Le confidenze del silenzio.
Mio
padre era un uomo
molto particolare. Non era un terrestre, non propriamente e nel vero
senso del termine. Lui era un
saiyan, una
razza dello stesso ceppo di mammiferi a cui appartenevano gli uomini della Terra. I geni dei saiyan e
dei
terrestri potevano essere assemblati nell’accoppiamento,
perché ciò che
distingueva i primi dai secondi era solo la forza ed il temperamento, un gene che rendeva diverse le potenze muscolari, il metabolismo, favorendo la mutazione in scimmia. Tuttavia il
numero di cromosomi era identico.
Mia
madre, scienziata
molto importante nel settore tecnologico e leader di
un’azienda tra le più
conosciute della Terra, si era innamorata di lui al tempo in cui mio
padre era
reduce da una lunga guerra, mercenario dal comportamento
abbietto e uomo temuto in lungo e in largo per le basi aliene dove aveva vissuto la sua adolescenza. Un condannato agli occhi di
tutti,
lui, che da quelli di mia madre invece era stato redento nell'illogica follia
d'amore, o per qualche motivazione che il senso non lo trovava,
perchè in certe circostanze solo la chimica può
spiegare con le sue leggi - ed era stata proprio mia madre, la donna romantica e sicura di se stessa ad avermelo detto. La loro storia per gli altri era strana e loro due troppo diversi, ma erano stati gli impulsi a legarli. Impulsi molto forti. -. Mio padre era andato via mentre io stavo nascendo, ci aveva lasciato, ma poi era tornato e mia madre non gli aveva rinfacciato niente, non ne aveva avuto il bisogno. Lei mi aveva raccontato anni dopo che mio padre aveva solo provato a scappare, che aveva tentato di tornare quello che era stato un tempo e aveva fallito, perchè io ero troppo importante e lui troppo orgoglioso per dirlo. Lei lo aveva amato troppo per voltargli le spalle, lo aveva conosciuto troppo profondamente per dimenticarlo, per questo lo aveva voluto ancora, senza paura, persino con rabbia, ma di un
amore che era parso
ad ogni
amico assurdo, inconcepibile, disdicevole. Come si
poteva
amare un
guerriero brutale, un mercenario scaltro che aveva seminato attorno a
sé solo
morte? Che ci aveva lasciati, che si era votato solo alla guerra... Lui, principe fiero ed orgoglioso di un’antica stirpe
di guerrieri temuta
e rispettata in ogni meandro dell’universo, seminatore di
guerre e di paura, accolto e amato da una donna che fino a pochi mesi
prima avrebbe ammazzato senza rimorso. Lui,
mio padre, quello a cui nessuno osava mancare di rispetto.
Mia
madre – intessendo i ricordi del passato con parole frementi di una tacita emozione ancora persistente nel tempo, aveva raccontato con sfolgorio negli occhi di loro , di noi- lo aveva ospitato a casa
offrendogli
una dimora temporanea, sedotta dalla sua bellezza grezza, dal suo
silenzio opprimente e dallo sguardo tormentato. Sembrava un uomo
provato - mi aveva detto - , ed invero lo era.
Ma
quello stato di temporaneità era mutato, come del resto
nella vita muto tutto,
in uno stato perenne: nonostante le sue stranezze, le dipartite da casa
improvvise,
le assenze per allenarsi o solo per corroborarsi nella misantropia del
suo
strano modo di essere, mio padre tornava sempre indietro, a casa. Non
che
facesse ricomparsa con delle rose né tantomeno con un
sorriso stampato sulla
faccia. Rincasava con tranquillità, con finta indifferenza,
con fierezza e
superiorità senza salutare nessuno. E mia madre lo aspettava
come io lo aspettavo
pieno di speranza. E
ora sono certo tornasse sempre e innanzi tutto per lei.
Percorreva
di nuovo i corridoi con passo lento, cadenzato, quasi militaresco, guardandosi attorno con calma come volesse cogliere se
tutto fosse al proprio posto così come quando era partito, perchè in fondo non era poi estraneo totalmente alla vita della nostra insolita famiglia, e la
prima cosa che faceva era cercare mia madre, sempre in
silenzio, sempre composto. E
quando la trovava per un attimo la
guardava
negli occhi poggiato allo stipite della porta con una
serietà strana e
profonda, senza mai un sorriso, e le iridi scure si attaccavano su di
lei con
un'intensità così divorante che io piccolo,
dall'esterno, non avrei voluto
essere al suo posto.
Era il suo modo di salutarla, di dirle sono tornato...
Le
prime volte, al tempo in cui avevo iniziato a fare le
domande
tipiche dei bambini di quattro anni e poi a comprendere il peso della
sua
assenza,
ero
convinto
che ci avrebbe abbandonati, ma poi in me una
strana e imperitura sicurezza mi aveva rasserenato convincendomi che
lui
sarebbe tornato prima o dopo, che fosse decorsa una
settimana, un mese
o due
giorni io lo avrei visto percorrere il ciottolato di casa o riaprire una
finestra all'inverso.
Mia madre aveva rafforzato le mie certezze e lenito i miei dubbi
infantili col tempo e la pazienza, perché
lei conosceva qualcosa di lui oscuro ad ogni altro, persino a me che
ero suo
figlio. All’epoca non sapevo cosa condividessero e quanta
intimità tra loro ci
fosse, non potevo dare contorni neppure sfuggevoli a mio padre nel
letto di
mia madre, il suo corpo nudo intrecciato al suo così esile,
magari a sussurrarle con quel suo tono serio e profondo parole segrete, troppo loro per poter
essere ipotizzate dalla mia mente estranea al loro rapporto intenso e burrascoso, di sicuro
bollente come i loro temperamenti,
e avrei potuto giurare - infantile com'ero del resto - che si volessero
bene così, limitandosi a discutere e a parlare come due
conoscenti, e magari a
dormire nella stessa stanza senza fare altro. Non avevo mai visto mio padre, quel guerriero indomito e duro, elargire un
gesto di affetto. Non gli aveva mai sentito dire
cose carine verso di noi nè tantomeno rivolgersi a lei che era sua moglie con l'atteggiamento di un amante, ma coglievo il suo rispetto nei suoi
confronti, la stima che provava verso quella donna che gli teneva testa,
e per contro leggevo
negli occhi di mia
madre una
determinazione a stargli accanto che mi levava le parole di bocca: non
aveva
avuto mai paura che lui se ne andasse? Era sempre così serio
e silenzioso, così
autoritario e impenetrabile. Sembrava essere in grado di insinuare
timore
persino nei muri che gli erano attorno. Io lo avevo temuto, i nostri amici lo avevano temuto e persino gli estranei che lo incrociavano si sentivano a disagio quando lui era nei paraggi, ma non mia madre. Lei non aveva mai avuto paura del suo sguardo. Invero gli aveva sempre parlato come se di lui conoscesse ben altro, rivolgendogli la parola con confidenza, con schiettezza che io non osavo neppure immaginare di usare, e ovviamente era così: ero io, eravamo noi, noi altri, a non conoscere l'altra faccia del suo volto, il viso che lui celava dietro l'austera maschera e che mia madre invece scorgeva quando quella maschera gliela sfilava, e non so in che modo ma di sicuro con suadenza, con quell'abilità che proviene da un potere tutto femminile, perchè sapeva come irretirlo, come fregarlo, e a me sembrava assurdo - ed in parte ancora adesso mi appare quasi bizzarro - che lui le cedesse, che sapesse dimostrarle con le mani e con la bocca quanto la amasse. Era stato un sanguinario, mio padre, era nato per essere una macchina da guerra che proprio non sembrava a proprio agio nell'elargire un abbraccio. Aveva un nome, un nome importante che faceva anche tremare e che invece mia madre pronunciava con gentilezza. Lei gli sorrideva, lo faceva spesso anche dopo averci litigato come fosse un uomo qualunque, come non fosse la belva che in fondo mio padre era, e lui non ricambiava il suo sorriso ma gli leggevo negli occhi quello che oggi so essere un sentimento forte, importante più di una sola voglia d'amante. Il sorriso di mia madre gli piaceva, lo rabboniva come un sedativo, gli entrava dentro e dentro esplodeva: lui ne era geloso, non lo diceva nè in apparenza lo apprezzava, forse lo disprezzava più concretamente, ma nonostante tutto lo custodiva e io ho imparato a capirlo, perchè mio padre sapeva esprimersi molto bene con la forza dello sguardo e il suo silenzio talvolta urlava parole che solo noi intimi riuscivamo ad udire chiaramente. Sono questi i segreti di famiglia del resto, il potere dei legami di sangue che ci inchiodano l'uno all'altro anche quando il collante è rabbia, non solo amore, paura, rispetto. E io li avevo provati tutti. Avevo vissuto tutti quei sentimenti mentre cercavo di conoscere mio padre, di farmi spazio nella sua oscurità cercando di sondarla, di non perdermi insieme ai dubbi del bambino e dell'adolescente che ero stato.
Poi un giorno di inverno mentre la pioggia rendeva fangoso il giardino, la nebbia si addensava sulla strada ed io giocherellavo con la penna senza riuscire a concentrarmi,
osservando l'incedere del grande guerriero che mio padre era, avevo compreso in silenzio tutto quello che a voce non poteva essere detto,
spiegato, raccontato. Guardavo mia sorella tornare di corsa con quel modo impacciato di camminare da infante, e mio padre starle dietro tranquillo, senza cercare riparo nell'ombrello, tenerla d'occhio mentre rincasava ridendo al vocio di mia madre che le ordinava di sbrigarsi: era ancora un bell'uomo, non era invecchiato, e nonostante tutto non aveva mai cercato un'altra donna. Era stato un compagno molto fedele, mia madre diceva che lo avrebbe potuto lasciare circondato da belle donne senza temere un suo tradimento. E sembrava strano ma era vero. Per mio padre le altre donne non esistevano, non le degnava neppure di uno sguardo che non fosse puramente valutativo. E allora avevo iniziato a capire, avevo percepito le strane confidenze del silenzio, sembrava fosse stata proprio quella pioggia a sussurrarle. Avevo compreso il loro segreto e lo avevo iniziato a custodire come quanto di più prezioso esistesse: mio
padre non lo diceva, ma
mi amava,
come del resto amava in una maniera smisurata ed orgogliosa mia madre. Il suo sacrificio contro MajinBu mi era rimasto dentro, mi aveva lacerato e rafforzato allo stesso tempo, rendendomi fiero di essere suo figlio nonostante mio padre vantasse un curriculum abbietto e deprecabile che al tempo ignoravo: allora ero troppo piccolo per sapere cosa lui avesse fatto, ma quando ne ero diventato cosciente non avevo smesso di adorarlo. Mi era bastato sentirgli raccomandare a me, piccolo uomo che doveva crescere, solo una volta nella vita le cure materne ed era stato come se mi avesse rivelato tutto ciò che non aveva mai detto. Mio padre era scorbutico, vantava un pessimo carattere, i rapporti sociali e familiari per lui erano come acqua e olio a contatto, eppure possedeva il dono di ottenere un grande risultato con un solo piccolo gesto. Il suo amore per me e per mia madre era ineguagliabile, e anche nell'ultimo momento della sua vita, pieno di fierezza e di voglia di andare in battaglia, senza paura di morire, aveva conservato nel cuore il sorriso di mia madre, quello che si custodiva dentro, che non ricambiava mai... Quello che io sapevo conservava in sè con riserbo, gelosamente.
La sua
bocca taceva, non esternava mai il suo affetto nei nostri confronti
come se lo
temesse, ma i suoi occhi ardevano di una verità bruciante
quando compariva di nuovo da
una delle sue improvvise assenze e ci rivolgeva lo guardo: eravamo la
sua
condanna, glielo leggevo negli occhi, ma eravamo anche la casa in cui ritornare di punto in bianco senza dare spiegazioni
a nessuno, atteso da tutti con
il
sorriso sulle labbra, e nonostante l’autorità
severa con cui mi educava e l'insofferenza
con cui trattava mia madre in apparenza, ci era legato
distruttivamente.
A
mia madre legato con
il cuore, con la parte più pulsante e infuocata della carne, e a me e a mia sorella legato con il sangue. In
ambo i casi, tuttavia,
rimaneva legato in
maniera irreversibile a quella che era la sua famiglia.
Lo avevamo cambiato. Non poteva più tornare indietro pur desiderando essere ancora libero come lo era stato un tempo. So bene che per lui eravamo come catene, e che i saiyan sono troppo impavidi e selvaggi per tollerarle.
Continua…