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Autore: Fannie Fiffi    03/07/2014    3 recensioni
[Bellarke; Modern!AU]
Clarke Griffin è una diciannovenne alla ricerca di se stessa, ma soprattutto alla ricerca di una verità ancora più grande di lei: quella riguardo la morte del padre.
Costretta a dover abbandonare le proprie ricerche per due anni, il suo mondo verrà nuovamente sconvolto quando conoscerà il suo nuovo vicino di casa, il giovane detective Bellamy Blake.
Genere: Romantico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bellamy Blake, Clarke Griffin, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Un grazie di cuore a tutti coloro che hanno inserito fra le seguite, le ricordate e le preferite. Grazie a live in love
per aver recensito.
Un grazie speciale ad Eleonora.
Buona lettura!




 










« Il pianeta Terra chiama la navicella intergalattica Clarke Griffin. Ripeto, il pianeta... »

Quello decisamente non era il rumore della porta della sua stanza che si apriva, e quella non era la voce del suo migliore amico che cominciava a straparlare e a dire cose totalmente insensate a un orario improponibile del giorno, qualunque esso fosse.

No, quello era semplicemente un incubo e presto si sarebbe svegliata, si sarebbe guardata intorno e avrebbe appurato con estrema armonia di essere sola e di non dover sforzarsi di parlare ed essere carina con nessuno.

Peccato che l’incubo in questione non volesse accennare a stare fermo, perciò dopo averlo sentito muoversi nella camera ed evidentemente sollevare le tapparelle delle sue finestre, Clarke fu costretta a mostrare segni di vita.

« Jasper? Che diavolo vuoi? » La sua voce gracchiò e per un attimo ebbe difficoltà a riconoscerla come propria, ma non aprì gli occhi né emerse dalla muraglia di difesa che erano le sue coperte.

Prima o poi l'avrebbe preso a pugni, se avesse continuato a piombare a casa sua e svegliarla come se ne avesse anche il minimo dannato diritto.

« È sempre molto stimolante intrattenere non molte mattutine conversazioni con te, ma è ora di alzarsi dal letto, Bella Addormentata. »

Era sveglia da appena cinque minuti e già sentiva il suo livello di sopportazione calare vorticosamente a picco, perciò ringraziò mentalmente la sua poca voglia di abbandonare il proprio giaciglio per impedirle di cacciare Jasper dalla sua stanza e urlargli di non tornare mai più. Non che non lo avesse già fatto più di una volta, s’intende. Non che lui le avesse mai dato ascolto.

Rassegnata al fatto di non poter più rimettersi a dormire, Clarke si scostò le lenzuola di dosso con un gesto stizzito e incenerì con lo sguardo il suo molesto e altrettanto adorato migliore amico, il quale sedeva tranquillamente sulla poltrona che ormai era divenuta sua e aveva l'aria più rilassata del mondo.

Osservandolo con espressione contratta e confusa – quella che in realtà era la sua espressione da “potrei diventare violenta da un momento all'altro” –, la bionda tornò a sprofondare la testa fra i cuscini e si coprì con la coperta fino a trovarsi nuovamente nel suo caldo rifugio.

« Clarke, andiamo, sono quasi le tre del pomeriggio! » Il tono di voce del ragazzo era tanto lagnoso quanto familiare, ma per questa volta non poté dargli torto.

« Oh, Dio… » farfugliò lei da sotto la coltre di tessuto, e Jasper vide chiaramente il suo braccio liberarsi dal garbuglio di trapunte e afferrare il cellulare poggiato sul comodino al suo fianco.

« Ti servirà molto più di quello per riprenderti », parlò finalmente, riferendosi all’imprecazione dell’amica, « ieri sera ci sei andata giù pesante. »

A scanso di equivoci, non era come se Jasper fosse la persona sobria del gruppo che rimaneva sempre fastidiosamente attiva e rimproverava quelli che invece sembravano non avere lo stesso livello di buon senso, ma non poteva fare a meno di preoccuparsi per lei.

A maggior ragione perché era ben conscio del fatto che, se non ci pensasse lui, lei oltrepasserebbe il confine molte più volte di qualsiasi altro individuo normale.

Non che Clarke Griffin potesse essere definita normale in qualsiasi scala sociale da lì alla Patagonia.

« Non sei d’aiuto, Jasper. » La bionda cercava di auto convincersi di star bene, di non risentire per niente dell’avventura della sera prima – se ubriacarsi come un’idiota poteva essere definita avventura – ma ben presto appurò che, finché la sua voce fosse stata simile a quella di una mummia risorta dalle proprie ceneri dopo millenni, non sarebbe stata affatto bene.

« Ehi, hai davanti a te la bocca della verità. » Il giovane alzò le braccia in segno di resa, più per se stesso che per lei, data la sua evidente caparbietà nel non volersi alzare dal letto.

« Potrebbe davvero farmi comodo un po’ di silenzio. »

« Silenzio? Mh, certo. Tipo il gelante silenzio che hai rifilato ieri a Bill. Quel tipo di silenzio? » Il suo tono inquisitore non era poi tanto credibile.

Clarke scoppiò in una risata, o perlomeno in quella che sarebbe stata una risata se il suono non fosse stato interrotto da un non indifferente colpo di tosse.

« Idiota. » gracchiò lei giocosamente, ergendosi dalla sua tana, mettendosi a sedere e strofinandosi energicamente gli occhi sensibili alla luce solare che entrava dalla finestra.

« Com’è andata? » Domandò Jasper rigirandosi tra le mani una pallina da baseball trovata tra le cianfrusaglie dell’amica e assumendo un’espressione contrita e assorta.

« Sono riuscita ad andarmene fra il secondo e il terzo invito a cena con gli sconti di Burger King che sua madre aveva messo da parte per noi. »

La cosa non le era sembrata tanto stupida e assurda fino a quando non l’aveva detta ad alta voce.
Ed era così, perché la pallina cadde rovinosamente dalle mani del suo migliore amico, troppo occupato a tenersi la pancia per la devastante ondata di risate che l’aveva colpito.

« Stai… dicendo… sul serio? » Jasper si trovò in difficoltà quando fu costretto a schivare il cuscino che Clarke gli aveva lanciato contro, e fu in grado di riprendersi solo dopo qualche secondo.

Nel frattempo la bionda si era alzata e si era diretta verso lo specchio appeso al lato destro del suo letto..

Oh, quello non andava affatto bene: i suoi ricci biondi apparivano come un ammasso non identificato di paglia secca, il trucco della sera prima era spaventosamente colato e distribuito in modo non omogeneo su tutta la faccia – avrebbe sempre voluto mascherarsi da Joker, peccato che dolcetto o scherzetto fosse ancora un po’ troppo lontano – e i soliti cerchi scuri attorno ai suoi occhi non facevano altro che risaltare ancora di più sulla sua pelle cerea.

« Sì, rallegrati pure del mio dolore. Me la pagherai! » Afferrando lo struccante a pochi centimetri da lei, Clarke si ripulì e si diresse verso il bagno, chiudendosi la porta alle spalle.

Jasper la seguì e si appoggiò allo stipite, così come erano soliti fare al liceo quando studiavano fino  all’alba e si preparavano insieme per affrontare l’ennesima assai spassosa giornata scolastica.

« E poi chi diavolo ti ha fatto entrare? » Urlò da sotto il getto gelido della doccia.

Una terza voce rispose al posto dell’amico, una voce della cui esistenza si era quasi dimenticata.

« Io! » Non pensava che Wells fosse ancora a casa, considerando la grande operosità e laboriosità devolute al primo anno di studi di Giurisprudenza.

Wells era il suo fratellastro, nonché migliore amico di infanzia. Tutto era cambiato nel momento in cui suo padre, Thelonious Jaha, era entrato in una gioielleria di lusso e aveva comprato un dispendiosissimo e abbagliantissimo anello di fidanzamento per la madre di Clarke, Abigail Griffin.
No, Abigail Jaha.

La bionda sentì i due ragazzi battersi il cinque e salutarsi, ma non disse nulla. Non è che odiasse Wells, ricordava ancora quando giocavano a fare gli astronauti e fantasticavano su come fosse vivere su una navicella nello spazio, ma tutto era cambiato, lui era diventato suo fratello,  la sua vita era stata trasformata in qualcosa che non credeva le appartenesse più, e allora cos’altro poteva fare?

Non c’era di certo spazio per sentimentalismi o idiozie del genere.

« Ehi, Clarke », la voce del moro la chiamò dall’altro lato della porta, « mio padre ed Abby hanno appena chiamato. A quanto pare dovremo arrangiarci da soli per la cena! »

« Questa sera io e Jasper usciamo! » Fu la prima cosa che le venne in mente. Il solo pensiero di trascorrere più tempo del dovuto con un qualsiasi membro di quella famiglia le faceva accapponare la pelle e rizzare i capelli.

E, di nuovo, non odiava davvero nessuno di loro; Clarke si riteneva geneticamente inabile di provare grandi emozioni – c’era stata una, unica e sola grande emozione nella sua vita, e l’aveva distrutta, sgretolata – si sentiva solamente di troppo, come se fosse un fastidioso posto a tavola in più.

Osservava Wells, Thelonious e sua madre scherzare, ridere, condividere spazi e sentimenti, e si sentiva un’estranea, si sentiva totalmente priva della capacità di provare quegli stessi affetti.

Così, ogni volta che ne aveva la possibilità, ogni volta che aveva l'opportunità di non essere costretta a fingere, se ne andava.

Trascorreva in casa solo il tempo necessario per mangiare o dormire, aggirandosi per i corridoi come un fantasma, come un'ospite inattesa.

Clarke spense il getto della doccia e anche il flusso dei suoi pensieri si dileguò, scivolando via dal suo corpo in un attimo.

« Noi... Usciamo? »

Il tono dubbioso di Jasper la fece imprecare mentalmente, poteva quasi immaginare le sue sopracciglia unite a formare un'unica linea interrogativa e le sue mani stringersi nervosamente.
 
Poi il suo migliore amico parve comprendere e subito si riprese: « Oh, sì, sì, abbiamo una serata fuori. Certo. »

Clarke si strinse nel suo accappatoio e fece sfrigolare i propri capelli contro un asciugamano.

Quando fu abbastanza, si avviò verso la porta e l'aprì di scatto, trovandosi davanti i due ragazzi.
 
« Scusa! » Affermò rivolta verso Wells con una scrollata di spalle, dirigendosi verso la propria camera senza attendere risposta.

« Beh, non c'è problema. Va bene. In ogni caso sarei dovuto tornare in biblioteca. »
 
Tutti e tre fecero finta di non cogliere la delusione nel suo tono di voce.



« Dovresti dargli una possibilità. Insomma, non è come se foste due estranei. Vi conoscete da tutta la vita, avete trascorso la vostra infanzia insieme… »

« Jazz, per favore. » Se Clarke odiava che il suo migliore amico irrompesse in casa sua e la privasse delle uniche ore di sonno di cui riusciva a disporsi, detestava ancora di più il fatto che tentasse in ogni modo di farla riflettere.

Soprattutto quando aveva ragione.

« In fin dei conti non è stata colpa sua, no? Voglio dire, sai bene quanto ci tenga. »

« Sì, lo so, e credimi, non mi fa stare affatto meglio. » Dopo aver fatto capire a Jasper con un'eloquente occhiata di doversi voltare, in poco tempo la bionda si era rivestita, indossando la prima tuta trovata nell’armadio e una vecchia maglietta del gruppo di Decathlon del liceo. Inutile dire che era la prima della scuola.

« Allora perché non smetti di ignorarlo? »

« Io non… non lo sto ignorando. Affatto. » D’improvviso Clarke si sentì estremamente nervosa, perciò fece quello che sapeva fare meglio in quelle occasioni: cominciò a muoversi.

La sua camera non era molto voluminosa, ma era costantemente e continuamente piena di oggetti, di libri e manuali, nonché governata da un innegabile disordine.

Il letto a due piazze torreggiava al centro della stanza, affiancato ai due lati da due piccoli comodini di un nero lucido.

Il colore predominante era il rosso, tuttavia: le lunghe e vistose tende cremisi che spesso ondeggiavano per la brezza prodotta dalla finestra perennemente aperta, i muri color porpora e le lampade scarlatte di svariate dimensioni e forme che proiettavano su di essi ghirigori della stessa tonalità.

Accostata al muro ad ovest vi era un’enorme libreria piena di tutti i volumi che Clarke aveva riletto così tante volte da poter recitare quasi a memoria, mentre ad est si trovava una piccola scrivania su cui era solita lavorare e disegnare.

Tutto in quel locale parlava di lei, delle sue passioni, delle sue più grandi aspirazioni. Il suo profumo aleggiava costantemente senza che lei se ne accorgesse, e ogni angolo sprigionava una strana e inaspettata ospitalità.

C’erano solo una cosa che stonava, un interrogativo che Jasper si era sempre posto entrando in quella stanza: non c’erano foto. Né appese alle pareti, né appoggiate sugli scaffali. Non c’erano ricordi.

« Oh, ragazza mia, non fai altro che evitarlo. E ora cerchi di mascherare l’agitazione che il solo pensiero ti provoca rifacendoti il letto e tenendoti occupata, come d’altronde fai sempre quando tenti di sfuggire a qualcosa di cui non ti va di parlare. »

Clarke si voltò per un attimo solo per incenerirlo con lo sguardo, e questa non fu che l’ennesima conferma della veridicità delle sue parole.

« Va bene, va bene, non vuoi parlarne. Posso cercare di capirlo. Ma non potrai sfuggirgli per sempre, Clarke. »

« Smetti di psicoanalizzarmi, per favore. Ti fa perdere credibilità. »

« Ok, c’è solo un’ultima cosa. »

« Devo sedermi? » La bionda aveva avvertito il tono di serietà con cui aveva parlato, e sapeva anche solo guardandolo che non precludeva a nulla di buono.

« Sai che giorno è oggi? »

E subito capì.

« Jasper, ti prego… »

« Oggi è il quattordici giugno, mia cara. Sai che vuol dire? »

« Non ho assolutamente voglia di parlarti e non starò un momento di più ad ascolt… »

« Mancano esattamente tre mesi all’esame di ammissione per Medicina. »

L'amica lo guardò per qualche momento senza dire assolutamente una parola e parendo un mimo totalmente privo di espressione, poi scandì le parole con tutta la calma di cui disponesse: « Non farò quell'esame. Fine della storia. »

« Pensi che non abbia visto i manuali sulla tua scrivania? Pensi che non sappia che potresti passare ogni singolo esame del primo semestre ad occhi chiusi? Hai già lasciato passare un anno, Clarke. »
 
« Ho detto fine della storia. »

« Stai sprecando tutto il tuo potenziale e il tuo talento per la tua stupida testardaggine. Sì, hai capito bene. Pensi che sia questo che volesse tuo padre? »

Quello fu il culmine.

Jasper sapeva bene fin dove spingersi, sapeva bene quali erano gli argomenti di cui era tacitamente proibito parlare e i confini che non potevano essere superati per nessuna ragione, ma non poteva più starsene con le mani in mano a guardare come quella brillantissima e allo stesso tempo caparbissima mente si autodistruggeva e si perdeva lentamente e inesorabilmente.

« Penso che sia arrivato il momento che tu te ne vada. »

Clarke gli diede le spalle e si avvicinò alla finestra, ben conscia di aver appena messo fine alla loro conversazione.

Percepì con chiarezza i passi del suo migliore amico avvicinarsi con lentezza verso di lei, ma sapeva che non avrebbe fatto nulla.

« A volte quando ami qualcuno il meglio che puoi fare per quella persona è fare la cosa migliore per lei, anche se non vuole, anche se preferisce accontentarsi del mediocre. Non ti lascerò andare a fondo, Clarke. »




 
*




« Salve, signor Blake. Preferisce cominciare dal piano inferiore o da quello superiore? »

Il capo della ditta di traslochi che aveva assunto si era affacciato dal finestrino della sua automobile e gli aveva parlato con tono professionale e totalmente privo di inflessione.

« Preferirei sistemare prima le camere da letto, grazie. È stato un viaggio molto lungo e mia sorella ha bisogno di riposo. »

Bellamy indicò Octavia che, appoggiata con il capo al finestrino del passeggero, dormiva quasi beatamente da almeno un paio d'ore.

« Ma certo, signor Blake. »

Signor Blake. Lo faceva quasi sentire un adulto, essere chiamato in quel modo. Peccato che l’adulto in questione si stesse trasferendo nella Città degli Angeli per una rissa nel suo precedente distretto.




« Ehi, Blake, quand’è che porterai la tua sorellina a fare un giro da queste parti? » Non aveva mai avuto un buon rapporto con i suoi colleghi, ma quelli erano gli esatti commenti che gli facevano perdere la ragione e desiderare di non trovarsi in un distretto di polizia.

Soprattutto perché quegli idioti erano ben consapevoli del fatto che non si sarebbe mai e poi mai permesso di rispondergli a dovere.

« Mia sorella non è affar tuo, Murphy. » Se solo si fosse trovato in un altro luogo, in un altro momento, se solo fosse stato quello di pochi anni prima, probabilmente si sarebbe alzato e l’avrebbe messo a tacere.

Ma lui non era più quella persona; Bellamy Blake ora era un detective dedito al suo lavoro e un bravo cittadino, indifferente alle provocazioni di quelli che lo sapevano come un animale in gabbia.

« Oh, ci credo. Se lo fosse si toglierebbe quell’insopportabile sorrisetto da stronza psicopatica dalla faccia. »

Il moro non fece nemmeno caso alle risate di sottofondo che avevano seguito quella frase, si era semplicemente alzato dalla propria scrivania e aveva raggiunto in poche falcate il gruppetto alle sue spalle.

« Che diavolo hai detto? », Tentava con tutte le forze di non prendere a pugni quella feccia che si ritrovava davanti, «Forse dovrei essere
io a togliere quest’insopportabile sorrisetto dalla tua faccia. »

« Ehi, Murphy, ora sì che sei nei guai! » Urlò una voce indistinta dietro di loro, mentre i due continuavano a fissarsi in cagnesco senza dire una parola.

Bellamy sperò con tutte le forze che quel verme di John chiudesse la fogna che si ritrovava al posto della bocca, perché sarebbe potuta finire davvero molto male.

Tutte le sue speranze crollarono quando lo vide sorridere viscidamente. « Cosa volete che mi faccia? », domandò alla piccola folla, senza però distogliere per un attimo gli occhi dal moro, «Sappiamo tutti che non può permettersi di perdere questo lavoro, altrimenti finirebbe in mezzo a una strada. Chi si occuperebbe poi della piccola Octavia? »

E poi ogni cosa sembrò esplodere: Bellamy si avventò su di lui con tutta la forza che aveva in corpo, ebrio di un’ira che aveva tentato in tutti i modi di sopprimere, di scacciare, ma che aveva sempre fatto parte di lui e aveva determinato i suoi lati più oscuri.

Murphy aveva perso l’equilibrio fin dal primo pugno ed era capitolato a terra con un tonfo secco, mentre il resto dei loro colleghi avevano tentato di separarli, senza però riuscirci. Il maggiore dei Blake pareva inarrestabile, continuava a colpirlo e ad avventarsi su di lui gridandogli contro parole sconnesse, quasi insensate.

Cosa diavolo poteva importargliene se aveva smesso di opporre resistenza? Cosa poteva fregargliene se continuava a scaricare pugni su un corpo privo di conoscenza?

« 
Bellamy Blake, immediatamente nel mio ufficio! » La voce del suo capo, il capitano Diana Sydney, fu sufficiente a farlo gelare sul posto.
 
 
 
 
 

Clarke rimase da sola l’intero pomeriggio.

Avrebbe voluto dirsi che stava semplicemente trascorrendo del tempo in compagnia di se stessa, come spesso era solita fare, come spesso le faceva comodo; avrebbe voluto mentirsi e convincersi del fatto che le parole di Jasper non stessero girando turbinosamente nella sua testa, ma per qualche motivo non ci riuscì.

Sapeva che il suo migliore amico aveva ragione e, ancor peggio, sapeva che non avrebbe comunque affrontato quel dannato test.

Tutto questo non era granché utile e giovevole, specialmente perché non faceva altro che accrescere la sua frustrazione e la rabbia per se stessa e il proprio fallimento.

Se ne stava semplicemente lì, sdraiata sul suo letto ad osservare il soffitto stellato, ornato con quelle che a suo parere erano le sue più soddisfacenti pitture, e non poteva vietare alla propria mente di volare lontano, lì verso quei cieli di tempere, soltanto sognando di avere l’inconsistenza delle nuvole e la diafanità delle stelle.

La voce di Wells che la chiamava dal piano inferiore la fece ripiombare nuovamente nel peso e nella tangibilità del proprio corpo.

« Sto tornando in biblioteca, a dopo! »

Lo salutò con ok gridato forse un po’ troppo forte e poi rotolò sulla pancia, sprofondando il volto fra i guanciali.

Avrebbe dovuto parlare con Jasper e lo avrebbe dovuto fare presto, non aveva alcuna intenzione di prolungare la sgradevole situazione che era venuta a crearsi quel pomeriggio, soprattutto perché sapeva che la colpa era unicamente propria.

Quando il cellulare al suo fianco cominciò a vibrare, Clarke pensò che forse, per una volta, il destino era dalla sua parte.

Guardò con una certa trepidazione il display solo per accorgersi che no, la fortuna non era ancora girata.

Decise, però, di rispondere comunque.

« Ehilà, Monty. »

« Clarke », la salutò l’altro in un tono diverso dal suo solito, « so che non sono affari miei e che probabilmente ti infurierai ancora di più, ma Jasper voleva solamente… Insomma, lo sai… Lui è… »

« Ehi, ehi, ehi, calmo. Non sono arrabbiata, Monty. Non più, perlomeno. So che Jazz vuole solo il mio bene, è solo che è… dura.  »

« Siamo tutti con te, Clarke. Devi saperlo », la bionda sorrise e percepì il ragazzo sospirare, « Ah, ehm, non dire a Jasper che ne abbiamo parlato. Lui non mi ha raccontato niente nei particolari, ma ogni volta che litigate è evidente sul suo viso. »

« Va tutto bene, sarà un segreto fra noi due. A stasera? » Domandò lei con voce incerta.

« A stasera. »

La conferma dell’amico la fece sentire subito meglio. Per quanto Clarke evitasse di parlare e di sfogarsi con chiunque, sapeva bene che l’amicizia di Jasper e Monty era preziosa, e sapeva ancor meglio che, se avesse continuato in quel modo, avrebbe potuto perderla da un momento all’altro.

Si conosceva, era perfettamente cosciente di non essere una persona facile da gestire – chiusa in se stessa e in tutto quello che aveva dovuto affrontare – e dopo dieci anni si chiedeva ancora come potesse avere qualcuno al proprio fianco, come potesse qualcuno credere ancora che ci fosse qualcosa in lei da poter salvare.

La verità era che Clarke Griffin se ne era andata molto tempo prima, e adesso di lei rimaneva semplicemente una figura, una sagoma indistinta, un rude involucro di quella che era stata una ragazza piena di sogni, ideali e aspirazioni.

Una non poco sconosciuta insoddisfazione cominciò ad attanagliarle lo stomaco e a stringerlo in una presa che pareva stritolarlo, mentre perfino respirare iniziava a risultarle difficile; questo era quello che le accadeva nei momenti in cui si permetteva anche per pochi ed effimeri attimi di pensare a tutto quello che era accaduto, a quello che era divenuta e a quello che aveva perso.

Dall’insaziabilità emotiva a una profonda frustrazione il passo era breve, poi era la volta della rabbia per il proprio scontento e la sua inabilità nel sentirsi meglio, e il circolo vizioso continuava finché la giovane non si imponeva di smettere di pensare con qualunque mezzo disponesse.

Non c’era da meravigliarsi, dunque, che il numero delle volte in cui arrivava a casa senza nemmeno ricordarsi come, senza nemmeno ricordare chi diavolo fosse, si trovasse ad essere vagamente superiore alle volte in cui non riusciva a staccarsi dai ragazzi, e non faceva altro che continuare a parlare e parlare e parlare fino a che qualche anima pia non decidesse di riportarla alla sua abitazione, di salutarla con un gesto pressappoco affettuoso e di assicurarsi di non incrociarla mai più per strada, nemmeno per sbaglio.

Insomma, tra il perdere conoscenza per uso eccessivo di alcol e l’affidarsi a qualsiasi individuo dimostrasse anche il minimo accenno di interesse per la sua persona, Clarke era solita combattere il proprio malessere nei peggiori dei modi.

Era per questo motivo che, ogni qualvolta poteva, non si allontanava mai da Jasper e Monty, perché sapeva che si sarebbero presi cura di lei e non l’avrebbero mai illusa, anche se lei non era poi molto certa di poter anche solo lontanamente meritare un simile trattamento.

Beh, doveva proprio finire di cercare un modo per distrarsi, altrimenti sarebbe finita almeno tre volte peggio di com’era iniziata.

Notando che ormai era giunta l’ora di cena – aveva davvero, davvero trascorso l’intero pomeriggio a rimuginare su tutte quelle che ormai non poteva catalogare in altro modo se non incredibili ottusità? – si alzò dal letto e si diresse al piano inferiore, verso la cucina.

La casa in cui lei, sua madre, il suo nuovo marito e Wells vivevano non era molto grande, ma poteva essere definita ugualmente una gran bella casa, arredata secondo il gusto di Abby e ordinata secondo il rigore di Thelonious, senza però mancare del giusto equilibrio fra l’old style e il new age.

O almeno quelle erano le stronzate che amavano rifilare le riviste di arredamento per interni a cui sua madre era abbonata.

Al piano superiore si trovavano le tre camere da letto e due bagni, uno per Clarke e uno per il resto della famiglia, mentre al livello meno elevato erano ben distribuite la cucina, la sala da pranzo e un piccolo studio in cui era solito lavorare Jaha Senior.

Clarke non era una ragazza che amava mangiare, non andava particolarmente pazza né per i dolci né per i grandi esperimenti di cucina che spesso il suo patrigno programmava, sperando forse così di coinvolgerla in almeno una delle attività famigliari, perciò non ebbe grandi difficoltà a prepararsi un toast senza nemmeno apparecchiare la tavola.

Quando salì nuovamente a prepararsi, controllò per l’ennesima volta il proprio telefono cellulare e notò un messaggio arrivato da poco. Era di Jasper.

Mi dispiace, non era mia intenzione attaccarti. Ma se pensi che ti lascerò andare così facilmente, ti sbagli di grosso. A dopo.


Clarke non poté impedirsi di sorridere.


Sei un idiota. Ma non potrei farcela senza di te.
 
La bionda lasciò cadere il telefono sul letto senza preoccuparsi di dove finisse, poi si avviò verso il proprio armadio.

Non era mai stata una ragazza appassionata alla moda; certo, in precedenza si era interessata al modo in cui appariva, ai vestiti che comprava e al trucco che portava.

Ora, invece, aveva semplicemente smesso di preoccuparsi di tutte quelle che riteneva fossero stupide convenzioni, e per le quali non aveva la minima voglia di perdere tempo.

Era per questo motivo che il numero di felpe nel suo guardaroba era decisamente aumentato, mentre la maggior parte dei suoi vestiti e di quelle carinissime gonne che aveva comprato insieme a sua madre anni prima erano finiti sul fondo dei cassetti che non apriva praticamente mai. La comodità e l’indifferenza erano divenute, nel suo mondo, le componenti principali per un’equazione di successo.

Per quella serata – che sarebbe con certezza stata uguale alle altre milioni di serate passate insieme ai suoi amici di sempre – aveva deciso di indossare un paio di jeans e una canotta verde scuro, afferrando una felpa grigia e legandosela alla vita.

Si guardò allo specchio solo il minimo indispensabile, spazzolandosi i capelli con passate veloci e dirigendosi verso il proprio bagno per lavarsi di nuovo i denti.

Clarke era una ragazza bizzarra, piena di problemi e di tutte le insicurezze della giovinezza a cui, però, andavano aggiunti punti bonus: c’erano delle stranezze, in lei, così buffe da poter appartenere a quelle di un personaggio di un cartone animato. Ad esempio, la sua completa e totale fissazione per l’igiene personale, che spesso raggiungeva livelli a dir poco maniacali.

Dando un’occhiata rapida all’orologio da polso che suo padre le aveva regalato tempo prima e che non toglieva categoricamente mai, decise di essere pronta e di dover assolutamente uscire da quella casa.

Percorse le scale in fretta, afferrando solamente il telefonino e il proprio mazzo di chiavi, e poi si lasciò alle spalle quello che per altri poteva essere un rifugio, ma che ai suoi occhi appariva non più di una gabbia d’oro.

All’esterno della sua abitazione c’era un piccolo portico, al lato destro occupato da una vecchia sedia a dondolo, mentre al sinistro da un tavolo da pranzo e quattro sedie abbinate.

Quella era forse la parte della casa che preferiva di più, forse perché era la più pacifica e silenziosa, forse perché era l’unico luogo in cui potesse leggere tranquillamente e passare le proprie giornate estive in un’apprezzata solitudine.

Subito la sua attenzione fu catturata da un paio di furgoni fermi davanti al vialetto della Signora Manning, la vecchia proprietaria di quella residenza; Clarke aveva trascorso da lei qualche pomeriggio, avevano bevuto insieme del thé e lei le aveva raccontato degli anni difficili della sua gioventù, quando la Grande Guerra le aveva impedito di godere appieno dei suoi primi amori e delle sue prime esperienze.

Era un’anziana davvero piena di storie da raccontare e condividere, e la giovane aveva sinceramente sofferto quando era venuta a sapere della sua scomparsa.

A quanto pareva, una nuova famiglia si stava ora trasferendo nella villetta accanto alla sua. Un’altra persona della sua vita se ne era andata e, come se niente fosse successo, come se non fosse mai esistita, qualcun altro stava già prendendo il suo posto.

La giovane Griffin era sempre stata al tempo stesso affascinata e terrorizzata dalla prospettiva della vita e della sua perdita, di quanto poi fosse facile essere inevitabilmente sostituiti, e quello era solo l’ennesimo esempio di come tutto continuasse a scorrere, a fluttuare e defluire senza sosta, senza possibilità di resistenza.

Rimase a fissare i camioncini di trasloco per qualche altro momento, tentando di immaginare chi fossero i suoi nuovi vicini, poi si limitò a una scrollata di spalle e scese i pochi scalini della veranda.














 
  
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