Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: GuessWhat    06/07/2014    3 recensioni
LONG SOSPESA // Esiste Dio? Se esiste, è sordo e se mi sente, non mi vede. Così sono finito qui, dalla strada ai cessi di una scuola. Sempre e comunque sguazzo nella merda. Avete voglia di ascoltarmi? Bene. C'è spazio. Questa è la mia vita, questa è la mia storia.
[Levi POV]
Dal cap. 15:
Eravamo solo io e lui, io ed Erwin, in quella stanza scura – sì, sono tornato sui miei passi. Mi guardava, gli occhi fissi nei miei, c’era qualcosa sul tavolo… Carte, o qualche altra cazzata, documenti. Non me ne sbatteva una mazza; feci solo caso al suo completo grigio scuro con la cravatta color perla che faceva davvero schifo e molto matrimonio cattolico, al suo pomo d’Adamo che sobbalzava troppo e allo sguardo che non smetteva di essere fisso.
“Levi, possiamo fare un patto.”
Genere: Angst, Drammatico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Irvin Smith, Rivaille, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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Updaaaaate!
Sempre più lunga questa storia, sempre meno il tempo per scriverla. Ma io non mi arrendo e la continuo: vi chiedo solo scusa se non rispondo spesso alle recensioni molto lunghe. Sono così ben scritte che mi sembra di screditarle con i miei lapidari 'grazie'. Quindi ne approfitto per ringraziare le lettrici e lunghe-resentrici (?) di fiducia che ormai sono ABITUè, Lord_Trancy, _Alexis_ e Nexys, oltre che la mia morosa che ruola scenette di DPJ con me, così non perdo idee e ispirazione ♥


Non so descrivere quanto fosse orribilmente lercia quella cazzo di soffitta. Dico davvero, era puro putridume. Un ambiente dimenticato da Dio, Gesù, la Madonna, tutti i santi cristiani e le altre divinità di tutte le religioni, che languiva nella polvere, nelle ragnatele, in generale nel più totale sudiciume.
In tutta franchezza, non mi sprecavo neanche a metterci piede: era un ambiente del tutto inutilizzato, di cui solo io possedevo le chiavi, e che non serviva davvero a niente, non da quanto i professori di disegno dal vero avevano preferito spostare gran parte delle statue e degli oggetti al piano terra, così da non doversi sbattere per fare le scale e andare a prendere, che so, il piede del David (tutte balle: tolto il prof. Baner, Moblit per intenderci, ci mandavano sempre me o qualche povera anziana collega). A ben pensarci, avevo detto una cazzata, quando avevo consigliato a Eren di andare lì a sbaciucchiarsi con il cavallino.
Come avrebbe potuto fare, dato che la porta era chiusa?
Già, lui probabilmente era troppo stupido (e timorato) per provare a forzare la serratura, ma non potevo escludere che il trio dubbioso avesse operato in questo senso. Non sono proprio nuovo a questo genere di cose, sebbene io non abbia mai spacciato: so fin troppo bene che è meglio nascondere la roba in un posto, piuttosto che portarsela sempre appresso in cartella. Sapete, una ‘casuale’ dimostrazione di cani antidroga della Cinofila, così, a scopo ‘dimostrativo’…  È o non è il sistema migliore per beccare baby-spacciatori?
Il fatto che avessimo già avuto di queste “dimostrazioni” nel corso dell’anno scolastico avrebbe dovuto depistarmi, forse, o farmi riconsiderare i miei sospetti. Ma volevo vederci chiaro. Forse non ero bravo a decifrare i messaggi amorosi, forse non capivo che cazzo Erwin provasse per me, se mi gradisse solo come scaldaletto o meno, ma non mi facevo prendere per il culo da tre ragazzini, di cui due bocciati già due volte –non che influisca, ma suona bene. Proprio no. Non esisteva.
Aspettai il giorno seguente per andare a ficcanasare.  Durante l’open day c’era un po’ troppa gente al pascolo per i miei gusti. Come sempre quando uscivano tutti, mi isolai dal mondo con le cuffie nelle orecchie, il mio spazzolone, e mi misi debitamente a pulire, o a fingere di farlo, mentre ciondolavo ogni tanto la testa insieme a Janis Joplin e Brody Dalle, e arretravo poco a poco verso la mia meta.
Volevo essere abbastanza sicuro di non essere né osservato, né spiato. Temo che visto da fuori sarei risultato estremamente paranoico.
Salendo le scale verso la soffitta, con Janis nelle orecchie che pregava il Signore di comprarle una Mercedes Benz e una TV a colori, mi tolsi le cuffie mettendola a tacere –scusa, Janis- e frugai nelle tasche in cerca delle chiavi. Ma non ce ne sarebbe stato bisogno.
Bestemmiai talmente forte che il mio improperio rimbombò per tutte le scale, tanto potente che non riuscii a pentirmi di averlo fatto.
La porta era accostata, ma la maniglia era fracassata e pure lo stipite all’altezza della serratura non era messo meglio. Mi chinai per studiare da vicino il lavoro che era stato fatto, e rimasi sbalordito nel constatare che da quel che restava, non sembrava essere stato usato alcun attrezzo, neanche un cacciavite. Non c’erano segni di graffi né niente. Dava l’idea di qualcuno che, con la sola forza del proprio corpo, avesse preso la rincorsa per aprire la porta con una spallata: il legno era leggermente concavo nel punto in cui era stata applicata la forza bruta.
 A chi stavo pensando?
Non so, per esempio a qualcuno che giocava a rugby, che era largo come un armadio a due ante e aveva una feroce determinazione e testardaggine.  Reiner, col suo fisicaccio e il suo presente da rugbista, non me la raccontava giusta.
Non mi restava che controllare l’interno, adesso. Certo, credetemi se dico che mi dovetti fare il segno della croce prima di entrare. Avrei preferito scendere le scale correndo all’incontrario che mettere piede in un posto tanto sporco e polveroso, ma tant’era. Questa faccenda stava diventando la mia missione, la mia promessa.
Presi coraggio a due mani ed entrai.
La porta non cigolò, ma anzi urlò di dolore quando la scostai. Neanche la poderosa spallata era servita a ridare vita ai cardini.
Mi accolse un posto orribile e polveroso in accordo con ogni mio pronostico, perfetto come scenario per un film horror, sinceramente.
 La soffitta era piuttosto estesa, dato che ricopriva l’area di almeno sei classi. Ad adornare il dimenticatoio, statue in gesso una volta nude, ora vestite di polvere, teste di animali in gesso, parti umane, solidi, frutta finta, cestini di vimini, aggeggi campagnoli, teli, cavalletti. Ci mancavano solo le librerie stracolme di vecchi archivi e libri antiquati, smollati lì dopo l’aggiornamento della biblioteca, e quegli armadietti dalle ante vetrate sul fondo della stanza a rendere il tutto più magico e favoloso. Oh, sì, magico e favoloso come un pugno nelle palle.
Non avevo idea di dove cominciare a guardare se non dal pavimento, abbastanza polveroso da lasciare tracce di oggetti trascinati o appoggiati. Con le mani dietro la schiena, mi misi a scrutare per terra in cerca di un segno, qualcosa. La stanza era talmente grande ed io talmente a disagio in quell’ambiente malsano che non avevo intenzione di ficcare le mani in ogni dove, alla ricerca di qualcosa che, effettivamente, non sapevo nemmeno se esistesse.
La mia ricerca durò meno del previsto. Supposi che qualsiasi cosa avessero potuto nascondere in soffitta, di certo non l’avrebbero posta dietro a un mezzobusto o sotto a un telo. Gli armadietti erano tutti chiusi a chiave ma ricordavo bene, da cinque anni prima quando avevamo fatto l’aggiornamento dei materiali, che uno di quegli armadietti si poteva aprire intrigando qualcosa sotto l’anta destra, come ad esempio un righello, sollevando l’oggetto piatto verso l’alto nella propria direzione.
E cos’era quell’oggetto che sbucava dall’anta del mobile? A parte un disgustoso righello della Peppa Pig, s’intende, era nient’altro che la chiave di accesso al suddetto armadietto.
Nessuno era in vista, così io mi concessi un sorrisino soddisfatto, pregustando la mia vittoria su quei mocciosi: brutti cretini, pensavate di avermi gabbato. Mi scrocchiai le nocche, soddisfatto come un Erwin Smith bello satollo, e mi misi in ginocchio… Non senza un certo ribrezzo. La polvere, ahhh.
Aprire l’armadietto fu un gioco da ragazzi. Presi a frugare al pari di un procione nel bidone dell’immondizia e non mi arresi finché le mie dita non si strinsero attorno un sacchetto di plastica dalla consistenza soffice e ‘vuota’. Guardare dentro al sacchetto era del tutto inutile, dato che avevo riconosciuto da subito l’odore familiare simile al fetore rilasciato dalle puzzole, solo meno pungente. Ci misi comunque il naso dentro e rimasi sbalordito: era molta meno di quella che io pensassi. Avevano venduto bene, nel corso dell’anno!
Il sacchetto vuoto significava solamente una cosa, ovvero che sarebbero venuti di sicuro a rimpolpare la scorta molto presto; e comunque, dato che la fine dell’anno era alle porte, ci sarebbero comunque tornati a prenderla, la loro roba. Bene, bene, bene. Io non avevo alcuna intenzione di lasciarglielo fare.
La domanda ora era: come comportarsi?
Io, se devo essere onesto, avevo un’idea ben chiara di come reagire. Ovvero avrei infilato un mattone dentro al sacchetto e l’avrei tirato dritto dietro al trio. Ma diciamoci la verità, non sarebbe servito a granché – a parte ad assicurarmi qualche mesetto di prigione per aggressione a danni di minori-, e per il momento preferivo evitare altri casini con la legge: mi bastava pensare alla faccia caprina di Nile per dissuadermi da ogni proposito violento.
Bene, allora scartiamo la violenza e la reazione da pan per focaccia. Non era una scelta saggia.
Mi rimisi in piedi e mi diressi verso l’uscita con il sacchetto in mano. Prova a pensare come Erwin, mi dissi. Mi domandai cosa avrebbe fatto lui al mio posto: allora raddrizzai la schiena, spinsi avanti il mento per credere di avere una mascella alla Ridge Forrester, mi diedi un tono con le spalle, nella speranza che potesse servire a qualcosa.
Atteggiamento cretino a parte, mi misi d’impegno e mi chiesi cosa avrebbe fatto lui al mio posto. Con una simile prova, di sicuro sarebbe subito corso dall’autorità –il preside-. Allo stesso tempo, sarebbe stato consapevole di non avere alcuna intenzione di mettere in mezzo ragazzi che probabilmente avevano solo una mezza idea di ciò che stavano facendo. Dunque, che fare?
Cancellare le prove, logico.
Non sono mai stato né un grande pensatore, né tantomeno un ottimo stratega, ma di buono potevo e posso dire di avere un ottimo istinto. Dal momento in cui decisi cosa fare, sapevo già dove ficcare quella schifezza: c’era un solo luogo dove avevo la sicurezza di farla sparire in modo pulito, e che ci crediate o no, era il cesso.
Sì. Il cesso. Dicono che il modo migliore di nascondere un cadavere sia di affidarlo al fiume o ai cinghiali, ma io non avevo nessuno dei tre –fiume, cinghiali e soprattutto cadavere- quindi mi sarei accontentato della versione ridotta. Un pacco di marja e un cesso.
Rimisi tutto a posto; assicurai l’anta all’armadietto, infilai sotto di essa il righello della Peppa Pig  e finalmente me ne uscii dalla stanza lercia col sacchetto sottobraccio. Per mia fortuna su quello stesso piano c’era un bagno, quello dei disabili di fianco all’aula in cui erano soliti portarli gli insegnanti di sostegno.
Cinque minuti più tardi mi stavo accuratamente lavando le mani nel lavandino immacolato, la sinfonia dello sciacquone in sottofondo. Non c’era lo specchio per ragioni di sicurezza, ma so bene di avere avuto un’espressione compiaciuta. Mi sentivo quasi completo e felice dopo avere fatto il mio dovere, avevo la sensazione netta della mano di Erwin sulla spalla, mentre lui con un paio di pacche mi diceva ‘Ben fatto, Levi! Sono orgoglioso di te’.
La sua approvazione e i suoi consigli contavano per me più di quanto volessi ammettere.
Avevo svuotato i sacchetti nel water perché sapevo che era la cosa giusta da fare, ma riflettendoci bene, non lo era solo perché me lo aveva detto Erwin Smith (tra l’altro, manco me lo aveva detto); date le circostanze, era stata la scelta migliore, a mio parere. Certo, quei ragazzini erano teste di cazzo. Ma c’era da dire che io non conoscevo le loro storie personali a menadito, e comunque fosse – non credo esista  ragazzino che spacci così grosse quantità di marja senza qualcuno di più influente alle sue spalle. Ad ogni modo, avevo vagamente presente chi fosse il padre di Reiner, o meglio: il nome ‘Braun’ non mi era affatto nuovo, ma per qualche motivo, il collegamento ad esso era sepolto da qualche parte nella merda dei miei ricordi. Forse non era importante.  Forse mi ricordava solo qualche marca di rasoi e minipilmer e attrezzi da cucina?  Possibile.
Tornai alle mie faccende senza che nessuna delle mie colleghe si accorgesse della mia ‘sparizione’, sparandomi ancora una volta le cuffie nelle orecchie. C’erano i Garbage a farmi compagnia adesso e, per assurdo, non mi sentivo minimamente spazzatura in quel momento.
Qualcun altro al mio posto sarebbe corso dal preside, avrebbe cercato d’informarlo il prima possibile su tutto quello che aveva visto, dalla porta sfondata alla prova più schiacciante, e forse avrebbe anche rivelato un paio di nomi. Un cittadino modello, un cittadino tutto legge e niente paura, si sarebbe comportato a quel modo!
 L’idea di seguire quel metodo mi disgustava. Non ce l’avrei mai e poi mai fatta. Ne avevo abbastanza di uomini in divisa, di processi, di testimonianze e gente che faceva domande. Ed è schifosamente egoista da ammettere, ma non volevo finirci in mezzo: andiamo, sarei un idiota se facessi finta d’ignorare i miei precedenti. O no? Quanti mi avrebbero creduto? Quanti avvocati mi sarebbero andati addosso? La mia vita era stata abbastanza incasinata e stava riprendendo una piega decente dopo cinque anni di nulla, in cui avevo continuato a fare la spola dalla scuola a casa, da casa al pub. Non avevo intenzione di rompere quel piccolo briciolo di serenità –solo una promessa di felicità, niente di più- per una parola di troppo. Avevo una gran paura che tutto potesse finire nel giro di un battito di ciglia.
Ero estremamente confortato che non fossi solo in questo, che c’era stato Erwin a supportarmi nella decisione di agire ‘sottobanco’. Ancora non sapevo se avrebbe apprezzato il mio gesto repentino –prendi tutto e butta nel water- ma chi se ne frega, qualunque fosse stata la sua opinione; in cuor mio sapevo fin troppo bene di avere fatto la scelta giusta.
C’è una buona probabilità che io la stia facendo più tragica del previsto, lo ammetto. Sarà la cazzo di influenza Erwin Smith. Sarà proprio così.
 
***
 
E a proposito di Erwin Smith, lo chiamai proprio quella sera.
 Posai la busta della spesa con la mia cena –niente se non pomodori e tonno- sul tavolo, scacciai Bobbo che ci stava mettendo il muso dentro e non persi altro tempo. Mi scapicollai a chiamarlo, ora che avevo dei minuti liberi ed ero sicuro che fosse un orario decente per entrambi.
Ogni squillo fu una specie di pizzico sul braccio. Muovevo freneticamente una gamba e mi tormentavo una pellicina intorno al pollice; dài, culone, alza il braccio e prendi su il telefono.
“Ciao, Levi.”
“..’Sera, eh.”
È difficile descrivere quanto fossi eccitato. Mi sentivo come un bambino che era riuscito a fare qualcosa di molto difficile e che sapeva avrebbe reso orgoglioso suo padre; lì per lì, non badai a quanto sbagliato fosse quel pensiero. No anzi, a quanto fosse quasi malato nella mia ottica delle cose di allora.
“Levi, metti giù, ti richiamo io, così non spend-“
“No” lo interruppi con un soffio. No, coglione. Ce l’ho fatta da solo e non voglio che continui a reggermi la bava come se fossi un poppante. “Ascoltami. Ti devo dire solo una cosa.”
Ero talmente su di giri, nonostante la mia voce stanca dalla lunga giornata, che non mi concentrai nemmeno su quanto fossi contento di sentirlo per il semplice fatto di udire la sua voce. Chissà cosa avrebbe detto di me. Chissà se sarebbe stato contento. Lo speravo davvero. Era un gran stracciacazzi e un papale ficcanaso quell’uomo, e nonostante tutto ero fermamente convinto che si meritasse qualche soddisfazione da me, ogni tanto. Piccole forme silenziose di ‘grazie’.
“Va bene, Levi. Dimmi. Ti ascolto” suonò un po’ distaccato, ci scommisi, pure deluso. Non mi dispiacque, tuttavia.
“Ho trovato dove nascondevano la roba. Quei tre, sai, quelli là-“
“Fantastico! E dov’era?”
Che cazzo te ne frega di dov’era, pensai, “In soffitta. Era tutto chiuso a chiave e c’erano i segni di una spallata, hanno forzato la porta con una spallata, capisci. Comunque chi se ne frega di dove stava” alla fine, non riuscii proprio a tenermelo dentro, “Non vuoi sapere che ne ho fatto?”
“Ah- beh, suppongo l’avrai portata a Pixis. È la cosa più logica.”
Ecco qualcosa che non avevo minimamente messo in conto. Il disaccordo.
Mi ritrovai a mordermi il labbro in silenzio, fissando il lavandino di fronte a me. Mi concentrai su quella singola goccia che scendeva, plic plic, regolarmente e mi diedi davvero dello stupido per non avere chiuso bene il rubinetto. Lo sapevo che la guarnizione era un po’ guasta.
In realtà, temevo la sua reazione e il suo giudizio; Erwin era suonato così sicuro di sé mentre mi diceva quelle parole che non avevo potuto fare a meno di prenderlo sul serio. Sembrava non avesse avuto dubbi sul fatto che io avessi fatto la cosa più logica. Cazzo, Erwin, io non sono come te. Io non vado avanti a logica. Non mi nutro di queste stronzate.
“..Hm? Levi?” ed ora era vagamente sospettoso. Ci stavo mettendo troppo a rispondere.
“L’ho…”
“L’hai?”
Non mettermi fretta. Non provare a mettermi fretta. Mi rimase nulla se non ostentare una falsissima calma, sebbene una lieve irritazione mi stesse consumando da dentro. Perché, poi? Che come sempre io mi stessi lasciando travolgere da insulse paranoie? “L’ho buttata tutta nel cesso.”
L’avevo vomitato fuori, ora non mi restava che aspettare. A girarci intorno non avrei ottenuto nulla, mentendogli non mi sarei sentito per niente in pace con me stesso.
Erwin respirò nel ricevitore qualche secondo mentre una forza invisibile e carica di ansia mi stava tirando dalla punta dei capelli a quella dei piedi, allungandomi in modo innaturale. Molto velocemente, come una specie di folata di vento freddo che dura un secondo, mi chiesi se mi facesse bene affidarmi così tanto al suo giudizio. Era normale?
Per uno come me che non aveva mai avuto una simile esperienza, mi faceva sentire impotente nei confronti di me stesso ed arrabbiato. Era molto meglio rispetto a quand’ero più giovane ed iniziavamo a conoscerci, ma non avevo ancora capito che la maggior parte delle persone, in un modo o nell’altro, pende dalle labbra di chi ammira ad un livello non patologico. Ce ne sarebbe voluto di tempo prima d’imparare che il mondo delle relazioni non è solo bianco e grigio!
“Sei serio?”  mi chiese. Ce lo vedevo benissimo a massaggiarsi l’esiguo spazio tra le sopracciglia con espressione corrucciata.
“Certo.”
“Non ci posso credere.”
Mi irrigidii di colpo sulla sedia, con Bobbo che cercava di ammorbidirmi, strusciandosi ai miei piedi, ma con scarsi risultati. “Che vuoi dire?”
La sua voce divenne improvvisamente accomodante, quel tono fastidioso che si usa coi bambini capricciosi duri a comprendonio. “Levi, capirai che non è stata la scelta più saggia.”
Mi trattenni dallo sbottargli in faccia, non era da me. Il sibilo nel telefono gli giunse forte e chiaro. “Di certo non quella più cogliona.”
“Che cosa intendi dire?” le carte si erano improvvisamente rimescolate: sentivo che era lui, ora, ad essere in difficoltà. Ed io non mi sarei certo trattenuto dal parlare.
“Credi che portare quella roba a Pixis sarebbe stata la scelta giusta? Lo sai con chi stai parlando, Erwin- Erwin Smith. Non fare finta che se l’avessi fatto tu, allora sarebbe stato diverso, e con una storia migliore dietro.  Non nasconderti dietro un dito. Ti avrebbero creduto –seh, magari all’inizio ti avrebbero guardato con sospetto, d’accordo, ma io?” cercai di mantenere la voce il più atona possibile, ma mi era difficile. Sono pur sempre fatto di carne e sangue, come tutti. “Già li sentivo, quelli stronzi del comitato insegnanti, a farsi domande sul come e sul perché ne sono venuto in possesso. Quello lì.. Quello lì è un ex tossico, io non lo so mica quanto ci possiamo fidare di lui” ebbi un sobbalzo nello stomaco alla parola ‘fidare’, e deglutii alla fine della frase. Percepii il suo respiro, intuii che voleva parlare, ma lo misi a tacere. “L’ho sentita così tante volte ‘sta battuta del cazzo-“
“Mi dispiace-“
“-Che ormai non mi fa più effetto. Davvero, non me ne frega niente. Tu sei fortunato. Hai una bella casa e un lavoro che ti frantuma le palle” e ti fa ammalare, mi dissi, “Un bel gatto e dei begli amici che ti vogliono bene. Tu hai una famiglia che ti vuole bene.” Mi fermai un secondo per dargli il tempo di riflettere sulla faccenda. Mi succhiai le labbra, guardando in su con gli occhi pesanti. Mi tremava il cuore, mentre il mio discorso stava prendendo una piega che non riuscivo più a gestire. “Se io perdo il lavoro, non ho un cazzo. E la sai un’altra cosa?”
Lì per lì Erwin mi ferì, perché disse solo un piatto “No” che il cellulare rendeva solo più distante di quanto già non suonasse.
“Ho le palle piene di vedere e sentire tutte le volte la stessa storia” mi alzai e sospirai, stringendo un braccio al petto e mordendomi il labbro. Per fortuna non piansi. Lo sapete meglio di me, io non sono un emotivo, né un frignone… Il discorso mi stava toccando nei punti giusti. O meglio, in quelli sbagliati. “Ragazzini idioti che si buttano nella spazzatura come se non valessero un cazzo.”
 Per tutta risposta, Erwin rise. Ridacchiò, anzi, senza alcuna nota di scherno; non saprei dire se il cuore mi si era scaldato di rabbia o patetica commozione mista a sollievo –non che escludessi un mix folle di quei tre sentimenti. “Sei protettivo nei loro confronti.”
No. Sì. Non lo so e non lo sapevo. In verità, non avevo il coraggio di mettermi lì ad analizzare se li volessi proteggere perché sì, perché avevano fatto una scelta sbagliata, o se stessi cercando di riparare a un errore proteggendo una sorta di proiezione astrale futura – ma che cazzo sto dicendo? Erwin mi aveva punzecchiato nella mia parte più molle ed io mi strinsi nelle spalle e sbuffai dal naso. C’è da riconoscergli qualcosa di buono, da questa orrida conversazione: mi aveva fatto passare il grigiume da tristezza. E, sì, mi era arrivato un grosso schiaffo morale realizzando quanto mi mancasse, ma questo non diteglielo mai.
“Tu invece lo saresti stato davvero tanto, portando la roba a Pixis.”
Silenzio.
Tié, stronzetto: te mi pizzichi da una parte, ed io ti pungo nel vivo.
“Sono ancora convinto che sarebbe stata la scelta più logica.”
Ora iniziavo a spazientirmi. Ma mi aveva ascoltato o aveva solo fatto finta? Era rimasto in silenzio ad aspettare che finissi di parlare? Non volevo essere troppo morbido con lui ‘perché poverino ha il cancro’, ritengo che i metodi duri siano sempre i migliori con certe persone cretine come lui. E me. “Se apri bocca con Pixis, ti do una valida ragione per morire che non è il cancro, Erwin.”
Lui rise di nuovo. Avrei voluto che la smettesse tanto quanto che continuasse. “Ma sarai d’accordo con me nell’ammettere che, vedendo la faccenda da una prospettiva di giustizia e in lontananza, è la cosa più logica.”
“No.”
“Come no?”
“No. Non ha senso. Piantala di cercare di rigirare la frittata a tuo favore.”
“Non sto cercando di rigirare la frittata a mio favore.  Ma comunque, Levi – seriamente parlando. Mi fido di te e del tuo giudizio” Erwin non ebbe bisogno di aggiungere il resto, dato che lo capii al volo: intendeva dirmi che non dovevo approfittarmi troppo della situazione.
Ad ogni modo, il fatto che mi avesse ripreso come un ragazzino ancora mi bruciava parecchio. Roteai gli occhi, mentre riempivo la ciotola dell’acqua del gatto. “Sì, papà.”
“Ahah! Non chiamarmi troppo così. Potrebbe piacermi.”
Piccoli lati di Smith che non conoscevo. Fissai il cellulare, a metà tra lo sbalordito e lo sconvolto; ma gli pareva cosa mettersi a parlare di porcherie nel bel mezzo di un discorso come quello?
“…Fai schifo.”
“Sto scherzando.”
“Bene. Comunque, signor Logica, grazie per il supporto.”
“Hm?”
“E’ bello sapere che pensi che ho fatto una cosa buona.”
“Io ti supporto quando me ne dai occasione, Levi.”
Lo trovai irritante come una pustola intorno all’ano di una pornostar  gay. Se fosse stato possibile strozzare i cellulari, lo avrei fatto. Questa chiacchierata stava diventando una montagna russa di emozioni e se vi sentite confusi, provate solo a immaginare come lo ero io in quel momento.
Vacillavo tra la contentezza di sentirlo, la frustrazione di non incontrare il suo appoggio, il senso di malinconia, dato che mi mancava, e la fretta di chiudere una conversazione che rischiava di restare troppo irrisolta, dato che stavo finendo il credito – come annunciato da un sms che fece vibrare il cellulare nella mia mano, vicino al mio orecchio, minacciando di assordarmi. Volevo solo salutarlo, cenare, mettermi a letto e riflettere.
Mi mangiai mentalmente la lingua e inghiottii una di quelle terrificanti frasi fatte, ‘Ti darò tante occasione per supportarmi’. Lo pensai forte, per essermi forzato a non dirlo. “Allora supportami ora.”
“Non credo sia il c-“
“Sto finendo i soldi.”
“Ti richiamo io…”
“No. Lascia stare. Ci sentiamo un’altra volta.”
Era deluso il mio caro Erwin, ben gli stava. “Va bene. Allora… Buonanotte, Levi.”
“..’Notte.”
 
***
 
 Mi buttai a letto con la testa completamente vuota. Era la seconda volta che facevo avanti e indietro dal letto – prima mi ero dimenticato la televisione accesa, e poi anche il rubinetto in cucina mi aveva rotto i coglioni. Ero fuori come un balcone.
Volevo dormire, farmi una sega mentale oppure fisica..? Per il momento, mi limitavo a fissare il soffitto. Ero stanco e confuso. Questa cosa delle relazioni era stancante.
Nella mia vita, le uniche persone da cui avevo cercato ammirazione e supporto erano state in totale forse cinque; mia madre prima che mi lasciasse, mio padre prima che finisse a marcire in galera, un paio di professori e insegnanti, e infine Erwin.
Non era mai andata granché bene. Mia madre se ne andò troppo presto, all’ombra del solito litigo con quell’ubriacone di mio padre. Ne persi due in una volta. E i miei insegnanti… Mi avevano dato molto, ma non era abbastanza. Non era mai abbastanza e dentro il mio cuore avevo la consapevolezza che non lo sarebbe mai stato. Io succhiavo bisogno di appoggio come una cazzo di sanguisuga attaccata alla coscia, ero affamato, ero soffocante.
Crebbi deluso, stanco e amareggiato. Che motivo avevo di migliorarmi, se a nessuno importava che lo facessi…? E se ero così apatico e fuori dal mondo che gli unici per cui contassi qualcosa non fossero altro che semplici esistenze nella mia vita?
Crebbi selvaggio e storto, pieno di risentimento, pieno di dolore. Ero arido peggio del deserto. Mi facevo male, facevo male agli altri, ed era figo, mi sentivo potente per la bellezza di cinque minuti, grande, grosso, tronfio… E poi rieccomi lì, sul fondo del mio stesso bidone, a guardarmi intorno senza avere nessuno.
A volte sei circondato da anime ma nessuna che ti tocchi. Era strano e normale insieme sentirsi solo in mezzo a tanti amici e tanta gente, in mezzo a quelle feste che sapevi quando iniziavano e non quando finivano, in cui ti ritrovavi nudo a coprirti con un cuscino e no, non ti ricordavi neanche come ci fossi finito così; o in mezzo a quelle folle schifose e sudate dentro un capanno dimenticato da Dio e su quel ring improvvisato dove tutti ti temevano perché eri piccolo come un ratto e cattivo uguale, e tiravi quattro pugni per guadagnare due soldi in più. Solo in mezzo a tanta gente uguale a me, forse troppo.
Bobbo mi saltò sulla pancia e per un po’ fermò il flusso dei miei pensieri. Lo tirai vicino al mio viso e gli riempii il musetto di baci, mentre lui si lamentava con brevi miagolii, tanto per rompere il cazzo gratuitamente.
Lasciai che si riaccomodasse vicino a me e gli accarezzai la schiena. C’ero uscito da cinque anni e c’erano tantissime cose che dovevo imparare da capo; non avevo avuto un’infanzia e un’adolescenza, non avevo avuto una vera e propria esistenza perché era stato tutto un caos selvaggio per più di dieci anni. Erwin non era stato il mio buon Gesù salvatore, e Dio, quante volte avrei voluto che la smettesse di sentirsi in dovere di fare del bene per tutti, per me compreso.
Guardavo questi fenomeni da una certa distanza con una dose di meraviglia… Non avevo mai riflettuto prima di allora su quanto io avessi bisogno di accettare il bisogno di un giudizio, tanto quanto il mio biondino necessitasse di prendersi una pausa da se stesso. Che sia chiaro, non che me non me fossi mai accorto prima di allora, anche per quanto riguarda quelle poche anime che potevo definire amici, ma con Erwin era tutto così… Diverso e nuovo.
Dovevo ancora decidere se odiassi o amassi tutto ciò. Mi faceva malissimo il cuore, quella sera, lo sentivo in tanti piccoli pezzi. Avevo deluso tante persone ma mai mi era successo di restarci così male come per Erwin, nella specifica sera di cui vi sto raccontando. Io desideravo ardentemente e appassionatamente che lui provasse orgoglio, pensando a me, pensando a Levi, un uomo che ce l’aveva fatta, che in barba alla vita si era tirato su e ora andava avanti.
L’ultima cosa che volevo era essere messo in esposizione coi suoi colleghi, ‘guardate Levi, è il mio miglior utente’ e anche se non mi sembrava affatto il caso, la sottile angoscia iniziava a fare capolino negli ultimi tempi. Se non mi avesse mai baciato, tutte queste domande del cazzo, l’arrabbiatura di quella sera, le delusioni, il sangue amaro, non si sarebbero impilati alla merda che già regnava nella mia vita.
Non riuscivo a capacitarmi della ragione per cui lanciassi tutti quei sentimenti in un’altra pila, una pila opposta che io tenevo ben separata dal resto. Mi domandai se era a questo che si riferiva a Erwin riguardo al vedere le cose da una certa distanza.
Mi abbracciai al cuscino e mi sforzai di chiudere ogni pensiero fuori, proprio come le mie pile di cacca: i miei pensieri stavano iniziando a diventare un fottuto caos e io avevo un grandissimo bisogno di riposare.
Mi ero appena appisolato quando il cellulare squillò sul comodino. Era la suoneria di un messaggio; era abbastanza tardi, mezzanotte e mezza, e mi chiesi chi potesse essere a quell’ora. Sbadigliai, acchiappando l’apparecchio con uno sbuffo: avrei controllato il cazzo di mittente e mi sarei rimesso a dormire.
Era Erwin.
Controllare il mittente e rimettermi a dormire sembrava l’ultima delle opzioni nella mia lista. Aprii subito il suo sms, troppo stanco per incolparmi di corrergli dietro come un ragazzino alla sua prima cotta.
Strabuzzai gli occhi: il testo dell’sms era fottutamente lungo! Occupava almeno due schermate piene!

[ Mi sei sembrato molto arrabbiato quando ci siamo salutati, prima. Ci ho pensato molto e non credo tu abbia tutti i torti. Vorrei chiederti scusa. Se mi fossi fermato ad ascoltare le tue ragioni, invece che procedere sempre per la mia strada dritta e delineata, sarebbe stata ‘la scelta migliore’. C’è da avere molta pazienza con me, non ti chiedo di averne, non so se non te la senti: parlando di ‘scelte’, la ‘scelta’ è tua. La scelta che hai fatto oggi è stata giusta, nel tuo universo personale, e ora credo di averlo capito. Mi dispiace se ti sei arrabbiato.. Non immaginavo che il mio supporto contasse così tanto. Volevo farti sapere che appoggio la tua scelta qualunque essa sia e sarà, se tu la ritieni giusta, con tutti i tuoi motivi per farlo.  Mi fido davvero molto di te.

Vorrei dirti tante altre cose ma sono tanto stanco e ho sonno. :( Gli esami mi stanno distruggendo. Non vedo l’ora di tornare a casa e rivedervi.
Buonanotte Levi. Un bacio a te e a Bobbo :*]

Subito sotto, Erwin aveva allegato un autoscatto di se stesso. Era steso a letto in ospedale, con i capelli un po’ in disordine, quell’aria stanca e sciupata che gli avevo visto fin troppo spesso: il suo viso era reso non poco spettrale dalla luce sul suo comodino, ma lui sorrideva, sia con gli occhi che con le labbra chiuse.
Mi ricordai di colpo che avevo un cuore che sapeva battere forte.
Mi accorsi troppo tardi che una lacrima mi stava solcando il viso. Lanciai il telefono in un angolo del letto, masticando un “Merda merda merda” mentre le mie braccia andavano alla ricerca del gatto. Non avevo molti soldi, ma volevo rispondergli. Dovrei avere più rapporti sociali appena sveglio o dopo un pisolino, la parte del mio cervello che elabora le pippe mentali non è ancora sveglia.
Fu difficile tenere Bobbo fermo. Scappava da tutte le parti peggio di un’anguilla, ed io volevo solo fare una foto! Lo acchiappai per la pancia, lo tenni vicino a me, e più volte cercò di scappare, sgambettando con le sue zampette scattanti e magre. “Dài, Bobbo! Fallo per il tuo papà Erwin!” lo pregai, grattandogli la pancia, e in quella si calmò: dubito fosse il suono del nome di Erwin a calmarlo. Bestiaccia, gli piacevano quei grattini!
Ci scattammo una foto (o come dicono i giovanotti d’oggi: selfie), labbra contro muso, i miei occhi fissi sull’obiettivo, e la allegammo all’mms per Erwin.  Sì, allegammo, perché in quel momento io e Bobbo eravamo una cosa sola –sebbene lui si scansò da me con uno sculettare deciso e un miagolio di disapprovazione-. Gli scrissi, ovviamente, e il testo recitava così:

[ Guarda come abbiamo ‘scelto’ di stare soli soletti senza di te. Rosica.

Buonanotte Erwin. ]

Tenni stretto il cellulare, incapace di distogliere lo sguardo da quella foto che Erwin mi aveva mandato. Era spaventosamente naturale e reale, con quel sorriso stanco e felice. Conoscevo alcune delle sue espressioni, ma mai l’avevo visto così.. Non so dire come. Aveva la faccia di chi ha capito qualcosa di molto importante e profondo.
La delusione, l’amarezza della nostra conversazione erano passate  quasi  in secondo piano. Il gatto dormiva accanto a me, acciambellato vicino al mio viso, e il letto mi parve di colpo più vuoto che mai.
Proprio quando pensavo che la pila di Erwin fosse solo un puzzolente ammasso di letame, grossi e coloratissimi fiori di campo avevano preso a sbocciare tutt’intorno, coinvolgendo anche l’altro ammasso informe di pensieri putridi. La massa di fiori non cancellò il puzzo di tutto ciò, ma i loro colori erano splendidi e sgargianti  ed io mi sentivo bene, anche se avrei voluto tanto strozzare, tirare le orecchie e mordere per bene quello stronzo lì nella foto che stavo fissando insistentemente.
 E che fissai finché non crollai addormentato.
   
 
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