammettere a me stessa che però l'idea dell' HIV disattivato era venuta in mente a me e non a Betty.
Possibile che se non ci fossi stata io quel ragazzino sarebbe morto?
Mi imposi di non darmi la risposta. Non era il caso di occupare il mio tempo anche con quel pensiero. Jack era vivo e vegeto e probabilmente di lì a un mese lo avrebbero anche lasciato andare a casa.
Quella ci cui non si sapeva di che fine sarebbe patita ero io. Cosa mi aspettava? Un processo all'ultimo sangue? Abby sarebbe riuscita a tirarmi fuori da quel casino? Sarebbe riuscita a fare un'arringa più convincete di quella dell'accusa? Avrebbe convinto la giuria?
Afferrai il mio telefono e la chiamai.
< Phoebe! > esclamò lei all'altro capo.
< Mi spiace per prima, ma mi hai colta di sorpresa >
< Sono sconvolta anche io: pensavo che questa storia si potesse risolvere senza bisogno di un processo. Credevo che una cosa tra avvocati e il consiglio d'amministrazione sarebbe potuto bastare. Magari sganciare un po' di soldi per la madre del bambino come sorta di risarcimento o tutte le cure necessarie al figlio a spese tue da quel momento in poi.. Ma non avrei mai pensato al tribunale >
< E ora che si fa? >
< Sto preparando tutto quello che serve per poter affrontare questa situazione. Il dottor Marcus sarà chiamato a testimoniare e credo che ne approfitterò anche io per rivolgergli alcune domande >
< Verrà chiamato anche Jacob >  mi si strinse la gola. Cosa avrebbe potute affermare in quell'aula?
< Si, è probabile. Saranno richiamate tutte le persone di turno la sera dell'iniezione e tutte quelle che comunque potrebbero avere un collegamento con questa storia. >
< Betty è la pediatra > dissi
< Anche lei, si. >
< Cosa devo fare? >
< Per il momento nulla. Quando avrò bisogno di te, ti chiamerò qui e ti farò alcune domande: simuleremo il processo. Le domande dell'accusa sono sempre quelle. Ho saputo il nome dell'avvocato di Mrs Williams. > si fermò, lasciandomi in sospeso.
< E? >
< E' piuttosto bravo nel suo lavoro, ma ognuno ha le sue pecche > mi rassicurò.
< Okay. >
< Farò quanto possibile per tirarti fuori dal guaio, Phoebe >
< Ci conto > e lo facevo davvero. Speravo con tutta me stessa che riuscisse a tirarmi fuori da quel guaio.
Non ero mai stata in un tribunale, mai in vita mia. Non ne avevo mai avuto bisogno ed ero abbastanza contenta di non averci mai dovuto mettere piede dentro.
Non ero mai nemmeno stata scelta come giurata; papà si invece, una volta, ma aveva risposto che non poteva presentarsi perchè aveva un'impresa da mandare avanti.
Mi chiesi come sarebbe apparso da dentro un tribunale. Fantasticai sul fatto che sarebbe potuto essere come quelli che fanno vedere per televisione: con grandi panche di legno massiccio, il pulpito del giudice altrettanto imponente, il banco degli imputati rilegato in un angolo, alla destra del giudice, i giurati seduti in schiera a puntare gli occhi sugli avvocati e sul colpevole.
Mi avrebbero guardata e giudicata tutti per quella che aveva iniettato un virus pericolo nel corpo di un bambino indifeso, non sapendo nemmeno bene di quello che stavano parlando.
Mi avrebbero puntato il dito contro e probabilmente se ne sarebbero usciti dicendo che lo avevo fatto per manie di grandezza? Sicuramente l'accusa avrebbe fatto di tutto per farmi passare per colpevole ed Abby mi aveva spiegata che io rischiavo il carcere per il mio errore.
A nessuno interessava che Jack ora potesse mangiare da solo, afferrando le posate e portandosi autonomamente il cibo in bocca; sua madre probabilmente nemmeno lo sapeva.
A nessuno interessava che il bambino ora potesse camminare, senza rischiare di perdere le forze e cadere per terra, rischiando di rompersi le ossa fragili.
A nessuno interessava che il mio paziente probabilmente stesse riprendendo una buona parte del peso che aveva perso a causa della malattia. Era diventato un anoressico, tutto pelle e ossa e questo serviva solo ad esporlo ad un pericolo maggiore ogni volta che aveva una crisi e dovevamo intervenire su di lui o quando dovevamo operarlo.
A nessuno interessava il progresso medico che potevo aver scoperto.
Ma a tutti interessava chi fosse la scellerata che aveva iniettato l'HIV nel corpo di un bambino senza il consenso dei genitori. Genitori assenti, menefreghisti ed egoisti, ma pur sempre genitori.
 
Passai il resto del pomeriggio in camera mia, nascosta dalla mia famiglia.
Il lunedì sarebbe stata la vigilia di Natale e il martedì avrei avuto la grande cena con tutti i parenti.
Quella storia era diventata il mio incubo peggiore due giorni prima di Natale. Fantastico.
Provai a pensare ai regali di Natale, a quelli che mi mancavano e quando mi resi conto che erano proprio mamma e papà quelli che mancavano all'appello, mi sentii in colpa.
Non solo li stavo tagliando fuori dalla mia vita ma mi ero anche dimenticata di loro per il regalo di Natale. Che razza di figlia ero diventata?
Inviai un messaggio a Ted, per chiedergli aiuto.
 
Lo so che seri arrabbiato con me, ma mi serve un mano per il regalo di mamma e papà.
 
Rimasi a fissare lo schermo, aspettando che comparisse la bustina gialla, avvisandomi che mio fratello avevo deciso che forse non ero poi così indegna di ricevere risposta.
Sapevo bene che la sua rabbia era frutto della preoccupazione e che il fatto che io avessi deciso di tagliarlo fuori dalla mia vita non mi aveva aiutata, ma a mio parere Ted aveva esagerato.
Certo, lo aveva fatto con ragione. Aveva continuato ad insistere perchè effettivamente gli stavo nascondendo qualcosa e lui l'aveva capito, ma per quanto ne sapeva lui si trattava solo di Jacob.
Il bip del cellulare mi avvisò che avevo un messaggio non letto.
 
Un week - end in Italia?
Non sono arrabbiato con te, ma preoccupato, Pheebs.
 
Ted e la sua mania a preoccuparsi per ogni cosa.
Era troppo simile a papà ed ero fermamente convinta che lavorare così a stretto contatto con lui non l'aiutasse per niente.
Se prima i suoi atteggiamenti erano solo vaghi, se si poteva notare solo una certa similitudine caratteriale con papà, da quando era cresciuto era diventato tutto il contrario: quei due erano troppo simili. Bastava un nulla per farli arrabbiare; erano entrambi testardi, cocciuti, esasperanti.
Cercai di evitare la sua seconda frase e mi concentrai sulla prima parte, nonché il motivo per cui l'avevo cercato.
Gli scrissi: Non ci avevo pensato. Bravo, Teddy! Roma? o Venezia?
 
- Venezia, Pheebs! Che domande fai?  rispose subito dopo.
- Anche Roma è molto bella.
- Sto prenotando per Venezia. scrisse dopo qualche minuto, facendo finta di non aver letto il mio appunto su Roma.
- Ricordati di mettere anche il mio nome sul bigliettino :) scherzai.
- "La figliola prodiga" va bene?
- Dottoressa in Medicina e Chirurgia, specialista in Chirurgia generale, Phoebe Grace Grey. Molto meglio, no?
- Theodor Raymond Grey, CEO Grey Enterprises Holdings Inc.
- Piacere di conoscerla, Mr Grey
-Okay, piccoletta. Voliamo basso. Volo e albergo prenotati, tre notti a Venezia per due persone.
- Bene.
-Ci vediamo domani sera. Ciao piccoletta
 
Era ritornato il classico Ted di sempre.
Tirai un sospiro di sollievo: almeno una cosa era tornata alla normalità.
Ted e io avevamo sempre avuto un rapporto bello, fin da bambini. Era proprio un fratello maggiore con i contro fiocchi: sempre pronto ad aiutarmi, a spiegarmi le cose che non capivo, a  proteggermi, ad esserci.
Insieme ci eravamo divertiti così tanto che a volte non mi sembrava di avere un fratello ma un amico. Si, proprio un amico. Avevo questa impressione perchè a volte con i fratelli non si è sempre così sinceri come si verrebbe, magari per pudore o vergogna. Esattamente come io stavo facendo con Ted a proposito della mia questione lavorativa.
Ma non era sempre stata così, affatto. Prima parlavamo di tutto, di qualunque cosa.
Dio, quanto odiavo quella situazione.
Mi stava modificando troppo. Mi stava trasformando in quella che non ero mai stata, e non mi piaceva per niente.
Mi alzai velocemente dal letto e mi diressi verso la cucina: la reclusione non aiutava il mio umore cupo.
Quella stanza era deserta.
Provai nel salotto, ma anche lì non c'era nessuno.
Feci l'ultimo tentativo, entrando nella sala del megaschermo.
Trovai mamma seduta vicino a papà e Alex seduto una fila davanti.
Li guardai e sorrisi. Ovviamente i miei genitori avevano già avuto dei bambini, ma quei bambini eravamo io e Ted e io non avevo mai avuto la possibilità di vedere la scena dall'esterno. Ma ora, guardandoli con il piccolo Alex li vicino a loro, mi resi conto di che famiglia felice potevamo sembrare noi, anni addietro.
Mamma aveva posato le gambe in grembo a papà, che le accarezzava le cosce ritmicamente sorridendole di tanto in tanto.
Mi andai a sedere vicino ad Alex, che mi rivolse un grande sorriso, prima di tornare a rivolgere la sua attenzione allo schermo.
Stavano guardando un cartone animato, uno di ultima generazione che non riconobbi.
Portai le ginocchia al petto e vi appoggiai il mento sopra, continuando a guardare lo schermo.
< Phoebe! > esclamò Alex
< Dimmi, piccolo >
< Mi avevi promesso che mi avresti detto come si fa per far innamorare qualcuno > mi guardò con gli occhi seri, dietro gli occhiali che gli erano scivolati sul naso.
Portai il mio indice sulla stecca tra le due lenti e glieli spinsi più su, in modo che non dovesse affaticarsi per guardare attraverso i vetri.
< Hai ragione, te lo avevo promesso > dissi, lanciando un 'occhiata ai miei genitori, che mi fissavano incuriositi.
< Me lo dici? Papà dice sempre che sono piccolo > mise il broncio.
Gli accarezzai i capelli, intenerita dalla sua espressione.
< Devi essere dolce, dirle sempre la verità, portarle qualche fiore > dissi, lasciandogli una carezza sulla guancia paffuta.
< E darle tanti baci? >
< Va dritto al solo, il ragazzino > mormorò papà alle nostre spalle.
< Magari sulla guancia per il momento, Alex > s'intromise mamma.
< Perchè? > chiese lui, con aria innocente.
< Perchè sei troppo piccolo > lo ammonii io.
< Papà me lo dice sempre >
< Il tuo papà ha ragione > gli dissi
< Posso chiederti una cosa? > mi domandò
< Certo >
< Ti piace il mio papà? >
Improvvisamente mi mancò l'aria nei polmoni.
Non potevo credere che mi avesse appena rivolto quella domanda con i miei genitori seduti dietro di me.
< Perchè me lo chiedi? > domandai, con voce strozzata. Vidi con la coda dell'occhio mia madre che mi fissava incuriosita e mio padre stare fermo, immobile, completamente rigido sulla poltrona.
< Oggi pomeriggio gli hai dato un bacio sulla guancia >
In quel preciso momento desiderai che il pavimento ai miei piedi si aprisse e che l'oscurità mi inghiottisse. Che terribile idea uscire dalla mia stanza!
< Noi.. emh.. siamo amici > tentai.
Papà sbuffò dietro di me, ma non mi voltai per affrontarlo.
< Ma io non voglio essere amico di Ashley > mi spiegò < Quindi non le darò dei baci sulla guancia, mi dispiace signora > disse voltandosi verso mia madre, che gli passò una mano tra i capelli e gli sorrise dolcemente.
Papà si alzò ed uscì dalla sala, non prima di avermi lanciato uno sguardo molto esplicito, che mi ordinava di alzarmi e seguirlo.
Ubbidii. Seguii mio padre fino al suo ufficio. Nel giro di pochi giorni avevo visto mio padre più volte dentro quello studio che in altro posti della grande casa, e non erano tutti bei momenti.
Mi andai a sedere sulla stessa poltrona che avevo occupato quando lui e mia madre insistettero per parlarmi a proposito di Jacob.
< Cos'è questa storia che tu e Taylor siete "amici"? >  mi chiese, con il volto duro.
< Noi.. volevamo parlartene l'altra sera, ma poi è arrivato Alex e.. sai.. non.. >
< Phoebe, lui è la tua guardia del corpo. Un mio dipendente. Non puoi avere una storiella con un dipendente. Chiudila subito > mi ordinò.
La fastidiosa sensazione che lui mi stesse ordinando con cui potevo avere relazioni e con chi no, come quando faceva quando avevo quindici anni, mi fece innervosire.
"storiella"! Non era una storiella, quella!
< Papà, io ci tengo veramente molto a lui e.. >
< Vi conoscete da quanto, tre minuti? Non dirmi che te ne sei innamorata! >
< Che importa da quanto tempo ci conosciamo? Io ci sto bene con lui >
< Ha un figlio, Phoebe. E lavora per me >
< Alex non è un problema per me, e non lo è nemmeno il fatto che lavora per te >
< Lo è per me. Non potrebbe proteggerti se anche lui è legato a te come mi pare di aver capito che tu lo sei a lui >
< Siamo solo all'inizio, papà. Non saprei dire con precisione cosa.. cosa prova lui >
< E tu cosa provi? > mi interrogò
< Ci tengo. Molto > ammisi, sincera.
< E quando te ne andrai? Quando tornerai al tuo lavoro? Lui lavora per me. L'ho assunto perchè dovrà sostituire Taylor in tutto e per tutto, per cui rimarrà qui >
Non avevo mai pensato a quel dettaglio. Non l'avevo mai fatto perchè pensare di poter avere un futuro con lui era qualcosa di veramente molto grande, qualcosa che desideravo ma che non sapevo se potevo avere.
Quando io me ne sarei dovuta andare, cosa avremmo fatto? Non lo sapevo. Non ne avevamo mai discusso, non ne avevamo avuto il tempo e quando ci sembrava di poterlo fare, era arrivato Alex.
< Non lo so come si evolverà la situazione, ma per il momento ci tengo >
< Non posso permettere che lui non sia concentrato sul lavoro perchè pensa a divertirsi con te. >
< Non ha mai perso la concentrazione sul suo lavoro > lo informai. Ed era vero. Era stato sempre efficiente dal punto di vista della sicurezza, quando eravamo stati assieme; basti pensare al tavolo che aveva scelto quando eravamo andanti nel nostro posto: lontano dalla vetrata, lontani dagli occhi indiscreti.
< E' meglio per lui > disse, minaccioso.
< Papà.. >
< Mi fa incazzare che tu ti stia frequentando con qualcuno del personale, Phoebe. Non approvo. Per niente >
< Io.. > non sapevo cosa dire.
Cosa avrei dovuto rispondere? "Mi dispiace, papà, ma lui è così dannatamente sexy che non sono riuscita a resistere"? Avrebbe licenziato Ryan in tronco.
< E poi questo non è il momento giusto per te avere una storia con uno come Ryan > disse enigmatico.
< Cosa intendi? > lo guardai interrogativa.
< Tu sei appena uscita da questa batosta con Jacob e ti stai buttando tra le braccia di uomo con un figlio e un passato burrascoso > si strinse nelle spalle.
< Se ti riferisci al fatto che era un ragazzino prepotente che si è cacciato in qualche rissa, io.. > la sua risata mi fece bloccare.
< Rissa, ragazzino? Dici sul serio, Phoebe? >
< Si > feci offesa. Questo è quello che mi aveva raccontato Ryan.
< Tu non lo conosci affatto, quel ragazzo > mi fissò dritto negli occhi con espressione dura. < Sua padre era un drogato e sua madre una spogliarellista. Jason ha fatto di tutto per portarlo via dal fratello ed affidarlo a qualcuno che fosse capace di gestirlo, ma non c'è mai riuscito. Non fino ai dieci anni, ma a quel punto Ryan aveva vissuto anche troppo con i suoi genitori naturali ed aveva un temperamento troppo irruento. L'ex moglie di Jason l'aveva tenuto per un certo periodo con lei e Sophie ma aveva paura che lui potesse influenzare la cugina e così ha chiamato Taylor e l'ha fatto spedire in una famiglia affidataria, in cui è rimasto fino a diciotto anni. Poi si è iscritto all'accademia di polizia per tirarsi fuori da quella merda ma è rimasto coinvolto da una ragazza. Lei era una drogata e lui stava dicendo un sacco di bugie per proteggere lei e questo andava ad interferire con le indagini su un certo spacciatore. Si è licenziato prima che potesse creare altri problemi o che potessero risalire a lui e poi ha messo incinta quella ragazza, che è morta di overdose un mese dopo la nascita del figlio. Lo stesso Alex ha dovuto subire un periodo di disintossicazione >
Finì il suo discorso e mi fissò, aspettandosi una reazione da parte mia che lo rassicurasse sul fatto che avrei messo fine alla storia con Ryan.
Quello che mi aveva detto mi aveva colpita e non di poco, ma chi ero io per poterlo giudicare senza prima aver ascoltato la sua versione dei fatti? Io stessa mi trovavo in una posizione scomoda e ci sarei rimasta male se lui fosse saltato a conclusioni affrettate senza prima darmi il tempo di spiegare.
Se mio padre credeva che quella storia mi avrebbe fermata, si sbagliava di grosso.
< Come hai saputo queste cose? >
< Ho fatto le mie ricerche. Le faccio sempre. E Ryan ha confermato. >
< Okay > dissi
< Okay? >  fece confuso, corrucciando le sopracciglia.
< Non mi interessa quale sia il suo passato. Mi interessa ora, il suo presente > mi strinsi nelle spalle.
< Lui è un mio dipendente >
< Affida Ryan alla mamma e dai a me LeBlanc per il tempo che rimarrò qui > proposi.
< Phoebe.. >
< Ci tengo davvero a lui > ripetei
< Mi hai già chiesto di rimanere fuori la storia tra te e Jacob, e per quanto io la odi come soluzione, lo farò. Ma non intendo assecondare anche questo tuo capriccio >
< Non si tratta di un capriccio >
< E' un mio dipendente >
< Io e lui abbiamo una relazione > sentenziai
< Ma se vi conoscete a malapena! >
< Ci conosciamo abbastanza >
Improvvisamente la sua espressione cambiò < Voi due.. voi due avete fatto sesso? >
Diventai improvvisamente rossa e quello bastò per dare conferma ai dubbi di mio padre.
< Phoebe! E' un mio dipendente, la tua guardia del corpo! > si passò la mano tra i capelli, con fare esasperato
< Ci tengo a lui >
< Mi metti in una posizione difficile >
< Non credo: sei tu il capo >
< Appunto! Sapere che quel ragazzo si è scopato mia figlia non lo aiuta affatto! >
< Non credo si sia trattato esattamente di quello > dissi balbettando, diventando ancora più rossa.
< Oh, Cristo! > si passò di nuovo le mani tra i capelli, esasperato.
< Per favore > lo supplicai.
< Sei fortunata che è bravo tanto quanto suo zio. > disse e poi mi congedò, sedendosi alla sedia della sua scrivania e liquidandomi con un gesto della mano.
Irritante. Ecco la parola che avrei usato per descriverlo in quel momento.
 
Entrai nello studio di Taylor e trovai Ryan seduto alla scrivania che leggeva certi documenti. Mi avvicinai a lui e gli posai una mano sulla spalla, abbassandomi e baciandogli dolcemente una guancia.
Lui alzò il suo sguardo su di me e mi fissò divertito.
< Serve qualcosa, dottoressa? >
< Credo che dovremo parlare > strinsi le labbra e lo fissai negli occhi.
Ryan spostò leggermente la sedia, in modo da stare leggermente voltato verso di me, ma da non rivolgere più completamente il busto verso la scrivania.
< Di cosa? >
Approfittai della sua posizione e mi accomodai sulle sue ginocchia, cogliendolo di sorpresa.
< Ho parlato con mio padre. > iniziai. 
  
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