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Autore: Levy94    19/06/2014    2 recensioni
Dal testo:
David ultimamente aveva un unico chiodo fisso in mente: capire cosa c'era dietro la porta bianca del terzo piano. [...]
A volte si perdeva a fantasticare sull'età e l'aspetto di chi potesse abitare quella stanza. [...]
A volte si perdeva a fantasticare sull'età e l'aspetto di chi potesse abitare quella stanza. Magari era un ragazzino malato che tenevano al sicuro perchè non si aggravasse. O forse era una ragazza così brutta che, per non spaventare gli altri ospiti dell'Istituto, era tenuta nascosta.
O, chissà, magari era un gale. [...]
A quanto pareva, David aveva sperato abbastanza forte. Il ragazzo era un gale dai capelli rossi ricci e dalle lunghe orecchie feline un po' più scure; la coda, anch'essa lunga e rossa, si muoveva pigramente sul pavimento. [...]

I gale sono esseri simili agli umani, ma con dettagli felini.
Dalla mia fissa per neko e cose simili è venuta al mondo questa One Shot.
La storia partecipa al contest di scrittura Gems and Stories su fb.
Genere: Angst, Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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David ultimamente aveva un unico chiodo fisso in mente: capire cosa c'era dietro la porta bianca del terzo piano.

Nell'Istituto erano accolti un centinaio tra bambini e ragazzi, tutti abbandonati dai genitori, ognuno per i più vari motivi. Non avendo nessun altro posto dove andare, l'Istituto si prendeva cura di loro fino al momento in cui avrebbero potuto vivere una vita autonoma nella società.

David viveva in quell'edificio da quando aveva non più di un paio di mesi di vita. Eppure solo ora notava quella bianca porta, sempre chiusa a chiave. Ogni giorno qualcuno dei tutori entrava con un vassoio del pranzo o della cena -sì, aveva spiato a lungo- e ne usciva dopo meno di un'ora con il vassoio vuoto. A volte c'era anche chi portava avanti e indietro dalla stanza dei vestiti e delle coperte, nonché vari oggetti da bagno.

Il ragazzo non era più un bambino, si sentiva già adulto con i suoi quattordici anni d'età, e poteva ben capire che tenessero qualcuno in quella stanza.

Sull'identità del soggetto, però, non aveva indizi.

A volte si perdeva a fantasticare sull'età e l'aspetto di chi potesse abitare quella stanza. Magari era un ragazzino malato che tenevano al sicuro perchè non si aggravasse. O forse era una ragazza così brutta che, per non spaventare gli altri ospiti dell'Istituto, era tenuta nascosta.

O, chissà, magari era un gale. Ce n'erano così pochi nell'istituto che a David l'idea che, forse, in quella stanza ci fosse un gale, piaceva davvero. Anche se non capiva perchè fosse tenuto nascosto.

I gale erano di natura dolci e socievoli. Convivevano da secoli con gli umani, tanto che col tempo le due razze avevano imparato a condividere la vita l'uno con l'altro. Letteralmente.

Ogni umano poteva condividere quella che era chiamata "essenza" con un unico gale. In pratica condividevano una parte della loro vita, della loro anima, con il compagno o compagna di vita, il fratello o la sorella dell'anima. Ovviamente non tutti arrivavano a fare una cosa del genere. C'era sempre chi non trovava il compagno giusto o che non voleva dividere la propria anima con qualcun altro.

A David, invece, piaceva l'idea che magari un giorno avrebbe trovato il suo gale. E sapeva che sarebbe stata la persona migliore al mondo!

In più trovava davvero adorabili i loro modi di fare. Nonchè anche aggraziati nell'aspetto.

Quindi, sì, David sperava che in quella stanza ci fosse un gale. Il suo gale magari. E voleva assolutamente vederlo. Doveva solo riuscire a oltrepassare quella porta bianca chiusa a chiave...

E intanto i giorni di "appostamento" aumentavano. Magari nella speranza di un colpo di fortuna. Fortuna che, a quanto pare, scarseggiava. Dopo due mesi aveva fatto un unico passo avanti: scoprire dove veniva tenuta la chiave.

Aveva abbandonato il controllo della porta per spostarsi su di essa e sperava che l'idea, spuntata nel suo cervello di punto in bianco, funzionasse.

Arrivata la notte, prese la chiave dal suo cassetto e salì di corsa le scale per il terzo piano. Finalmente poteva vedere chi c'era dietro la porta bianca!

 

La stanza era luminosa, nonostante fosse notte fonda. Nella parete opposta alla porta c'era una enorme finestra, mentre le altre pareti erano ricoperte da librerie e scaffali straripanti di libri. Erano talmente tanti da occupare anche parte del pavimento in un caos di copertine e fogli.

In un angolo stava un ragazzo intento a leggere un libro alquanto voluminoso illuminato solo dalla luce di una piccola lampada da tavolo poggiata a terra.

A quanto pareva, David aveva sperato abbastanza forte. Il ragazzo era un gale dai capelli rossi ricci e dalle lunghe orecchie feline un po' più scure; la coda, anch'essa lunga e rossa, si muoveva pigramente sul pavimento.

David entrò e si chiuse la porta alle spalle. Il ragazzo, intanto, non sembrava essersi accorto di nulla. Probabilmente il libro che stava leggendo doveva appassionarlo parecchio.

In quel momento, in una stanza non sua, immobile come un idiota a osservare quel gale, David si sentiva un po' un intruso. E anche maleducato. Non aveva chiesto il permesso di entrare né aveva fatto notare la propria presenza.

David fece un solo colpo di tosse per annunciarsi, ma bastò al ragazzo per alzare gli occhi dal tomo e fargli drizzare le orecchie. Per un secondo David riuscì a vedere in volto il gale. I capelli gli incorniciavano il viso in modo adorabile, un riccetto ricadeva proprio al centro e scendeva fino a toccare il naso. E gli occhi... beh, erano proprio quelli di un gatto, di un bel giallo brillante. Solo dopo tutti questi dettagli, David notò una lunga cicatrice che gli passava sull'occhio destro, senza però accecarlo, e scendeva fino alla mandibola, mentre una cicatrice più piccola tagliava verticalmente le labbra sul lato sinistro del volto.

Solo per un secondo riuscì a guardarlo. Il secondo dopo il ragazzo era corso a nascondersi sotto il letto.

 

Il gale tremava e soffiava come un gatto mostrando i denti, tenendo la coda dritta e il corpo schiacciato a terra. Aveva paura, tanta paura. E nel momento in cui l'umano si avvicinò per guardarlo, il gale si spinse ancor più contro la parete alle sue spalle. Avrebbe graffiato e morso fino a incidergli le ossa a costo di non farsi toccare da quell'umano. Se solo avesse osato allungare una mano verso di lui, glielo avrebbe fatto pentire per il resto della vita!

Il gale si aspettava che si avvicinasse, che provasse a tirarlo fuori dal suo nascondiglio con la forza. Eppure quell'umano non ci provò nemmeno. Dopo aver fissato il gale con un misto di curiosità e... preoccupazione?, si allontanò fino dall'altra parte della stanza.

«Esci da lì sotto se prometto di non muovermi di qui?» disse l'umano.

Silenzio.

«Davvero! Te lo giuro!»

Altro silenzio.

Il gale non voleva dargli confidenza. Non sarebbe uscito né gli avrebbe parlato. Era un intruso. Era un umano. Se non fosse stato bloccato dalla paura, probabilmente gli sarebbe saltato addosso per graffiargli la faccia e strappargli la pelle a morsi.

«È perchè sono entrato senza permesso, vero? Sì, okay, ho sbagliato, lo ammetto. Però... Se qualcuno scopre che sono a gironzolare da queste parti a quest'ora sono nei guai!»

“Allora perchè sei qui? Nessuno ti ha chiesto di venire a cercarmi!” voleva urlargli il gale. Però rimase zitto, non voleva dargli la soddisfazione di far sentire la propria voce.

L'umano sbuffò. «Ti va, almeno, di dirmi come ti chiami?»

“No che non mi va! Eppoi dovresti prima presentarti tu!” pensò il gale.

«Hai ragione, prima dovrei dirtelo io. Sono proprio un maleducato!» ridacchiò l'umano interpretando il silenzio. Cosa c'era di così divertente? E perchè quel tipo sembrava così tranquillo e inoffensivo? Sembrava quasi amichevole.

«Io sono David.» continuò il tipo, «Senti, ti prometto che me ne vado se mi dici il tuo nome.»

Il gale rimase ancora più sorpreso. Davvero voleva solo quello? Solo il nome, poi sarebbe sparito? Impossibile. Doveva essere per forza una bugia.

«Sul serio. Solo il nome, poi me ne vado. Te lo prometto.» ripetè il tipo.

Il gale si affacciò dal suo nascondiglio quel tanto che bastava per vedere in viso l'intruso. Come aveva promesso dall'inizio, non si era avvicinato, semmai aveva fatto un passo indietro. La cosa più strana era che aveva uno sguardo sincero e un accenno di sorriso.

Aveva promesso a se stesso di non parlargli. Però il tipo aveva promesso di andarsene se avesse saputo il suo nome. Voleva solo il suo nome, solo quello. Ma dopo se ne sarebbe andato davvero? E se fosse stata una bugia? Un trucco?

Mentre il gale pensava e ripensava, il tipo, vedendo la sua testolina riccia spuntare da sotto il letto, gli riservò un sorriso ancor più ampio di prima.

Il rosso, preso alla sprovvista da un gesto così sincero e dolce, si rintanò nuovamente con la schiena alla parete. “Cerca solo di farti abbassare la guardia! Non cedere!” si disse il rosso.

E l'umano, intanto, aspettava. Avrebbe avuto pazienza. Non voleva certo mettere fretta al ragazzo, visto che non si fidava di lui.

Un minuto, due, cinque, dieci. Nel silenzio si sentiva solo qualche fruscio e i respiri dei due ragazzi, uno rilassato, l'altro ancora ansioso e spaventato.

E David non si muoveva. Se ne stava lì, in piedi, immobile, le braccia dietro la schiena. Sperava che la sua pazienza facesse in modo che il gale si potesse fidare, voleva fargli capire che non aveva cattive intenzioni.

Altri minuti che passavano. Altro silenzio.

Il rosso, intanto, pensava che forse, forse,l'avrebbe accontentato. Voleva solo il suo nome, no? E aveva aspettato paziente senza muoversi dall'angolo della stanza. Gli avrebbe detto solo il nome, solo quello, così dopo se ne sarebbe finalmente andato.

Il gale prese fiato. «Michael.» disse a bassa voce, ma nel silenzio si sentì comunque forte e chiaro.

David sorrise. Ora era soddisfatto. «Grazie. Te l'ho promesso, vado via.»

Michael vide il ragazzo andare alla porta, aprirla, uscire e richiuderla. Dopo aver sentito il rumore della chiave nella toppa prese coraggio e uscì da sotto il letto.

 

David mantenne la parola: non tornò.

Né il giorno dopo, né quello dopo ancora. Dopo una settimana ancora nulla. E Michael ne era felice, davvero, ma per qualche strana ragione l'umano gli era rimasto in mente. Sì, perchè nella sua testa l'umano non aveva nome, gli umani non avevano nome per lui. Erano solo mostri, e come tali andavano trattati, anche nel proprio pensiero.

Tutte le volte che si concentrava troppo sul ricordo dell'umano, correva in bagno davanti allo specchio e fissava le cicatrici, le sfiorava con le dita e chiudeva gli occhi, tanto per ricordare meglio il dolore e la paura.

A volte il panico tornava insieme ai ricordi e si sovrapponeva al sorriso amichevole che gli aveva fatto l'umano. In quel momento la realtà perdeva senso. Come potevano due umani essere così diversi tra loro? Era impossibile! Come poteva un umano essere crudele, un mostro senza coscienza, e un altro, invece, essere quasi gentile e amichevole?

Si era sempre detto che gli umani erano tutti uguali. Visto uno, visti tutti.

E si guardava allo specchio per convincersene, per dirsi che quelle cicatrici non mentivano, mentre gli umani sì. E anche quello che gli aveva sorriso mentiva. Doveva mentire! Non poteva essere così diverso dai suoi simili, non poteva essere gentile!

Michael sentiva la testa scoppiare. Troppe cose non coincidevano, troppi pensieri si affollavano e troppe sensazioni contrastanti. C'era qualcosa di sbagliato, ma non capiva. I pensieri passavano da una persona all'altra, cercavano le somiglianze, ma trovavano solo differenze, nulla in comune. Come era possibile? Erano entrambi umani! Come potevano essere diversi?!

Michael sentì una voce, anzi, più voci. Sussurravano, voci taglienti che gli ricordavano quello che gli aveva fatto quell'umano tanti anni prima, che gli dicevano che era stato stupido a fidarsi, che non era stato abbastanza forte da sfuggirgli. Michael aprì gli occhi. Lo specchio di fronte a lui lo derideva. Gli mostrava il riflesso delle cicatrici solo per parlargli del suo errore e della sua stupidità. E rideva, oh, se rideva!

Michael prese la sedia dalla sua stanza e la schiantò contro lo specchio.

Non voleva più sentire quelle voci.

 

Dopo un mese, Michael trovò un foglio sotto la porta bianca.

Non conosceva la scrittura, ma solo una persona poteva avergliela scritta. Quel ragazzo -sì, perchè ora non era più relegato a umano nella testa di Michael- era l'unico al di fuori dei tutori a sapere della sua presenza in quella stanza.

Era una lettera. Michael resistette dall'impulso di stracciarla e buttare il foglio di carta, voleva leggerla almeno una volta, poi l'avrebbe gettata di sicuro.

Il ragazzo si scusava. Diceva che gli dispiaceva averlo spaventato, che non era sua intenzione. Diceva che era solo curioso di sapere chi ci fosse nella stanza e che era rimasto sorpreso nel vedere un gale. Lui ne aveva conosciuti pochi, continuava, e che, se non voleva più vederlo, non c'era problema. Diceva, però, che gli sarebbe piaciuto se almeno avessero potuto sentirsi tramite i messaggi lasciati sotto la porta bianca, in futuro. Il ragazzo diceva che avrebbe controllato se Michael avesse lasciato qualche messaggio a mezzanotte in punto per una settimana, poi, se in quei giorni non avesse ricevuto risposta, l'avrebbe lasciato stare.

Michael appallottolò il foglio e lo lanciò nel cestino. O almeno era quello che voleva fare. Non riusciva. La pallina di carta non ne voleva sapere di lasciare la sua mano. Anzi, era la mano che non ne voleva sapere di aprirsi.

Si disse che era solo l'effetto della sorpresa di trovarsi una lettera sotto la porta, nulla di più. Era solo l'effetto di essere considerato interessante da qualcuno.

Il rosso rimase immobile per qualche minuto. Poi aprì la mano, lisciò la carta e aggiustò le pieghe per poter rileggere ancora la lettera.

 

La prima notte, Michael aspettò la mezzanotte con l'orecchio appoggiato alla porta. Appena scoccata l'ora, sentì dei passi leggeri, poi un sospiro e infine dei passi che si allontanavano.

Il gale non aveva lasciato risposta e David, anche se un po' se lo aspettava, ci rimase male. Il giorno dopo essere stato nella stanza dalla porta bianca, si era ripromesso di non dare più fastidio al ragazzo, perchè non era sembrato affatto entusiasta di vederlo.

Per una settimana aveva resistito all'impulso di tornare al terzo piano. Dopo due settimane i suoi piedi lo portavano inconsciamente davanti alla porta bianca ogni qualvolta era sovrappensiero.

Quel ragazzo dai capelli rossi non voleva saperne di restarsene in un angolo della sua mente, continuava a imporsi sugli altri pensieri e a indurlo a chiedersi che tipo di persona fosse, tra tutti quei libri nella sua stanza quale fosse il suo preferito, il motivo di quelle cicatrici...

David trovava davvero interessante Michael, nonostante l'avesse visto per solo qualche minuto. Voleva conoscerlo, saperne di più, provare a essere suo amico.

Gli serviva solo una possibilità per dimostrargli che non voleva fargli del male. Però, tornare in quella stanza, forse, non era la mossa giusta.

Aveva scritto quella lettera di getto, rileggendola una sola volta per cercare e correggere gli errori. Arrivata la notte, aveva fatto scivolare il foglio, ripiegato più volte e stroppicciato, sotto la porta.

E Michael non aveva risposto. Magari aveva anche strappato la sua lettera in tanti piccoli pezzi prima di buttarla nel cestino.

Eppure, si ripeteva, era solo il primo giorno. Poteva ancora sperare.

Due giorni. Niente.

Tre giorni. Niente.

Quattro giorni. Ancora nulla.

Cinque giorni. Nemmeno uno straccio di biglietto.

Sei giorni. David iniziava a perdere le speranze.

Mancava un giorno solo. Un'ultima possibilità prima di dover lasciar perdere quel ragazzo.

 

Un solo giorno, si ripeteva Michael.

Ancora un giorno, poi non avrebbe più avuto notizie del ragazzo.

Aveva passato una settimana d'inferno. Ogni notte sentiva i passi ansiosi di David -già, ora lo chiamava per nome- arrivare fino alla porta della stanza. Poi sentiva un sospiro e, infine, i passi si allontanavano strascicando tristemente.

Ogni volta Michael si sentiva non solo in colpa, ma anche stupido. Voleva così tanto rispondergli! Eppure la solita vocina nella sua testa gli diceva che se avesse ceduto, se avesse dato spazio a quell'umano nella sua esistenza, avrebbe solo sofferto come già era successo.

Allora aspettava che ci fosse di nuovo silenzio, poi si rannicchiava al buio, con le spalle alla porta, e chiudeva gli occhi per combattere quella vocina.

Al buio, di solito, aveva l'impressione che le ombre lo vedessero. Lo giudicavano con lo sguardo. Aveva giurato a sé stesso di odiare gli umani per il resto della vita, eppure ora voleva dare a uno di loro un posto nella propria vita! Era forse impazzito?!

Le ombre continuarono a osservarlo e a giudicarlo in quei sei giorni. E Michael si rannicchiava ancor di più su di sé, occhi chiusi e la testa nascosta tra le ginocchia.

I giorni si erano trascinati fino al settimo, l'ultimo.

Il rosso gurdò l'orologio: mancava meno di un'ora, poi sarebbe tutto finito.

Niente più dilemmi interiori, niente dubbi; sarebbe tornato tutto alla normalità, così come era poco più di un mese prima.

Il ragazzo recuperò la lettera di David dal cassetto. L'aveva tenuta, alla fine non aveva avuto la forza di buttarla. Gli piaceva quella calligrafia storta e dalle lettere sottili. In alcuni punti sembrava anche più incerta che in altri, come se fosse stato emozionato nello scrivere.

Le ombre lo guardarono ancor più pressanti ed insistenti. Lo mettevano a disagio, volevano convincerlo a lasciar perdere l'umano.

E Michael voleva dar loro ragione, davvero, ma non ci riusciva.

Mancavano pochi minuti alla mezzanotte.

Ignorò le ombre ancora una volta, poi prese un foglio e scrisse poche parole per il ragazzo. Lasciò il biglietto sotto la porta e si mise in attesa dei suoi passi.

Passi che non tardarono ad arrivare, anche se meno afrettati dei giorni prima. David si aspettava un'altra delusione, ma, quando vide da lontano il foglietto che spuntava da sotto la porta bianca, iniziò a correre. Raccolse il foglietto e lo aprì.

“Non ce l'ho con te. A domani.”

David sorrise. Michael gli aveva concesso una seconda possibilità e la cosa lo rendeva tremendamente felice.

Prima di tornarsene nella sua stanza, il ragazzo poggiò la fronte sulla porta e sussurrò un “grazie”.

Michael sorrise. L'aveva sentito.

Prima di andare a dormire, il gale accese un piccola luce, così che le ombre non lo disturbassero nel sonno.

Prima di andare a dormire, il giovane umano lesse quelle poche righe finchè non gli si chiusero gli occhi dal sonno.

 

****

 

Da quella prima lettera passarono due anni. Due anni di continui scambi di messaggi, si scrivevano quasi ogni giorno. Ogni piccolo avvenimento quotidiano era una scusa per scriversi, parlarsi di notte attraverso la porta bianca, sentendosi vicini nonostante la barriera che li divideva.

Due anni di chiacchiere sui libri che leggeva Michael e la musica che ascoltava David, sul passato, su ciò che avevano subìto e che li aveva portati lì dove erano ora.

 

Poi erano arrivate quelle poche parole scritte su un biglietto e lasciate di fretta sotto la porta.

David le aveva scribacchiate già da qualche giorno, ma non aveva avuto il coraggio di lasciargli quel semplice messaggio. Poi, istintivamente, aveva spinto il foglio sotto la porta.

Non ci aveva pensato troppo, altrimenti gli sarebbero venuti troppi dubbi e ci avrebbe rinunciato di nuovo. Eppoi, perchè non farlo? Erano passati ben due anni e voleva rivedere quel ragazzino dai capelli rossi. Dopo due anni, chissà quanto era cresciuto. Magari ora lo superava in altezza. Chissà, poi, se anche la sua biblioteca personale era cresciuta.

Sì, voleva proprio rivedere quel gale. Così tanto che aveva deciso di arrischiarsi a chiederglielo.

 

Michael sentì la carta scivolare sul pavimento. Ormai aveva imparato ad adorare quel rumore e poteva riconoscerlo bene.

Corse alla porta e raccolse il biglietto. Era troppo piccolo per essere una lettera, probabilmente era uno dei soliti giochi di parole di David, oppure il verso di qualche canzone, o anche una battuta che gli era venuta in mente.

Michael aprì il foglietto.

“Posso rivederti?”

Il rosso rimase immobile.

Quello non era un indovinello stupido o una barzelletta, né il testo di una canzone.

David voleva che si vedessero. E stavolta quanto avrebbe aspettato per la risposta? Un paio d'ore? Un giorno? Un mese?

No, avrebbe aspettato la mezzanotte, come sempre. Mancavano dieci ore.

 

Mancavano sette ore.

Michael stava seduto in un angolo a rileggere tutte le lettere che si erano scritti negli ultimi ventiquattro mesi. Le prime erano lettere piuttosto impacciate. Nessuno dei due aveva mai scritto una vera lettera, eppure in poco tempo erano diventati più disinvolti. Dopo pochi mesi avevano imparato a conoscersi e capirsi. Passato un anno avevano iniziato a sentirsi molto più vicini e lì avevano iniziato a lasciarsi i biglietti più piccoli durante il giorno, invece che solo la notte.

Michael aveva capito che dare una possibilità a quell'umano forse era stata una delle migliori scelte che avesse fatto nella sua vita. Aveva trovato un amico, un confidente, qualcuno che lo capisse. Ed era felice.

Eppure una piccola parte di lui continuava a chiedersi se stesse facendo la cosa giusta. Dare così tanta confidenza a un umano: poco più di due anni prima non avrebbe mai pensato di fare una cosa simile.

 

Mancavano tre ore.

Il gale camminava avanti e indietro per la stanza.

Ancora non aveva preso una decisione. Si fidava di Michael, ma già una volta aveva riposto la sua fiducia nella persona -nell'umano- sbagliata.

Aveva paura.

A volte passava davanti allo specchio mentre consumava il pavimento. Era da molto tempo che non si guardava allo specchio per davvero. Non si soffermava più sulle cicatrici, né pensava al come al chi e al perchè le avesse. Erano lì. Non c'era altro da sapere. Ma ora le rivedeva per ciò che erano: l'errore nel fidarsi della persona sbagliata.

E se anche David fosse stato uguale?

Michael voleva gridare. Aveva sul viso le prove che indicavano quanto fossero mostruosi gli umani. E aveva anche sotto mano altre prove che indicavano che almeno un umano tra tutti non era così terribile.

Si sentì soffocare, come se la pelle stessa stringesse sul suo corpo per togliergli il respiro dai polmoni. Le gambe iniziarono a cedergli e il cuore sembrava voler esplodere da un momento all'altro. “È solo un attacco di panico”, si disse.

Il rosso si lasciò cadere a terra e cercò di tornare a respirare normalmente. Doveva pensare a qualcosa di positivo, gli serviva un “rifugio mentale”. E l'unica cosa a cui riusciva a pensare era David, l'unica cosa positiva che riusciva a immaginare. La sua amicizia, magari non iniziata nel migliore dei modi, era andata avanti alla grande. E non voleva che finisse tutto quanto.

Michael chiuse gli occhi per cercare di calmarsi. Doveva convincersi che sarebbe andato tutto bene. David non gli avrebbe mai fatto del male.

Mentre continuava a pensare e ripensare, il panico lentamente scemava.

Il ragazzo si ricompose. Aveva preso una decisione.

 

David, arrivata la mezzanotte, salì di fretta le scale fermandosi davanti alla solita porta bianca.

Era davvero ansioso! Non sapeva che risposta aspettarsi. Anche se sperava vivamente in un “sì”.

Sotto la porta c'era un biglietto. Lo raccolse, fece un profondo respiro e lo aprì.

“Apri la porta”

David rimase a bocca aperta. Si aspettava un “no” di proporzioni enormi e pieno di punti esclamativi. Di certo non un messaggio simile...

Ma che importava! Era un “sì” più che esplicito!

Il ragazzo con calma provò ad aprire la porta, pensando che doveva essere chiusa a chiave. La maniglia cedette con calma e la porta si aprì. Per poco David non si mise a saltellare di gioia.

In fretta sgusciò nella stanza e richiuse la porta.

Come la prima volta che era entrato, la stanza era al buio tranne che per la solita lampada da tavolo poggiata sul pavimento. I libri erano abbandonati al caos più totale e probabilmente erano anche aumentati.

Poi c'era Michael. Ed era inaspettatamente vicino. Distava solo pochi passi, ma dava l'impressione di essere capace di una rapida ritirata sotto il letto come la prima volta.

Era proprio come David si ricordava, anche se erano passati due anni ed entrambi erano cresciuti. I ricci rossi erano sempre ribelli e il solito riccetto gli toccava il naso. Le orecchie erano dritte sull'attenti e la coda ingobbita a punto interrogativo. Era anche alto, quasi quanto David.

Anche Michael intanto stava analizzando il ragazzo che gli stava di fronte. La prima volta non l'aveva osservato bene, mentre ora era di fronte a lui, a solo pochi passi. David era un ragazzo alto, superava Michael di pochi centimetri. I capelli, corti e neri, gli coprivano in parte gli occhi di un azzurro così chiaro da ricordagli il cielo. Ed era anche... sì, carino.

«Sei... alto quanto me, ora.» disse David per cercare di rompere il silenzio che si era creato. Ma ovviamente si dava dello stupido per aver detto una cosa così idiota.

Michael se ne accorse e sorrise. «E tu sei meno spaventoso di quanto ricordassi!» rise il rosso.

Anche David rise. «Perchè, cosa ricordavi? Un energumeno alto e cattivo?»

Per Michael era davvero da molto, forse troppo tempo che non scherzava con qualcuno. Gli era mancato poter ridere con qualcuno che potesse chiamare amico. Gli era mancato potersi fidare di qualcuno tanto da mantenere una distanza così esigua da sé.

Distanza che lentamente svaniva. David aveva allungato una mano e si dirigeva pericolosamente verso il viso di Michael.

Il rosso fece un passo indietro scoprendo i denti come minaccia. Subito l'umano si fermò.

«Scusa... Volevo solo...» David sbuffò e lasciò ricadere il braccio. «Niente. Lascia perdere.»

Ed era tornato il silenzio, stavolta più pesante.

Michael si sentiva in dovere di scusarsi. In fondo, David non stava facendo nulla di male, non l'aveva minacciato in alcun modo. «No, ecco... è colpa mia. È solo che sono anni che nessuno mi tocca.» disse il rosso fissando il pavimento.

«Ti fidi di me?» chiese David.

Fiducia? Michael pensò se poteva riporne davvero in quell'umano. Pensò per una sola frazione di secondo prima di dire “sì!”.

David sorrise. Stavolta alzò la mano con più lentezza, in modo che Michael potesse seguirne il movimento con gli occhi senza perderla di vista. A ogni incertezza da parte del gale, l'umano si fermava finchè non vedeva il dubbio sparire da quei felini occhi gialli. Quando finalmente riuscì a sfiorargli la guancia, lasciò andare il fiato che aveva trattenuto.

Sentire nuovamente una carezza su di sé fu per Michael una strana sensazione, indescrivibile. Sapeva solo che non voleva che David smettesse e si allontanasse. Chiuse gli occhi e si lasciò coccolare mentre faceva le fusa.

David sorrise ancora. La pelle del gale era appena tiepida sotto il suo tocco. Forse si stava riscaldando solo per il fatto che finalmente aveva un contatto con un altro essere vivente. Lentamente David osava di più, passando dal tocco leggero di un paio di dita a carezza vere e proprie prima di passare a strapazzargli le orecchie. Intanto Michael dimostrava di apprezzare quelle attenzioni con sonore fusa e un sorriso di beatitudine in faccia.

Senza preavviso, David si avvicinò ancora per poter abbracciare il rosso. Michael rimase rigido per la sorpresa all'inizio, anche se non cercò di liberarsi. Per lui era strano abbracciare qualcuno, ma la sensazione di sentirsi protetto e amato gli diede la spinta che serviva per fargli ricambiare la stretta.

 

****

 

Ci vollero altri mesi per convincere Michael a provare a varcare la porta bianca per uscire. David continuava a ripetergli che non poteva restarsene chiuso in quella stanza per sempre, prima o poi avrebbe dovuto tornare “al mondo esterno”.

All'inizio il rosso si limitava a fare qualche passo in corridoio, poi, quando si faceva prendere dal panico non appena sentiva un qualunque rumore, correva a chiudersi nella sua stanza.

C'erano voluti tempo e pazienza prima di riuscire a portare Michael al piano terra, vicino a una delle stanze comuni degli altri ospiti dell'Istituto. Quando finalmente entrarono nella stanza, il gale si era avvinghiato al braccio di David e, ogni volta che qualcuno si avvicinava a loro, il rosso soffiava e mostrava i denti.

David lo sapeva, la strada per far tornare a Michael la fiducia negli umani era ancora lunga.

 

Erano passati quasi quattro anni dal giorno in cui David e Michael si erano conosciuti. Ora erano abbastanza grandi e adulti da poter vivere al di fuori dell'Istituto.

Il giorno prima di andarsene, si trovarono per l'ultima volta insieme nella stanza dalla porta bianca. Stavano seduti con la schiena al muro a parlare del più e del meno, facendo finta che il giorno dopo non sarebbe successo nulla di nuovo. Facendo finta che il giorno dopo non avrebbero dovuto separarsi.

Michael faticava a tenersi tutto dentro. Per lui, David era la prima persona a cui avesse dato fiducia dopo tanti anni e non voleva che se ne andasse. Era il suo migliore amico, un fratello. La persona più importante della sua vita.

«David? Tu ci tieni a me?» chiese il gale fermando il lungo discorso dell'altro.

Il ragazzo rimase un attimo perplesso. «Certo! Ti ho mai fatto pensare il contrario?»

«No... però-» borbottò Michael.

«È per domani, vero?» lo bloccò David.

Scese il silenzio. Ci aveva beccato.

«Tra tre mesi potrai uscire anche tu. Ci rivedremo, tranquillo. Se vuoi posso venire io a prenderti all'entrata.» cercò di tranquillizzarlo.

Michael annuì, però continuava a tenere le orecchie basse e appiattite sulla testa, triste. «Come farò senza di te? Tre mesi sono tanti...»

Come d'abitudine David andò ad accarezzare i ricci ribelli del rosso. Sapeva che il gale avrebbe avuto quella reazione. In quegli ultimi tempi i due erano sempre assieme, indivisibili, e anche per David era davvero difficile quella separazione. Anche se era sicuro che sarebbe durata poco, tempo tre mesi e sarebbero stati di nuovo inseme.

«Ti senti meglio se ti prometto che quando sarai fuori anche tu, condividerò l'anima con te?»

Michael rimase pietrificato. Davvero aveva sentito bene?

Subito alzò gli occhi su David e il suo sorriso. «D-davvero?»

David rise. «Certo!»

Michael era felice ora. Non si sarebbero più divisi. Avrebbe vissuto accanto a lui.

 

Il giorno dopo erano entrambi di fronte al cancello.

David aveva le sue poche cose in uno zainetto. Qualche ricambio, oggetti personali e un paio dei libri di Michael.

«Quindi... ci dividiamo qui.» disse sconsolato Michael.

«Sono solo tre mesi. Tranquillo, verrò io a prenderti.» cercò di rassicurarlo David.

Il rosso annuì, rimanendo a fissarsi i piedi.

L'altro sbuffò.

«Ti ho fatto una promessa, ricordi? Io mantengo le promesse!»

Michael sollevò lo sguardo. Poi sorrise. Finalmente.

«Ci vediamo presto, okay?»

Il rosso annuì. David si girò. Era il momento di andare.

Non aveva fatto nemmeno due passi che Michael già si sentiva morire dentro. Si sarebbero rivisti, certo, ma ci sarebbero voluti tre interminabili mesi. Centoventi giorni. Duemilaottocentottanta ore. E già gli mancava.

«Ho dimenticato una cosa!» esclamò David voltandosi di nuovo verso di lui.

In due passi colmò la distanza e baciò Michael. Un lieve contatto, morbido e caldo, di soli pochi secondi. David capì di averlo spiazzato quando vide la coda immobilizzarsi e le orecchie drizzarsi per un secondo. Mentre l'umano si allontanava nuovamente, il gale si aggrappò alla sua maglietta. «Fallo ancora.» disse mentre lo implorava con lo sguardo.

David sorrise. Poi lo accontentò.

Stavolta era più di un leggero contatto. Le labbra si ricercavano avide per compensare i mesi in cui entrambi avevano negato a sé stessi di avvicinarsi ulteriormente all'altro. Era un gesto disperato in quel momento.

Michael non si era mai azzardato a baciare qualcuno, quindi all'inizio si limitò a imitare i movimenti dell'altro, per poi lasciarsi andare all'istinto buttando le braccia al collo del compagno.

Per David era tutta un'esperienza nuova baciare un ragazzo, ma non trovava differenze. Tranne, forse, che le labbra del rosso gli sembravano le più calde, morbide e invitanti che avesse mai sentito. Erano anche particolari con quella cicatrice che le attraversava. Migliori.

Sapevano che non avrebbero potuto rifarlo per molto tempo, per questo, quando dovettero riprendere fiato, non si allontanarono. Rimasero con le fronti a contatto, gli occhi chiusi.

«Torno presto.» sussurrò David.

«Lo so.» gli rispose Michael. «Mi fido di te.»

Quando aprirono gli occhi, entrambi sorrisero.

Erano solo tre mesi. Tre mesi in confronto al tempo che potevano stare assieme. Tre mesi passano in fretta.

 

 

 

 

 

Ciao.

Sì, è una vita che non mi faccio sentire e che non aggiorno.

Ho da dare ancora degli esami e, se non fosse per una certa docente di informatica, ora non sarei di cattivo umore e starei studiando per l'esame di sociologia...

Comunque sia, per dimostrarvi che sono viva, pubblico almeno questa.

 

A presto! (spero)

  
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