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Autore: Efthalia    07/07/2014    8 recensioni
{Percabeth; Pseudo-Pernico}
La vita di Annabeth è organizzata come uno dei suoi tanti progetti di architettura, e basta un solo - ma essenziale - elemento in meno a far crollare tutto, in lei.
Happee (?) ending!
II classificata + vincitrice dei premi Dolcezza e Lumaca al contest “Why Rick Riordan wants to Kill me?” indetto da King_Peter
Genere: Dark, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Annabeth Chase, Nico di Angelo, Percy Jackson, Percy/Annabeth
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
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Titolo: La sottile linea di confine tra amore e pazzia
Autore: Efthalia (su Efp); -Daughter of Athena (sul forum)
Genere: Dark, Introspettivo, Romantico
Rating: Arancione           
Pacchetto scelto: #Reyna Ramirez Arellano
Prompt/Tracce utilizzate: Tutte e tre, spero D:
Personaggi: Annabeth Chase, Percy Jackson, Nico Di Angelo
Avvertimenti/Note: Violenza, {la storia si svolge in un ipotetico futuro in cui la guerra contro Gea è stata vinta}
Trama: 
La vita di Annabeth è organizzata come uno dei suoi tanti progetti di architettura, e basta un solo - ma essenziale - elemento in meno a far crollare tutto, in lei.
 


 
 
{  La sottile linea di confine tra amore pazzia
 

Il rumore stridulo della sveglia squarciò il silenzio della Cabina 6.
Annabeth era già pronta ad affrontare la lunga giornata, dato che l’aveva organizzata durante la notte insonne, ma i suoi fratelli si lamentavano spesso dell’anticipato orario su cui era puntata la sveglia. La capogruppo ripeteva loro i confutabili vantaggi dello svegliarsi alle sei del mattino, tuttavia qualcosa sui loro visi le faceva pensare che non fossero poi così d’accordo con le sue teorie.
Si alzò dal letto ancor prima che il penetrante suono finisse di strimpellare e, incurante dei borbottii assonnati su quanto ormai fosse diventata pazza, andò in bagno.
Quello che vide allo specchio non la sorprese: si era già abituata ad alzare lo sguardo su quell’odioso oggetto e ritrovarsi davanti una ragazza minuta, pallida, con degli splendidi occhi grigi ormai spenti contornati da profonde occhiaie violacee.
La vecchia Annabeth era scomparsa da tempo, insieme alla sincera voglia di non fare nient’altro per il resto della sua vita. Quanto desiderava che quella sveglia non suonasse più! Sarebbe stato fantastico dormire per sempre e dimenticare gli sguardi derisori e i sorrisi divertiti che ogni giorno l’attendevano.
Ma non poteva concederselo.
La sua dignità era ormai stata calpestata, frantumata, gettata alle ortiche,  e non poteva concedere che quei piccoli pezzi andassero perduti. Il suo obiettivo era quello di riunirli, riunirli come se nessuno li avesse mai spezzati.
Sapeva quanto fosse diventata debole ed era già una vergogna ammetterlo a se stessa, ma non avrebbe mostrato agli altri la sua fragilità. Si sarebbe alzata ogni giorno alle sei del mattino con l’illusione che le sarebbe capitato qualcosa di meraviglioso, avrebbe dato prova alla sua forza e la sua energia durante gli allenamenti e avrebbe fatto scivolare via i giudizi degli altri.
Annabeth ammirò il suo sorriso sicuro riflesso nello specchio. Era fiera di se stessa quando si incoraggiava.
Improvvisamente, però, Percy fu l’unico oggetto primario dei suoi pensieri.
L’amore incondizionato che provava per lui, i momenti più belli della sua vita passati insieme, il suo sorriso dolce che riservava esclusivamente a lei le fecero provare una collera e un dolore tali da oscurare completamente le sue precedenti intenzioni. Si obbligò di calmarsi, ma l’indignazione dominò sulla lucidità e, colta da un raptus, diede un pugno così forte allo specchio che comparvero delle crepe.
Ebbe l’irrefrenabile voglia di mandare il mondo all’aria, di essere circondata dal nulla, di non essere nulla.
Dov’era finita la sua ragione?
Era stata completamente coperta dall’ira, dall’amore tormentoso per Percy. Il figlio di Poseidone e ciò che le aveva fatto occupavano con costanza e insistenza la sua mente e la privavano di qualunque altro argomento.
Nella sua vita non era rimasto niente di positivo, niente di concreto.
Stava per accasciarsi a terra, impotente, quando qualcuno bussò alla porta.
– Ehi, svit... ehm, Annabeth, ci vuole ancora molto? – chiese Cloe, una delle sue sorelle.
Svitata. 
Era etichettata in questo modo, ormai: svitata, esaurita, squinternata, sfigata.
Buffo, eppure fino a circa un mese prima era l’eroina del Campo Mezzosangue.
Lottò contro se stessa per sbollire in fretta la rabbia e apparire normale. Non avrebbe consentito più a nessuno di sotterrare la sua reputazione; non avrebbe consentito più a nessuno lo spettacolo della sua distruzione e della sua ferita non ancora guarita.
Strinse i denti e aprì la porta del bagno, sperando che non trasparisse il suo nervosismo.
– La prossima volta vedi di stare di meno, squilibrata. Puoi anche essere la capogruppo - cosa alquanto assurda - ma sappi che non possiamo aspettare che le tue allucinazioni svaniscano. – le disse acidamente Cloe.
Annabeth sgranò gli occhi, sorpresa di quanto la cattiveria della sorella fosse illimitata.
Si avvicinò velocemente a lei e l’afferrò senza troppe cerimonie per il colletto del pigiama. – Si può sapere qual è il tuo problema? Cosa diavolo ti ho fatto di male? – ringhiò furiosa.
Sentì i mormorii allarmati dei suoi fratelli, che in quel momento le circondavano senza sapere cosa fare. Li vedeva, certo, solo che le sembravano sfocati e lontani. Per lei era sbagliato il fatto che fossero lì senza fare nulla, a parte osservarle con timore.
Cloe sembrò sinceramente turbata dall’azione di Annabeth, a giudicare dal suo viso spaventato. – Levami le mani di dosso, o giuro che chiamo Chirone! Mi sembra che ultimamente non ti faccia piacere parlare con lui, no?
Il nome di Chirone la fece calmare un po’.
Preferiva non torcere nessun capello a quell’arpia, piuttosto che andare dal centauro. Aveva paura, perché lui riusciva a farle esternare i suoi sentimenti, riusciva a farla sfogare, e lei non voleva. Non voleva nemmeno vedere l’espressione preoccupata e delusa di quello che fino a un mese prima considerava il suo secondo padre. Le avrebbe fatto troppo male.
Fissò fermamente Cloe e, a mo’ di minaccia, serrò con ancor più forza la mano sul suo pigiama.
Per alcuni secondi regnò un pesante silenzio, ma ogni parte di Annabeth urlava di sbattere la testa della ragazza contro il muro per diverse volte, fin quando non si sarebbe pentita del suo comportamento crudele.
Stava per farlo realmente quando rammentò ciò si era ripromessa: non avrebbe permesso a nessuno di vederla debole, e la violenza era un segno di debolezza.
Annabeth rivolse un’ultima occhiata disgustata a Cloe, dopodiché la lasciò andare e uscì frettolosamente dalla Cabina 6.
La luce piacevole del mattino e l’insolita pace le fecero decisamente bene. Si sentiva serena e spensierata quando respirava quell’aria fresca che nessuno aveva ancora respirato e osservava la chiara alba mattutina contornata dalla flora del posto.
Ultimamente detestava il Campo Mezzosangue, e spesso  era tentata di andarsene.
Passava le notti a immaginarsi nelle grandi città a sconfiggere i mostri, a cercare di sopravvivere, a dimenticare Percy. Quell’idea le piaceva. L’entusiasmava fantasticare su una vita ricca di spaventose avventure, proprio come aveva fatto con Luke e Talia ai vecchi tempi.
Di giorno, però, la vista del Campo Mezzosangue le ricordava che faceva parte di quel mondo; le ricordava i meravigliosi anni passati lì, quando era ancora la vincente e ammirevole Annabeth Chase.
No, si disse, non l’avrebbe data vinta a nessuno. Lei sarebbe rimasta lì a rivendicare la sua rispettabilità.
Si guardò un altro po’ intorno contemplando ogni singolo dettaglio, sebbene conoscesse tutto alla perfezione, e il suo sorriso vacillò quando notò l’armeria.
I suoi piedi la condussero meccanicamente verso essa e, una volta arrivata alla porta, fece un respiro profondo e l’aprì. Il chiasso che provocò la fece quasi sussultare, e sperò che i suoi fratelli non si fossero accorti di nulla.
Dall’esterno, l’armeria non sembrava altro che un comune capanno per gli attrezzi da giardino, ma l’interno buio e polveroso celava le armi da guerra più pericolose e famose dell’Antica Grecia. Annabeth non lo dava a vedere, ma restava sempre incantata dalla sensazione di toccare delle armi forgiate centinaia di secoli prima, delle armi che avevano vissuto le guerre più sanguinose e importanti.
Si addentrò finché non raggiunse il sudicio e disordinato tavolo, dove accese la lampada a olio.
Gli altri reputavano quell’ambiente piuttosto inquietante, ma non Annabeth: dopotutto, lo considerava il suo rifugio, e non poteva farne a meno.
Lentamente, cominciò ad accarezzare uno dei numerosi coltelli sparpagliati sul tavolo. Aveva una lama liscia, stretta e sottile, una punta molto affilata e il manico era decorato con varie pietre preziose.
Chiuse gli occhi in modo da intensificare il tatto e concentrarsi esclusivamente su quell’arma.
L’accarezzava, l’accarezzava con calma immaginandosi il collo glabro e sottile di Nico Di Angelo. Poteva avvertire la lama letale penetrare nella carne del giovane semidio, la pelle mutilata dal metallo, le urla agonizzanti della sua vittima, il sangue sgorgare copioso.
I respiri di Annabeth si fecero sempre più affannati, i tocchi sempre più energici e meno delicati.
Vedeva Nico disteso su una pozza del suo stesso sangue. Non urlava più, adesso emetteva solo piccoli lamenti.
Finalmente era lei a sovrastarlo, finalmente era lei che assaporava il suo fallimento. Il pugnale ancora impregnato del caldo liquido scarlatto e vischioso la faceva sentire incredibilmente soddisfatta.
Era una vittoria, per lei.
Nico le aveva rubato fin troppe cose, e in qualche modo gliela doveva far pagare.
Le aveva rubato il sorriso, la felicità, l’amore, la vita.
Come un uragano, aveva risucchiato nell’oscurità più profonda i migliori elementi che componevano la sua esistenza.
Annabeth non avrebbe mai dimenticato il suo sguardo colpevole e imbarazzato che, tuttavia, non nascondeva l’amore che fino a poco tempo prima giocava dalla sua parte. Non avrebbe dimenticato nemmeno le sue inutili scuse tremendamente sbagliate e incoerenti.
Si sentiva umiliata, presa in giro: Nico aveva schiacciato il suo passato, il suo presente e il suo futuro, e poi le chiedeva perdono?
Ammirò per l’ultima volta il macabro lavoro creato dalla sua mente, poi si ridestò.
Le girava leggermente la testa, ma non vi fece caso: era troppo impegnata a contemplare l’arma realmente imbrattata di sangue e a congratularsi del suo risultato. Era talmente estasiata dalla morte di Nico che non prestò attenzione alle fitte dolorose della sua mano, né al fatto che il sangue appartenesse a lei.
Passò il pollice sul manico per diverse volte, studiandone la superficie irregolare che creavano gli ornamenti. Guardandolo accuratamente, capì che non era adatto a lui. Nico meritava  qualcosa di più grossolano e disadorno, qualcosa che lo rispecchiasse.
Comprese, però, di aver concesso decisamente troppo tempo al ragazzino, così si dedicò al suo amato Percy.
Annabeth si sentiva costantemente sottomessa dai forti sentimenti che provava per lui. Non accettava il fatto che lo pensasse ininterrottamente, non accettava il suo amore non più corrisposto.
Si sentiva ingabbiata dalla sua stessa mente.
Con passo cauto e calcolato, si avvicinò alla bacheca in cui erano esposti i pugnali più rari, annosi e pregiati. Ce n’erano moltissimi: d’oro imperiale, di bronzo celeste, d’argento, di rame, d’avorio, e tutti erano estremamente fregiati.
Annabeth li analizzò con attenzione, sentendosi minuscola a causa della sua ignoranza riguardo a ogni loro singola storia. Era disgustata dalla sua impreparazione, e per l’ennesima volta si sentì prigioniera di se stessa.
Una volta che ebbe valutato tutti i coltelli, stabilì che quello dal manico lavorato con smeraldi era quello giusto: le pietre incastonate nel manico avevano lo stesso colore degli occhi di Percy quando si trovava in acqua.
Lo prese con prudenza e lo sistemò tra le sue mani sporche e tremanti; poi, come in precedenza, chiuse gli occhi in modo da ampliare il tatto e l’immaginazione.
Il silenzio si fece sempre più pesante, l’ambiente più tetro, e lei si ritrovò davanti al dorso di Percy.
In un libro, aveva letto che le spalle erano il classico punto in cui, ai tempi antichi, venivano giustiziati i traditori, e capì che non era una coincidenza vedere il ragazzo solo da dietro.  
La schiena nuda sembrava fosse stata scolpita, a giudicare dai muscoli che risaltavano grazie alla pelle ambrata. Annabeth ammirò i particolari, rapita. Allungò la mano libera e, con esitazione, le diede un leggero tocco.

Sarebbe meglio se ognuno andasse per la sua strada, Annabeth.

Con volume amplificato, la voce di Percy rimbombò nella sua mente, quindi ritirò la mano come se si fosse scottata.
Fissò smarrita la sua nuca come se gli stesse chiedendo una spiegazione, ma le arrivò soltanto l’eco della stessa pungente frase.
Il ragazzo non osò voltarsi a ricambiare lo sguardo, cosa che lei gradì. Era già abbastanza  sofferente riascoltare ciò che l’aveva ridotta alla sua triste e folle ombra.
Si sentiva a pezzi. Era stanca ed esausta di quella situazione. Voleva semplicemente uscirne.
Percy era stata la cosa più bella che le fosse mai capitata in vita sua, prima che decidesse di lasciarla per stare con un uomo, e una parte di lei era comunque felice di averlo conosciuto: le aveva fatto provare emozioni che non aveva mai provato. L’altra parte, però, desiderava ardentemente non averlo mai incontrato. Ciò che le aveva fatto era la cosa più umiliante e vergognosa che lei avesse mai udito.

Non sono più sicuro dei miei sentimenti per te. La colpa non è tua, davvero. È un mio problema. 

L’unica vittima della pugnalata era lei, si disse Annabeth.
Percy aveva sputato sul suo orgoglio femminile per poi gettarlo in mare, in modo che nessuno avesse modo di recuperarlo. Aveva voltato le spalle a tutti i progetti che avevano fatto insieme, alla fantastica famiglia che avrebbero potuto creare, ai futuri bambini frutto del loro amore.
Annabeth strinse quasi dolorosamente il pugnale. 

Scusami, ma non ti amo più. 

Le cedettero le gambe.

A me piace Nico.

Il rancore la investì con una velocità e un’intensità tali da farla barcollare.
Tutti i brutti ricordi causati dalle conseguenze della scelta di Percy le turbinarono attorno come un vortice, caricando sempre più risentimento in quel piccolo stanzino.
Annabeth diede un’ultima occhiata all’invitante schiena, poi indirizzò il coltello verso l’esatto punto in cui, anni prima, vi era il Tallone d’Achille, e lo pugnalò senza alcun rimorso.
Per la seconda volta in quella giornata, avvertì un’orrida soddisfazione nel compiere quell’illecito atto.
Mentre lo uccideva, uccideva il passato insieme a lui. Immaginava di eliminare totalmente l’umiliazione, i suoi sentimenti non più contraccambiati. Immaginava cancellare ciò che era divenuta.
Lo colpì ancora, ancora e ancora.
Il classico colorito abbronzato stava man mano abbandonando la pelle di Percy; il sangue scorreva via dal suo corpo seviziato, e Annabeth vedeva che con esso scorrevano via anche gli insulti che doveva subire ogni giorno, le sue paure, la sua prigionia.
I suoi strilli strazianti erano musica per sue orecchie: le ricordavano tutte le lacrime versate per lui, e sentirlo soffrire l’appagò.
Era libera, adesso, ma sapeva che quella sensazione sarebbe stata temporanea.
Una volta ritornata alla realtà, Percy e Nico sarebbero ritornati in vita, e lei sarebbe stata nuovamente incarcerata in se stessa.
Il sangue avrebbe ripreso a scorrere nelle loro vene, e tutte le sensazioni negative e la paura sarebbero tornate a infestare la mente di Annabeth. Le offese sarebbero state le uniche parole che i suoi coetanei le avrebbero rivolto.
Le loro urla atroci si sarebbero trasformate nelle risate che avrebbero condiviso insieme, e la gioia di Annabeth sarebbe diventata angoscia.
Quei pensieri l’addolorarono irreparabilmente, tanto che non trovò più così inebriante la morte di Percy. I tormenti ricomparirono con la stessa velocità con cui fluiva il liquido dall’odore dolciastro e nauseabondo dal cadavere ormai cereo, e lei si sentì mancare. Non si era mai spaventata durante le sue allucinazioni, ma in quel momento percepì un senso di repulsione per se stessa.
Che cos’era diventata? Annabeth non si riconosceva più.
Era davvero questo, lei?
La figlia di Atena non sapeva rispondere a una domanda così semplice. Sapeva solo che una vecchia parte di lei voleva emergere da quell’inammissibile condizione.
Il sangue che sporcava le sue mani la opprimeva, adesso, così come la ripugnava guardare quel corpo martoriato.
Come poteva lei, una giovane ragazza, essere contenta soltanto in un mondo immaginario dove sopprimeva se stessa e ciò che ormai la circondava?
Se qualcuno le avesse letto il futuro qualche mese prima e le avesse raccontato in cosa si sarebbe ridotta, probabilmente gli avrebbe riso in faccia e avrebbe dimenticato quelle parole in meno di un giorno.
Era sopravvissuta a mostri, Titani, Giganti e persino alla Madre Terra, ma si lasciava annientare da se stessa e dall’amore trasfigurato in pura pazzia. 
Dopo quelli che le parvero secoli, finalmente lasciò che le lacrime bagnassero il suo viso. Non si era mai permessa di sfogarsi in quel modo; non avrebbe potuto sopportare vedersi in quello stato, eppure adesso si sentiva meglio.
Solo in quel momento avvertì il pesante macigno situato nel suo petto che si faceva più leggero ad ogni pianto e grido di pura desolazione.
Qualcuno le mise le mani addosso e la scrollò violentemente, ma lei non se ne accorse. Le sembrò che tutta la sua vita ruotasse intorno a ciò che aveva appena fatto, e questo la devastava: non riusciva nemmeno a ritornare alla realtà.
Gli strilli di Percy si fecero improvvisamente più bassi, ma il sangue sulle sue mani era ancora del tutto presente.
L’allucinazione si oscurò un po’, disturbata da una voce maschile che continuava a invocare il suo nome, da un rumore assordante e da delle mani che la scuotevano con sempre più veemenza.
Comprese che qualcuno la stava chiamando, cosa che la terrorizzò. Cosa avrebbero pensato gli altri se l’avessero vista in quello stato? Le ingiurie sarebbero aumentate, e probabilmente sarebbe stata espulsa dal campo.
Fece di tutto per non tornare al mondo reale, ma la scena divenne sempre più appannata e distante.
 
– ANNABETH!  
Annabeth spalancò gli occhi, senza fiato e ansimante.
Si trovava nella casa di Atena, sdraiata sul suo letto.
Malcom la stava scrollando come se la volesse ridestare da uno svenimento.
Si sentiva la testa pulsante, il cuore martellante e il corpo completamente teso, come se avesse dormito in una posizione scomoda per tutta la notte.
Qualcosa di molto rumoroso assillava le sue orecchie, e solo in un secondo momento capì che quel qualcosa fossero ben cinque sveglie sparpagliate sul suo letto che suonavano contemporaneamente.
– BASTA! – fu la prima cosa che le passò in mente di sbraitare.
Non si era mai sentita così spaesata e stordita.
Presa da un attimo di furia, ghermì una delle sveglie e la scagliò dall’altra parte della stanza. Ringraziò il cielo che l’oggetto smise di squillare.
– Oh, per gli dei, sei viva! – esclamò sarcasticamente Malcom. Tuttavia, era davvero sollevato che la sorella si fosse risvegliata.
Annabeth lo fissò confusa e atterrita come poche volte.
Sentiva ancora il sangue di Percy e Nico sulle sue mani, ma quando abbassò lo sguardo verso esse, le vide pulite. Il peso che sentiva al cuore era diminuito, seppure non se n’era andato del tutto.
– Perché, non dovrei esserlo? – chiese afferrando dal suo comodino una tovaglietta e utilizzandola per asciugarsi la fronte fradicia di sudore.
– Sai com’è, è da cinque minuti che ti chiamo e che punto sveglie a un centimetro da i tuoi timpani, ma di svegliarti non volevi saperne. – le spiegò il fratello.
La ragazza si accigliò, chiaramente turbata dalla sua premurosità. Da tempo nessuno si preoccupava di lei.
Prima di rispondergli, diede un’occhiata attenta alla camera.
Le finestre mostravano un sole abbagliante che illuminava persino gli angoli più remoti del bosco colmo di mostri, le sveglie erano puntate tutte per le nove e i letti erano vuoti e già sistemati.
Il cuore di Annabeth si esibì in diverse danze esotiche, ma si impose di non cantare vittoria anticipatamente.
Solo una cosa avrebbe potuto confermare i suoi sospetti.
Si alzò di scatto dal letto, ignorando le proteste di Malcom, e filò dritta verso il bagno.
Lo specchio era perfettamente intatto, e le mostrava una ragazza madida di sudore dai capelli biondi e aggrovigliati che, tuttavia, non nascondevano la sua evidente bellezza. Il suo fisico era sfilato e atletico, ostentava benessere da tutti i pori e l’unica imperfezione dei suoi occhi grigi erano gli ultimi residui di sonno.
Annabeth vide crescere il suo sorriso elettrizzato tramite lo specchio. Era così felice che ebbe l’improvvisa voglia di duettare a un karaoke con Dioniso.
Uscì più in fretta che potè dal bagno.
Senza dar peso al fatto che fosse scalza e in pigiama, corse fuori dalla casa di Atena sotto lo sguardo sconcertato di Malcom.
La ragazza potè constatare che, al contrario di ciò che dimostravano i cartoni animati, non era piacevole correre a piedi nudi sull’erba o sulle stradine. Rischiò diverse volte di incespicare su rametti o radici, e le pietre non erano altrettanto piacevoli, tuttavia non gliene importò: il suo unico scopo era trovare Percy.
Per lei era irrilevante presentarsi a lui con i piedi praticamente consumati, l’importante era incontrarlo.
Ciò che era successo nel sogno le faceva ancora battere il cuore irrefrenabilmente e la riempiva di sensi di colpa. Aveva il necessario bisogno di poterlo guardare negli occhi e stringerlo forte, perché la visione di lui in fin di vita rischiava di mandarla sul serio fuori di testa.  
Avvertì l’odore del suo ragazzo soltanto a vedere la Cabina 3, cosa che, se possibile, aumentò la velocità del suo battito cardiaco.
Sperò di non somigliare a uno dei mostri marini di Ceto, dal modo in cui era conciata, e bussò.
Nessuno aprì la porta.
Bussò per l’ennesima volta.
Silenzio.
La pazienza di Annabeth stava per esaurirsi.
– Svegliati e apri la porta, stupido Testa d’Alghe! – urlò mentre picchiava alla porta con testardaggine.
Non ricevette alcuna risposta.
– Annabeth! – esclamò una voce maschile dietro di lei.
La ragazza alzò gli occhi al cielo e si girò.
– Non è il momento, Leo. – sibilò a denti stretti.
– Buongiorno anche a te, cervellona. – le rispose allegramente il figlio di Efesto. – Volevo solo dirti che ho visto Percy proprio cinque minuti fa nel lago delle canoe. Sai, ho la strana impressione che tu lo stia cercando con urgenza. – spiegò, lo sguardo eloquente puntato sul suo pigiama e sul suo nido di capelli.
Senza nemmeno ringraziarlo, Annabeth scappò via dalla Cabina 3 e riprese dolorosamente a correre verso la nuova meta.
Il percorso fu infinito e infelice, ma ne valse la pena quando udì la voce di Percy.
Annabeth non era ancora arrivata, ma lo sentiva parlare animatamente con qualcuno. Il povero qualcuno stava per fare una fine indiscutibilmente spiacevole per mano sua, però.
Decise di avvicinarsi ulteriormente, fin quando non vide di spalle Percy seduto sulla riva insieme a Nico.
Dalle poche parole che riuscì a cogliere, capì che stavano parlando di... pesca!?
Sebbene l’argomento fosse di discutibile importanza, secondo lei nulla giustificava le loro braccia che si sfioravano di continuo. Aveva studiato dettagliatamente il linguaggio del corpo, e ciò che comunicavano gli occhi di Nico concentrati su un punto preciso del viso di Percy non le piacque per niente. Era nervoso, ma perché mai avrebbe dovuto esserlo se stavano parlando di pesca? E la testa inclinata di lato esprimeva tenerezza e simpatia, cosa che chiaramente non soddisfò Annabeth.
 Ripensando al sogno, fu certa che non avrebbe più guardato Nico allo stesso modo.
– ...me l’ha insegnato proprio Poseidone! Il segreto sta nel... – gli spiegava Percy con enfasi.
– Testa d’Alghe! – Annabeth scandì per bene le parole.
I ragazzi sussultarono da quell’interruzione improvvisa e si girarono verso di lei nello stesso momento.
Le loro espressioni sorprese la imbarazzarono un po’, ma non lo diede a vedere. Rivolgeva loro uno sguardo autoritario, come se avessero violato una delle leggi greche più antiche e sacre.
– A-Annabeth! È successo qualcosa? – le chiese un balbuziente Percy.
Nico, invece, continuava a guardarla in silenzio, insicuro se fissarla con fastidio o divertimento.
– Ti rendi conto che ti cerco da un quarto d’ora? – “combinata in questo modo”, avrebbe voluto aggiungere, ma decise di non far crollare la sua maschera di collera.
Percy si alzò, probabilmente preoccupato dallo strano comportamento della sua ragazza, e si allontanò con lei fuori dalla portata d’orecchi di Nico.
Il figlio di Ade non ne fu contento, considerando la piccola crepa nel suolo che aveva involontariamente provocato.
– Stai bene? Dimmi cos’è successo. – fece Percy squadrandola dalla testa ai piedi.
Lui e Annabeth si erano spostati di pochi metri, ma potevano benissimo accorgersi del più piccolo che cercava un modo per origliare.
– Sto bene. – lo rassicurò Annabeth, non riuscendo a non sorridere. – È solo che ho fatto un sogno e...
Si bloccò. Nemmeno a Percy poteva raccontare quel folle incubo.
– E...? – la spronò.
– E volevo vederti. Lo so che Gea è stata sconfitta, ero solo preoccupata. – mentì, sentendosi un po’ in colpa.
Il suo era solamente uno stupido sogno, e non doveva rimpiangere il fatto di non averlo raccontato al suo ragazzo. Non aveva intenzione di apparire più ridicola di quanto non fosse già. E poi, era sicura che se avesse confessato, sarebbe scappato via inorridito da lei e l’avrebbe lasciata senza alcun rimpianto. 
Percy immerse per qualche secondo i suoi occhi in quelli di Annabeth, e capì subito che non era stata del tutto sincera con lui. Era curioso di sapere cosa mai avesse sognato, ma non voleva forzarla: era sicuro che prima o poi gliene avrebbe parlato.
Le sorrise e avvolse le sue spalle con un braccio.
Quel contatto la fece rabbrividire e irrigidire come un manico di scopa, e le immagini del suo corpo esangue irruppero nei suoi pensieri.
– Okay. – rispose nascondendo la sua inquietudine. Cercò di spezzare la tensione creatasi tra di loro. – È bello sapere che la mia ragazza è disposta a correre a piedi nudi e con capelli simili a quelli di una gorgone solo per vedermi. Di solito siete così malvagie che dovete sistemarvi il trucco e la messa in piega prima di soccorrere il vostro ragazzo in fin di vita.
Annabeth incrociò le braccia. – Vedi di non vantarti, stupido. – ma un secondo dopo il suo viso s’illuminò con un piccolo sorriso.
– Non dovrei vantarmi della mia ragazza? – chiese a trabocchetto.
Effettivamente, pensò lei, era meno idiota di quanto desse a vedere.
Annabeth gli scoccò un’occhiata omicida, cosa che lo divertì, e la strinse a sé con più affetto.
– Sei stupenda anche così, comunque. – le sussurrò all’orecchio.
All’improvviso, ogni traccia d’ansia e di preoccupazione si sciolsero come la neve in primavera. Percy riusciva in qualunque circostanza a tirarla su di morale e ad eliminare qualunque cosa negativa che la crucciava.
I due stavano insieme da tempo, eppure lei si sentì avvampare. I complimenti che lui le faceva la spiazzavano sempre, benché a volte li giudicava inappropriati ed esagerati. Se poi ad accompagnarli erano la sua voce bassa e le sue mani sul suo corpo, rischiava seriamente di perdere la ragione. Spesso si domandava tra sé e sé come riuscisse a mantenersi calma e determinata in quei momenti.
La figlia della saggezza sentì crollare quella maschera d’ira che si era ordinata di non distruggere, e adesso assumeva un’espressione compiaciuta.
Avvolse il collo di Percy con le braccia.
– Fai bene a dirlo. – disse mentre posava le labbra su quelle salate del suo ragazzo e diminuiva la distanza tra loro.
Si scambiarono un casto e dolce bacio e si sorrisero, poi Annabeth si ricordò di Nico.
Il più piccolo dava loro le spalle, ma aveva il capo leggermente girato verso la loro direzione. Annabeth non sapeva se fosse per la presenza di Percy o per il suo buonsenso, ma non era più tanto arrabbiata con lui.
Non lo reputava suo rivale e non lo considerava una minaccia, tuttavia la fece riflettere.
Essere semidei era difficile. Non si poteva avere la certezza di vivere serenamente e trascorrere gli ultimi anni di vecchiaia insieme al proprio compagno di vita gustando le risate infantili dei nipoti e dei pronipoti. No, essere semidei implicava una serie di sconvenevoli, tra cui le incertezza e i pericoli.
Eppure, Annabeth aveva le sue sicurezze.
Aveva Percy e il suo amore, e bastava questo a renderla una persona felice.
La sua ambizione era diventare architetto, e stava già lavorando sul suo primo progetto: il futuro. Aveva avuto bisogno di tanta pazienza, un passato doloroso, un amore sconfinato e la persona che amava per comporlo, ma quando lo immaginava concluso, non poteva non ammettere che ne era valsa davvero la pena.
Avrebbe fatto di tutto per proteggere il suo amato piano, non poteva di certo permettere che qualcuno mettesse le mani su di esso per poi distruggerlo come se nulla fosse, dato che era sufficiente un solo ma essenziale costituente in meno a farlo franare.
Mentre si perdeva nel grande verde oceano degli occhi del suo innamorato, Annabeth si impressionò della sua risolutezza, e considerando il sogno, non seppe se andarne orgogliosa o preoccuparsi.




NOTE NOIOSE DELLA FOLLE AUTRICE
Intanto volevo chiedere scusa a tutti coloro che hanno letto questo mostro di quasi 5.000 parole e fare i complimenti ai sopravvissuti! :D
*applaude*
Okay, questa è la mia prima e ultima Percabeth!
Anche questa è stata una sfida personale, dato che sono una Percico Shipper fino al midollo, però buh, avevo troppo voglia di scrivere almeno una volta su questi due e mi si è presentata l’occasione grazie al contest :)
Ovviamente non potevo proprio scrivere una Percabeth normale, io Ann i protagonisti li devo fare soffrire, prima u.u
...
E non so che cos’altro dire! yay
Spero solo che l’introspezione – quindi praticamente tutta l’OS – non sia stata pesante e che vi sia piaciuta! Dato che il tema è la pazzia, credo sia stato più idoneo sviluppare la fanfiction nella mente della protagonista. I dialoghi non sarebbero stati adatti, a mio parere.
Ogni volta queste note sono più lunghe della storia, but who cares, io devo dire l’ultima cosa ;)
Se aveste qualcosa da dire o da ridire, ve prego (?), fatelo. Non aspetto altro che commenti costruttivi!

Efthalia
  
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