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Autore: Phantom13    03/07/2014    5 recensioni
Ocarina of Time
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Quando Hyrule cadde, quando Ganondorf prese il potere,
a tutti gli altri rimase una sola opzione: tener duro, resistere, aspettando che qualcuno arrivasse per aiutarli.
Cinque oneshot, cinque personaggi, cinque spiacevoli situazioni di dolore e disperazione.
Genere: Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Malon, Princess Zelda, Ruto, Saria, Un po' tutti
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!, Tematiche delicate
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WAITING FOR …


 
Zelda si voltò di scatto, trattenne il respiro, quando, là fuori, da qualche parte, un'altra di quelle abominevoli creature ululò ringhiando.  Constatato che la belva si trovava ad un’accettabile distanza di sicurezza, tornò ad occuparsi freneticamente del proprio lavoro, con il cuore che ancora le galoppava in petto. Le lacrime le pizzicavano gli occhi, aveva la visuale annacquata e quasi nemmeno riusciva a vedere ciò che stava facendo, mentre la paura le mordeva selvaggiamente le interiora. Le sue dita, ormai rigide dalla tensione, dal freddo e dalla stanchezza, si aggrovigliarono con le bende che stava tentando di avvilupparsi attorno alle braccia. Un’imprecazione sussurrata a mezza voce, e la ex-principessa acciuffò nuovamente la striscia di stoffa sfuggita, riprendendo il movimento ritmico dell’avvolgimento.
La sua città … distrutta. Il suo castello … conquistato. La sua gente … uccisa o perseguitata. Lei … fuggitiva.
Impa le aveva imposto di aspettare. Le aveva detto che l’Eroe sarebbe tornato, che c’era stato un intoppo, che non sarebbe dovuto accadere ciò. Ma, dannazione, sette anni erano troppi! Troppi!
Lacrime di disperazione le rigarono le guance incavate, singhiozzando in silenzio.
Era allo sbando da soli due giorni e mezzo ed era già distrutta. Occhiaie, pelle tirata e sporca, capelli arruffati, graffi ovunque, cuore sempre in agitazione, sonno inesistente (e se dormiva gli incubi la perseguitavano ), sobbalzi ad ogni minimo suono, nervi a pezzi, animo sotto i tacchi, stomaco sempre vuoto, membra doloranti, energie evaporate … era già sfinita, esausta nell’anima e nella mente. In soli due giorni! Quando avrebbe dovuto continuare così per i prossimi sette anni! ANNI!
Disperata, spezzata, si guardò le braccia ora interamente fasciate di bianco. I vestiti degli sheikah erano scomodissimi. Troppo attillati, le pareva di soffocare, in quegli indumenti. Per non parlare dei pantaloni! Che infernale strumento di tortura! Sentiva le proprie gambe asfissiate, strette in tutta quella stoffa! Rivoleva la gonna, i comodi abiti femminili …
Come se non bastasse, Impa le aveva fatto indossare bende su bende, sciarpe e strisce di stoffa ovunque, come per stritolarla ancora di piu’. Certo, ora sembrava davvero uno sheikah … ma sentiva dentro di sé che nel giro di qualche altro giorno sarebbe impazzita, costretta in quel corpo e in quei vestiti così odiosamente scomodi. E doveva andare avanti così per sette anni!
Pianse di nuovo.
Lei doveva starsene lì, nascosta! A fuggire! Mentre la sua gente, il suo popolo, moriva là fuori! Avrebbe voluto andare ad aiutarli, infonder loro speranza. Invece doveva fuggire tra le ombre, strisciare nella notte, giocando a fare il ninja, attendendo che lui si svegliasse, mentre tutti gli altri dovevano combattere con le unghie e con i denti per non morire di fame! Frustrazione logorante, voglia di reagire, coscienza di non poterlo fare.
Campi bruciati, famiglie decimate, villaggi bruciati, cadaveri per le vie e sulle strade …
Le braccia le ricaddero inermi sulle gambe incrociate, graffiate sulle ginocchia e sulle caviglie. Singhiozzò apertamente, per la prima volta in giorni emise un suono udibile da un eventuale nemico. Ma non le importava, aveva bisogno di uno sfogo, o sarebbe impazzita.
Le lacrime le cadevano ormai copiose sul viso, colandole fino alla bocca e sul collo.  Sapeva che doveva essere forte, che doveva resistere … ma ad ogni secondo che gocciolava via le sembrava sempre più impossibile, resistere.
Si strinse sul volto la sciarpa bianca di Sheik, asciugandosi le lacrime e soffocando al contempo i singhiozzi.
Sette anni …
Era un’immensità di tempo. Due giorni e mezzo erano appena un gradino di un’enorme montagna da scalare, oppure due gocce in un mare da attraversare. Sette anni erano un’immensità.
Zelda si piegò su se’ stessa premendosi la sciarpa sul volto, estinguendo a forza il proprio pianto nelle pieghe della stoffa.
 
*
 
Saria sbirciò oltre il tronco dell’albero. Perfetto, si disse, erano distratti. Prese un bel respiro e partì a corsa. Non si fermò, né per i muscoli brucianti delle gambe stanche né per i polmoni infiammati. Corse e corse, attraversando tutto il villaggio in un unico scatto.
Alcune di quelle mostruose piante carnivore voltarono la testa verso di lei, schioccando le fauci fameliche. Ma lei sapeva esattamente da che parte andare, per non farsi prendere. Conosceva il percorso. In due anni di tempo, aveva avuto tutto il tempo per farlo, del resto. Per fortuna che non c’erano i lupi ma solo le piante! Altrimenti fuggire sarebbe stato decisamente più complicato, per non dire infattibile. Con le piante, invece, si poteva zigzagare tra una e l’altra, bastava fare attenzione a non avvicinarsi troppo ai loro ceppi. Indugiare, però, era assai pericoloso: gli stridii viscidi di quei mostri vegetali avrebbero potuto attirare altre belve, come i lupi, o peggio.
Due anni … era davvero da così tanto che erano tutti costretti a vivere a quel modo? Sì, si rispose, saltando via agilmente il piccolo ruscello, ora anche più magro di un tempo, che tagliava in due il villaggio. Sì, erano già due anni e lei aveva cominciato a farci l’abitudine!
Sterzò rapidamente a sinistra, scartando un tentativo di morso mal calibrato da parte di una pianta. E se lì, al villaggio, la vita s’era ridotta ad un tale inferno … com’era fuori? Un moto d’angoscia le serrò il cuore, mentre pensava a Link. In un qualche modo sapeva che avrebbe dovuto aspettare ancora tanto prima di potere rivedere il suo amico d’infanzia … dubitava di averne la forza, però.
Scosse la testa, imponendosi di non distrarsi per nessun motivo. Non aveva tempo per preoccuparsi di lui, ora. Qualcun altro necessitava di attenzioni molto piu’ urgenti.
Finalmente raggiunse la casa di Fado, la piccola kokiri bionda. Senza rallentare, Saria si fiondò dentro la porta. Lo sguardo asciutto di Mido l’accolse.
-Ce ne hai messo di tempo.- mugugnò a mezza voce, brontolando come al solito.
Saria, ancora ansante per la corsa, non si soffermò sul commento inopportuno. Raggiunse rapidamente il letto della kokiri, per poi accoccolarsi al capezzale di Fado.
La poveretta aveva il viso imperlato di sudore, gli spumosi capelli biondi erano scompigliati e in parte infangati, come se lei fosse caduta trascinandosi poi fino a casa. Gli occhi smeraldini di Saria si posarono sulla gamba. Il cuore le si strinse in petto.
I segni dei denti erano chiaramente distinguibili sulla pelle chiara della kokiri. Le pupille dilatate di Fado incontrarono quelle di Saria.
-È tanto brutta, vero?- sibilò a denti stretti, senza osare guardare.
Saria, intanto, le studiava la gamba con occhio critico. –Neanche così tanto.- disse. –Dobbiamo solo ripulirla con cura e fare un qualche impacco e dovrebbe andare via.-
Mido alzò si scatto la testa. Ruotò lo sguardo verso la kokiri dai capelli verdi ma non disse nulla. Saria, intanto, stava già cominciando a ripulire delicatamente la gamba dal sangue secco.
Mido sospirò, prese un'altra garza, e cominciò a fare lo stesso.
Ormai, erano tutti abituati. Sia a mendicare morsi e graffi, sia a vedere ferite di quel genere. Sia a vivere nascosti, scappando, nella paura perenne.
La domanda di tutti era una sola, ma nessuno aveva una risposta: quanto durerà ancora?
Quella domanda era stata posta un numero incalcolabile di volte a Saria, lei non aveva mai risposto.
Lesse quello stesso quesito negli occhi di Mido; la kokiri dai capelli verdi si piegò in avanti, sulla ferita, ignorando il kokiri dai capelli rossi. Quel terremoto che era Mido non disse nulla, rimase zitto, come sempre più spesso accadeva da quando Link se n’era andato, senza osare chiedere.
E se già il silenzio di Link era duro da sopportare, quello di Mido forse lo era anche di più, di quei giorni.
 
*
 
Malon poggiò la fronte sul caldo collo di Epona, lasciandosi sfuggire un gemito. Non tanto perché le faceva male la guancia, dove Ingo l’aveva colpita, poco prima, ma perché semplicemente sentiva di dover lasciare uscire quel gemito, da troppo tempo trattenuto.
Il cavallo sbuffò dal naso, agitando un orecchio. Riprese poi placidamente a brucare, frustando l’aria con la coda.
Rimasero ferme entrambe in quella posizione per lunghi attimi, Epona intenta a brucare, Malon a pensare, ad occhi chiusi, godendo ognuna della presenza amica dell’altra. La brezza della sera le accarezzò, benevolmente.
La ragazza aveva la fronte aggrottata, le sue dita si mossero a massaggiare la spalla, ancora stanca del lavoro di quella giornata, del giorno prima, e di quello prima ancora. Le vertebre cigolarono anch’esse, insieme alle giunture di gambe e braccia, stirate dai troppi pesi portati. La coscia sinistra le ricordò tristemente dell’ingiusto colpo di frustino che il suo aguzzino le aveva regalato, quando lei s’era interposta ad una punizione priva di motivazione ai danni di uno dei cavalli del ranch. La guancia si unì al lamento, con un’ennesima fitta.
Un altro giorno di fatiche era finalmente terminato. Un’altra giornata passata ad obbedire agli ordini di Ingo.
Un altro giorno senza papà, trascorso sotto al dominio di quell’usurpatore che aveva strappato loro Lon Lon Ranch. E che s’era piegato al Re Oscuro.
Strinse gli occhi con più forza, aggrappandosi alla criniera di Epona con le dita piene di calli.
Andarsene? Quanto le sarebbe piaciuto! Prendere Epona, sellarla, fuggire via galoppando nella pianura veloci come il vento… un sogno facile, a portata di mano. Eppure, non si sarebbe mai permessa di fuggire, lasciando nelle stupide mani di Ingo la fattoria e tutti i cavalli. Era già una battaglia ogni giorno per impedire all’ex-lavoratore di frustare e picchiare gli animali. Non osava immaginare cosa sarebbe potuto succedere a cavalli, mucche e pollame se lei se ne fosse andata.
Una lacrima le rigò la guancia incrostata di polvere.
No, non avrebbe mai lasciato Lon Lon Ranch nelle mani di quel …! Avrebbe combattuto con tutte le sue forze, in nome di papà!
Un singhiozzò strozzato le affiorò alle labbra.
Ma … ma non aveva più forza! Non aveva più energie! E, soprattutto, non c’era più tempo!
Da quasi due anni e mezzo Lon Lon era caduta nelle mani di Ingo, dopo quasi quasi tre dalla presa di Hyrule. E il nuovo re voleva un cavallo …
Malon, aprì gli occhi, annacquati, ruotando la testa verso destra, guardando il corpo di Epona.
I segni del frustino e dei colpi di sperone sanguinavano ancora. La ragazza chiuse di nuovo gli occhi, serrando i denti, le lacrime le colarono sul viso, fino alla bocca, serrando maggiormente le dita sulla criniera del cavallo.
-Devi continuare a combattere, hai capito?- sussurrò ad Epona. –Non devi … lasciarti domare da Ingo, promesso?-
La voce le si ruppe, ma Malon riprese. –Tu semplicemente non puoi … diventare il cavallo di Ganondorf! Non puoi!-
Mantenne comunque un’intonazione bassa, parlare così del nuovo re non era permesso.
Prese fiato e continuò. –Tu, tu diventerai il destriero del ragazzo con la fata! Non del signore oscuro! Ma del ragazzo venuto dal bosco!-
Il respiro di Malon tremò. –Fa male ad entrambe, ma entrambe non ci arrenderemo. Ingo, no, Ganondorf non vincerà. Ci ferirà, ma non ci avrà!-
Epona piegò indietro la testa, scambiando un’occhiata con la ragazza. Sbuffò, scuotendo il capo, per poi riprendere a mangiare tranquillamente, come se la questione fosse talmente ovvia che non necessitava nemmeno di attenzioni.
Malon fece un passo indietro, asciugandosi gli occhi con dorso delle mani. Un triste sorriso le piegava le labbra.
 
*
 
Le pupille di Ruto si dilatarono. Il ghiaccio durante la notte s’era preso un’altra fetta d’acqua, riducendo ancora di qualche metro il già angusto spazio rimasto per gli zora.
La principessa Zora rimase come pietrificata, guardando i corpi della propria gente in parte accasciati a terra, in parte immersi nella poca acqua libera rimasta. In entrambi i casi, le squame del popolo dei fiumi erano screpolate dal freddo, spesso proprio incrostate di infido ghiaccio. Le nuvolette di vapore davanti alle loro bocche erano le uniche cose che le ricordarono che non erano ancora morti. Che stavano ancora provando a sopravvivere.
Una madre con il viso imperlato di lacrime gelate accarezzava ripetutamente, come in trance, il corpicino del figlioletto, ingrigito dal freddo, spento di vita.
Ruto serrò le mascelle, voltando le spalle alla grotta che era il Dominio Zora, per dirigersi a passo serrato verso la sala del trono, per quanto la scivolosa roccia coperta di brina potesse permetterle di procedere rapidamente. Sentiva chiaramente il proprio sangue, già freddo normalmente, diminuire la velocità di scorrimento ogni giorno sempre di più. Sentiva i propri arti dolere ad ogni movimento, specialmente la pelle e le pinne, che più del resto, sembravano minacciare di sfaldarsi, irrigidite com’erano.
Raggiunse la pozza ornata dalla cascata sull’orlo della quale risedeva suo padre. Si sentì tremare i polsi quando vide il sottile strato di ghiaccio che irrigidiva interamente la superficie dell’acqua, come una sottile membrana. Alcuni sudditi, armati di piccone, tentavano di spezzarlo. E ci stavano anche riuscendo, per quanto i loro corpi fossero martoriati dal gelo. Ruto distolse gli occhi dalle loro dita dalla pelle spaccata da quel freddo innaturale, per volgere la sua attenzione verso suo padre.
Forse a causa della sua imponente stazza, il re degli zora pareva soffrire meno il gelo rispetto agli altri. Un po’ come una balena, con il grasso accumulato si proteggeva dal freddo.
-Padre- esordì Ruto. –La situazione diventa insostenibile ogni giorni di più.-
I piccoli occhi da rana dell’enorme zora ruotarono verso di lei, annoiati. –Lo so perfettamente, piccola mia.-
Le guance di Ruto non si arrossarono per il semplice fatto che il sangue era dannatamente prezioso in altre parti. –E allora perché non partiamo, come avremmo dovuto fare giorni fa, quando lo consigliai la prima volta?- sbottò, balbettando appena. Nella sala del trono faceva quasi anche più freddo.
-Perché noi non abbandoneremo il nostro Dominio. Noi rimarremo nella nostra terra.-
-Ma la gente muore!- urlò Ruto, puntando il dito in direzione della cascata che conduceva alla seconda pozza delle sorgenti, quella in cui il popolo abitava. I lavoratori ebbero l’accortezza di allontanarsi.
Gli occhietti del re scintillarono. –Abbiamo già affrontato inverni rigidi, questo non sarà diverso dagli altri. Basterà aspettare e resistere.-
Ruto esplose. –Siamo a luglio, padre! Siamo in estate! Questo non è l’inverno! Questa è opera di quel dannato maledetto che s’è preso il borgo di Hyrule!-
Il re zora ringhiò. –Non parlare così, lo farai arrabbiare anche di più.-
Ruto sentì montare la rabbia. –È questa la tua risposta? Non farlo arrabbiare? Forse il ghiaccio ha raggiunto anche il tuo cervello?- L’enorme zora mosse la bocca come per parlare, ma Ruto fu più rapida. –Dobbiamo andarcene ORA o moriremo tutti quanti intrappolati in questo ghiaccio incantato!-
-Andarcene? E dove, di grazia? Non esiste posto sicuro in cui andare! Questa è casa nostra! Noi dobbiamo resistere e proteggerla!- ora anche il padre zora era apertamente arrabbiato.
-Al lago Hylia! Andiamo al lago! Là c’è acqua, e il lago è troppo esteso e troppo profondo per poterlo congelare interamente! Per di più, c’è il tempio, un rifugio inespugnabile!-
Il re zora corrugò la fronte.
Ruto ringhiò, volandogli le spalle se ne andò a passo impettito, furente per l’incomprensione di suo padre.
Da cinque anni il castello di Hyrule era perduto, da uno e mezzo l’inverno era arrivato senza più andarsene sul loro fiume, da un mese anche le acque del Dominio Zora stavano ghiacciando.
 
*
 
Il piccolo goron rotolava e rotolava, senza sosta, senza fermarsi. Si muoveva in cerchio, privo di una meta, rotolava e basta, senza raggiungere mai nessun posto, come intrappolato in quell’anello di roccia che aveva scelto come suo percorso.
Rotolava per non pensare. Per assordare quelle voci e quegli urli che ancora gli rimbombavano nelle orecchie.
Le grida della sua gente, del suo popolo, dei suoi amici, dei suoi genitori.
I suoi occhi serrati continuavano a rivedere le fiamme del drago, rivedevano quelle squame incandescenti, quelle pupille da rettile. Rivedevano la criniera infuocata di Volvagia mentre inarcava tutto il suo corpo serpentino nell’atto di scagliarsi all’attacco sul popolo Goron, divorando, ingoiando o ferendo chiunque gli passasse abbastanza vicino.
Il ruggito del drago del Monte Morte riecheggiò nuovamente nella mente del piccolo goron. Ora fu il suo turno di gridare il proprio dolore e il proprio terrore, senza che però qualcuno lo potesse ascoltare. Lì, nella città goron, ormai, non c’era più anima viva, eccetto la sua.
Anche se lui, ad essere onesto, non si sentiva vivo affatto.
Dopo l’assalto del drago, che aveva inondato di fuoco e magma quella stessa sala in cui ora lui rotolava, e dopo la strage effettuata dalla belva infernale, erano arrivati gli altri …
Quegli esseri zannuti e armati, creature d’ombre dannate, che avevano ferito e catturato i pochi superstiti, portandoli poi via in reti incantate.
Il piccolo goron, urlò di nuovo. Solo l’eco rispose al suo grido.
Accelerò l’andatura, mentre la sua mente riviveva l’attimo in cui il corpo appallottolato di sua madre spariva nelle fauci di Volvagia. La gola del drago s’era un pochetto gonfiata vista la massa ingerita, ma il bozzolo che scivolato comunque giù, fino allo stomaco.
Il piccolo goron strinse ancor più gli occhi, serrando in pugni tanto forte da farsi quasi male.
Cozzò improvvisamente contro qualcosa. Venne sbalzato un pochetto verso destra, ma la sua corsa riprese, forsennata. Non vi badò troppo, immerso e accecato dal proprio dolore rovente e dal suo nero terrore.
Sbattè nuovamente contro quel qualcosa, la seconda volta che fece il giro. Si sarebbe arrabbiato, se non fosse stato così sofferente.
Al terzo giro, qualcosa gli esplose sotto, scagliandolo contro un muro.
Allo stesso modo della bomba, anche tutta la sua rabbia repressa esplose.
-Ma che accidenti è?!- sbottò, ringhiando, solo per trovarsi a fissare un umano, anzi, un hylian, vestito di verde, con una fatina azzurra che gli svolazzava attorno.
Sgranò gli occhi, fissando le sue scure pupille negli occhi azzurri e perfettamente calmi dello sconosciuto.
Improvvisamente, la città goron non sembrava più così vertiginosamente vuota.
Erano in due. Anzi, in tre, se si contava anche la fatina.
Un timido sorriso affiorò sul volto del piccolo goron.
L’hylian rispose allo stesso modo.
 



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Fic dedicata ad un mio amico, Mattia the cat, ora in vacanza ^.^ 
 
 
 
 
 
 
 
 
  
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